N. 16 - Aprile 2009
(XLVII)
ISOLE,
MIGRANTI, PENSIERI
conversazione
con Vincenzo Consolo
di Ettore Janulardo
J. Vorrei cominciare la
conversazione con questa domanda: che cosa si prova come
uomo e come scrittore di fronte alle scene degli ultimi
giorni a Lampedusa, ferimenti e auto-ferimenti, incendi
e reclusioni, proteste e contestazioni?
C. Si prova molto dolore e anche indignazione. E’
veramente qualcosa di terribile, di atroce quello che
avviene a Lampedusa e quello che avviene nel Canale di
Sicilia con tutti i morti che ci sono stati in questo
Mediterraneo di morte, ormai diventato. Voglio dire che
i rapporti fra le due sponde, fra la Sicilia e il
Maghreb, la costa settentrionale dell’Africa sono stati
rapporti da sempre continui, antichi. C’é stato sempre
uno scambio, c’é stata molta emigrazione dalla Sicilia,
dall’Italia meridionale nel Maghreb negli anni passati.
Parlo degli esuli politici ma anche di molti lavoratori
che appunto in seguito a crisi economiche sono emigrati
in Tunisia, in Algeria, in Marocco, e soprattutto in
Tunisia, dove appunto si sono stabilite molte comunità
sia di siciliani che di calabresi. E poi voglio dire che
c’é anche una novella del Boccaccio, che si chiama La
ciciliana, dove appunto racconta di un pescatore di
Lipari che, innamorato di una ragazza ricca, nobile, non
può sposarla e quindi sale su una barca e arriva in
Tunisia, a Sousse, Susa, quella che oggi é Sousse, e poi
la ragazza appunto cerca di raggiungerlo, arriva anche
lei lì a Susa e incontra dei pescatori di Trapani, una
donna – dice Boccaccio – “che così latin parlava”. E
quindi voglio dire che questo scambio c’é stato sempre
fra le due sponde. E dal ’68 in poi, anzi, anni prima, é
incominciato l’esodo dei tunisini in Sicilia in seguito
al fallimento, ancora al tempo di Burghiba, della
riforma agraria in Tunisia: il progetto si chiamava, con
una bellissima frase, “Rigenerazione della terra”. E
quindi, questi tunisini hanno incominciato ad arrivare
in Sicilia, allora non c’erano questi CPT, questi Centri
di Permanenza Temporanea, insomma arrivavano a Mazara
del Vallo, ch’era la città dov’erano approdati i loro
antenati quando la Sicilia é stata conquistata dai
musulmani, e si sono stabilitì lì, a Mazara del Vallo,
hanno formato una comunità, integrati perfettamente,
insomma, accolti, diciamo. Invece oggi ci sono queste
leggi terribili italiane … questi Centri di Permanenza
Temporanea che sono dei veri e propri lager, e poi
succedono appunto, da parte di questi disperati, queste
ribellioni. Non é la prima volta che questo succede,
l’altra volta era successo a Trapani, al centro
“Serraino Vulpitta”, dove appunto questi imprigionati
avevano dato fuoco, poi ci sono stati feriti. E quindi
ci sono veramente episodi di autolesionismo, di
ribellione, di tentati suicidi, insomma é qualcosa di
terribile che in una società civile non é possibile
accettare. E poi questi centri, oggi voluti dal nostro
Ministro degli Interni, questi di Identificazione e
rimpatrio, con queste persone chiuse in questi lager:
sono dei veri e propri lager. Lì veramente c’é quella
che é, appunto, la lesione dei diritti dell’uomo, e
quindi veramente dovrebbe essere la Corte Europea a
incaricarsi di queste vicende nostre italiane, che sono
delle vicende – ripeto – insopportabili, vergognose per
un paese civile.
J. A proposito dei rapporti storici tra Sicilia e
Maghreb, mi é capitato anche recentemente di vedere una
rivista d’italiani pubblicata in Tunisia, “Il Corriere
di Tunisi”, dove si parla ancora oggi di persone –
soprattutto pensionati – che partono dalla Sicilia, che
si stabiliscono in Tunisia, nel Nord Africa, per ragioni
di ordine economico ma anche in fondo di nostalgia,
diciamo così, per un sistema di vita forse considerato
più semplice, più vicino a quello delle proprie origini,
quindi sono rapporti tuttora presenti, almeno dal punto
di vista della Sicilia verso il Nord Africa.
C. Conosco questo fenomeno di molti pensionati che vanno
a stabilirsi in Tunisia perché lì insomma con la
pensione, che da noi é molto misera, lì almeno riescono
a vivere dignitosamente. Ma, ripeto, c’é stata questa
emigrazione alla fine dell’Ottocento-primi del Novecento
dove appunto molti siciliani si sono stabiliti lì,
lavoravano al porto della Goulette, alle miniere di
solfato di Sfax, nell’agricoltura, in tanti altri
luoghi. Se si va in Tunisia ancora s’incontrano dei
discendenti di questi emigrati nostri che sono andati
lì; perché si parla molto dell’emigrazione negli Stati
Uniti o piuttosto che in Australia o in Sud America, ma
insomma questa vicenda dell’emigrazione nel Maghreb dei
nostri connazionali si conosce poco, veramente. C’erano
della comunità in Tunisia allora che si chiamavano
appunto “Piccola Sicilia”, “Piccola Calabria”, e
ricordiamoci – noi ci vantiamo tanto delle nostre dive,
delle nostre attrici o attori, per esempio Claudia
Cardinale era una donna che era nata in questa comunità
di siciliani appunto in Tunisia. Bisogna anche ricordare
Mario Scalise, figlio di emigrati trapanasi, autore de
Le poéme d’un maudit, che é stato il primo poeta
francofono del Maghreb.
J. Da parte del governo e delle forze di maggioranza,
siamo in presenza di una linea politico-culturale
precisa o si procede in modo empirico, sulla base delle
contingenze – sbarchi più o meno ravvicinati –, sulla
base dei sondaggi? C’é una direttiva o si procede un po’
a tentoni?
C. Si procede a tentoni. Oggi c’é questa paura
dell’immigrato e quindi si procede in modo, veramente,
così irrazionale. Voglio dire che da tempo avrebbero
dovuto, i nostri governanti, prendere accordi con questi
paesi da cui vengono questi immigrati e stabilire
appunto delle regole per poter evitare tutte queste
tragedie. Insomma, il nostro Presidente del Consiglio
non so quante volte é andato a parlare con il dittatore
Gheddafi facendo delle grandi promesse che poi non sono
state mantenute e quindi ci sono – partono quasi sempre
dalla Libia questi emigranti –, ci sono questi
speculatori che fanno traghettare questi disgraziati,
questi mercanti di vite umane che approfittano di queste
tragedie. C’é un libro che é uscito da poco, che si
chiama A Sud di Lampedusa, dove l’autore, Stefano
Liberti, viaggiando sulle rotte dei migranti, ha appunto
fatto un’inchiesta sui luoghi in cui questi disgraziati,
che vengono dal centro dell’Africa, dal sud sahariano,
arrivano lì in Libia, vengono detenuti veramente in
campi di concentramento, in lager. Molto spesso vengono
buttati nel deserto e muoiono, insomma voglio dire che
veramente sono delle cose che non si riescono a
immaginare, di una crudeltà e di una inciviltà assoluta.
Quando poi noi parliamo della Shoah, parliamo di altre
terribilità che sono succedute nella nostra storia,
dovremmo guardare al presente, a quello che avviene oggi
in questo nostro mondo, in questi nostri paesi.
J. Certamente si procede in modo empirico, come
dicevamo…
C. Sì, s’improvvisa, suscitando anche, così, quelle che
sono le paure della gente, la paura dell’altro,
dell’estraneo, dell’emigrato, mettendo sempre in
evidenza questa paura, questa terribilità, insomma…
Quindi c’é della irrazionalità e anche dell’opportunismo
nel gestire quelli che sono veramente gli istinti delle
persone, suscitando soprattutto la paura e quindi, così,
questi atteggiamenti razzistici e xenofobi nei confronti
del diverso, dell’estraneo, dello straniero che viene
qui da noi.
J. Ecco. Forse, appunto, c’é comunque, al di là
dell’improvvisazione evidente, evidentissima, c’é
comunque alle spalle un retroterra che ha bisogno di
questa situazione per innescare delle politiche
particolarmente restrittive, particolarmente orientate.
In certo qual modo, anche l’irrazionalità diventa
funzionale a un progetto, a un percorso politico, direi,
a una prospettiva politica e “culturale”, quindi di
separazione, separazione dei diversi, d’individuazione
di gruppi da colpire, insomma.
C. Sì, voglio dire che veramente bisognerebbe, così,
fare una politica più razionale, più di civiltà, e
capire queste persone. Andare a vedere, capire,
stabilire dei rapporti con i governi locali di queste
persone che vengono da noi. Insomma, perché poi la
storia dell’umanità é una storia di emigrazione, di
incroci di civiltà e di arricchimento reciproco: quindi,
voler fermare con dei muri questo fenomeno veramente é
un velleitarismo, é anche un opportunismo da parte dei
nostri politici, di chi ci governa. Io voglio ricordare
due viaggiatori musulmani che sono arrivati in Sicilia
dopo la conquista normanna – uno Ibn Jubayr e l’altro
Ibn Haukal – che arrivano in Sicilia, vanno a Palermo e
rimangono meravigliati che, sotto i normanni, c’erano a
Palermo trecento moschee, c’erano sinagoghe ebraiche,
chiese cristiane di rito orientale e di rito romano, e
c’era una convivenza reciproca, una tolleranza, un
arricchimento e quindi – così com’era a Sarajevo,
com’era in tanti altri luoghi di incroci di civiltà – io
credo che appunto quelli sono i momenti alti della
civiltà. Quindi voler restringere, alzare dei muri mi
sembra assolutamente illogico, mi sembra assurdo
frenare. Voglio dire: sì, controllare, arginare,
prendere accordi con i governanti dei luoghi da cui
questi disgraziati provengono; ma non vengono, come
diceva Verga, così, per capriccio o per vaghezza
dell’ignoto, vengono perché sono costretti dalle guerre,
dalle malattie, dalla fame. Insomma, sono persone che
vengono dai luoghi che noi europei abbiamo sfruttato col
nostro colonialismo, lasciando impoveriti questi luoghi,
e quindi oggi non sopportiamo che queste persone vengano
da noi per costrizione, non per capriccio.
J. Sempre a proposito della situazione degli ultimi
giorni, il sindaco di Lampedusa, Bernardino di Rubeis,
si chiedeva qualche giorno fa: “La chiama isola o la
chiama carcere? E’ Lampedusa o Guantanamo?”. Oggi, che
cos'é Lampedusa ai suoi occhi?
C. E beh, sì, é una Guantanamo, é un carcere. Io, se
penso che questo sindaco di Lampedusa, che non é una
persona di sinistra, é una persona di destra, siccome
vive sulla sua pelle e sulla pelle dei suoi concittadini
questo fenomeno, quindi ci sono stati questi movimenti
della popolazione, queste manifestazioni, perché non é
possibile ridurre quest’isola a un carcere, a un lager
insomma. Lampedusa poi, ne parla Ariosto nel suo poema,
dice che lì avviene l’ultimo scontro fra i “tre contro
tre”. Era un’isola aspra, dura, adesso é diventato un
luogo di accoglienza, di vacanze, di turismo, e relegare
lì in quest’isola, come se fosse Ventotene o luoghi
appunto di prigionia, mi sembra qualcosa
d’insopportabile. Non é possibile, insomma, creare
questi luoghi di dolore, di afflizione e di umiliazione.
J. Possiamo dire, come ne Le pietre di Pantalica,
che c'é un progressivo avvicinarsi di questa terra alle
durezze e alle crudeltà della storia?
C. Sì, certo, sì. Senz’altro sì. Sono durezze, sono
crudeltà. Noi difendiamo il nostro benessere con questa
ferocia. Ecco, poi non capiamo che l’arrivo di queste
persone, che sono spesso giovani, ahimè ci sono pure
bambini e donne, ecco, sono il nostro futuro, insomma
noi viviamo in una società opulenta, siamo una
popolazione vecchia e grassa: se guardiamo in giro il
nostro panorama, che vengano questi magri e questi
giovani, insomma…, che finalmente cambiano questa nostra
società opulenta e alienata.
…
J. E’ il centenario del futurismo. Proviamo a guardare
al procedere dei migranti e al loro incontro-scontro con
chi é qui sulla scorta del trittico boccioniano degli
Stati d’animo. Parliamo degli Addii, del senso del
saluto, della paura e della speranza di rivedersi. Che
cosa si può provare, sentire al momento dell’addio,
della partenza?
C. Si prova dolore. Poi ci sono molti racconti, romanzi
su questo tema dell’emigrazione, molti saggi. Voglio
ricordare soprattutto un grande scrittore, che era De
Amicis, che appunto ha scritto Sull’Oceano, dove parla
appunto della nostra emigrazione negli Stati Uniti e in
Sud America. Il distacco dalla propria terra non é
indolore, insomma, quindi non si va così per capriccio o
per vedere la diversità e l’altrove, si va via per
necessità. Io ho letto dei rapporti del commissario
all’emigrazione al porto di Palermo durante
l’emigrazione dell’inizio del Novecento – fine
dell’ottocento-primi del Novecento – e questo
commissario racconta che appunto, lì a Palermo, venivano
sottoposti – c’erano le delegazioni americane – venivano
sottoposti alle visite questi che volevano emigrare, e
provavano molta difficoltà per esser imbarcati, per
poter emigrare. Lì, in quei tempi, c’era una malattia
molto diffusa che era il tracoma, una malattia agli
occhi, e c’erano poi dei delinquenti che spacciavano
delle boccettine, facendo credere che con quelle
boccettine di liquido potevano guarire dal tracoma.
Contemporaneamente, però, quelli che erano i delinquenti
malavitosi venivano subito imbarcati e spediti negli
Stati Uniti, dove poi, lì, é nato il gangsterismo, la
mafia e tutto quanto sappiamo. Quindi non vedeva l’ora,
lo Stato italiano, di liberarsi dei delinquenti, però i
contadini, i braccianti, eccetera, venivano sottoposti a
tutti questi controlli e poi gli altri controlli che
avvenivano in America nell’isola di Ellis Island, quell’isola
dove c’era la quarantena e tutto quanto... Però lì i
nostri emigranti si sono fatti onore, si sono integrati,
gli onesti hanno lavorato, hanno portato progresso nella
terra di accoglienza.
J. Sì, per restare all’immagine di Boccioni, sono Gli
addii e sono anche Quelli che vanno, quelli che in certo
qual modo hanno qualcosa poi da raccontare…
C. Certo, certo. C’é un autore italo-americano, si
chiama Jerry Mangione, che ha scritto un libro molto
bello che si chiama Monte Allegro, Monte Allegro é il
paese d’origine della sua famiglia. Lui racconta appunto
il luogo da cui proviene, in America, e poi questo suo
viaggio di ritorno nel luogo di provenienza dei suoi
genitori: é un libro molto bello e significativo su
questi ritorni, il viaggio di ritorno nella terra dei
padri.
J. Sempre con l’immagine della pittura bocconiana:
Quelli che restano. Pensando che ci sono vari modi di
“restare”: ci sono quelli che restano lontano, quelli
che sono rimasti nel luogo di partenza di altri; quelli
che restano – o che vorrebbero restare – là ove sono
giunti; e poi, forse, c’é anche un altro modo di
restare, cioé quelli che sono gli abitanti nativi di
Lampedusa, o di altre terre, che restano lì dove sono ma
che non hanno più un’esistenza come la precedente, non
hanno più un’esistenza omogenea come quella di prima.
C. La loro esistenza é sconvolta. Volevo ricordare, a
proposito di Boccioni, anche una poesia di Pascoli, che
é emblematica proprio in questo senso. Si chiama Italy e
parla di una famigliola che ritorna dagli Stati Uniti
con il padre, la madre e la figlia Molly. E c’é per la
prima volta, nella storia della letteratura italiana, il
mistilinguismo, nel senso che c’é la bambina che parla
solo americano, inglese insomma, e i genitori che
parlano lo slang, la lingua che si usava appunto nelle
comunità italiane, che si parla ancora nelle comunità
italiane d’oltreoceano, e i nonni che parlano italiano.
J. Per avvicinarci alla conclusione di questa
conversazione, quindi, a suo parere, quali potrebbero
essere, attualmente, delle prospettive diverse per
affrontare questa situazione?
C. Mah, le prospettive dovrebbero essere quelle
veramente di liberare questi prigionieri dall’isola di
Lampedusa, e soprattutto il governo italiano dovrebbe
incaricarsi di andare a vedere… I nostri ministri o
sottosegretari incaricarsi di andare a vedere i luoghi
di provenienza, prendere accordi con i governi locali
per vedere di rendere, appunto, gli esodi, l’emigrazione
di queste persone più umani, di non costruire questi
lager, di non costruire qui, nel nostro paese,
nell’isola di Lampedusa o altrove, questi luoghi di
detenzione e spesso di violenza, di sopruso e di
sopraffazione.
J. Sì, ch’é poi quello che, a parole, dichiarano di
voler fare e poi in pratica non viene mai fatto…
C. No, no, no.
J. O comunque non viene fatto con metodo, con costanza,
con efficacia…
C. No, tutto é affidato appunto al controllo militaresco
dei poliziotti, dei carabinieri o di chi per loro. Ecco,
spesso queste ribellioni da parte di questi detenuti, di
questi carcerati vengono fatte con violenza, devo dire,
e poi ci sono questi atti di autolesionismo, gli
incendi, i tentati suicidi, di cui abbiamo letto… E’
qualcosa che in un paese civile non dovrebbe accadere.
J. Pensa che ci siano delle differenze rispetto ad altre
ondate, diciamo, di sbarchi, di presenze…
C. Guardi, c’é l’esempio della Spagna. Anche lì, nello
Stretto di Gibilterra, c’era molta emigrazione dal
Marocco in Spagna. Il governo spagnolo ha preso accordi
con il Marocco per evitare questo continuo travaso di
emigranti in Spagna, però adesso questi qua emigrano
anche loro con barche di fortuna, andando incontro anche
a naufragi, a disastri, dalla Mauritania. E quindi, sì,
voglio dire, si possono fare accordi, però non accordi
soltanto per alzare muri, per reprimere, ma bisognerebbe
anche…
J. Accordi di integrazione…
C. D’integrazione, certo.
J. Ma rispetto al passato, in Italia, quando c’era la
presenza di albanesi o di polacchi, nota – diciamo – uno
stato d’animo differente, una percezione differente?
C. Senz’altro sì. Guardi, io portavo l’esempio di Mazara
del Vallo, dove appunto questi emigranti tunisini si
sono stabiliti lì, voglio portare l’esempio di un
professore tunisino che é sbarcato lì, appunto a Mazara
del Vallo, e adesso insegna all’Università di Ragusa,
insegna la lingua araba, ma si possono fare tanti altri
esempi. Se uno va a Mazara del Vallo ci sono dei negozi
che sono gestiti da donne arabe o da donne tunisine e da
donne siciliane e quindi c’é un processo d’integrazione.
Voglio dire, sono degli esempi: perché non si aprono? Io
poi, stando qui a Milano da parecchi anni, dal ’68, ho
visto arrivare le prime ondate di emigranti, di
egiziani, eccetera, però non c’era questa repressione,
questa paura dell’altro, del diverso; certo, ci sono
stati episodi, voglio dire soprattutto da parte dei
rumeni, degli albanesi, insomma, che hanno fatto
allarmare la popolazione, però, capisce, insomma, chi
sono? da dove vengono? Il governo rumeno ha accusato lo
stato italiano di razzismo… Ma tutti i giornali europei
parlano di questa situazione che non é civile, la
situazione italiana di oggi nei confronti di questi
stranieri.
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