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filosofia & religione


N. 63 - Marzo 2013 (XCIV)

Michele Serveto

la fedeltà alla Bibbia fino al martirio
di Lawrence M.F. Sudbury

 

Se una vicenda storica può assurgere al ruolo di epitome del clima di intransigenza controriformistica del XVI secolo da un lato e della paritetica intransigenza fanatica che caratterizzò gran parte della Riforma magistrale dall’altro, questa è, senza dubbio, quella di colui che può essere definito se non il primo certamente il più famoso martire del libero pensiero teologico di quel travagliato periodo: Michele Serveto.

Ricostruire compiutamente i percorsi della vita di questo figlio della cattolicissima Spagna che ebbe il coraggio di proclamare le proprie idee fino a essere messo al rogo a Ginevra per ordine di Calvino, non è sempre facile, stanti le scarse e spesso inconsistenti registrazioni che ci sono pervenute.

Verosimilmente Michele (Miguel) nacque nel 1511 a Tudela, una piccola città della Navarra, ma durante la sua prima infanzia i suoi genitori si trasferirono a Villanueva, in Aragona, dove suo padre aveva ricevuto la nomina a notaio reale, un ufficio di una certa distinzione che permetteva alla famiglia di vivere agiatamente. Certamente i suoi genitori dovevano essere devoti cattolici e molti studiosi ritengono che indirizzassero il figlio al sacerdozio, come è facile presumere dal fatto che Miguel, studente di notevole precocità, già dalla prima adolescenza avesse acquisito una notevole conoscenza del latino, del greco, dell’ebraico e della filosofia scolastica.

Era un periodo molto particolare per la Spagna: i regnanti Ferdinando e Isabella avevano deciso di garantire l’unità politica della loro nuova nazione costringendo all’uniformità religiosa in uno spirito di intollerante ortodossia e, nel 1492, per non aver rinnegato la fede dei loro padri e professato il Cristianesimo, 800.000 Ebrei erano stati banditi dal regno, mentre gli ultimi Mori venivano cacciati da Granada o costretti a scegliere tra abbandonare l’Islam o le loro case. In entrambi i casi il dogma della Trinità si era rivelato un ostacolo insormontabile alla conversione e nel periodo in cui Serveto visse la sua fanciullezza circa 20.000 vittime, ebrei o islamici, erano state messe al rogo. Nonostante qualche tentativo di resistenza da parte degli Aragonesi, l’Inquisizione era stata istituita anche in Aragona e con ogni probabilità i suoi metodi brutali dovevano aver notevolmente impressionato il giovane Serveto che, forse proprio per questo, decise di abbandonare l’idea di una carriera ecclesiastica e, per volontà di sua padre, a diciassette anni, si trasferì a Tolosa per studiare legge in una delle università più famose d’Europa per gli studi giuridici.

Fu in questo periodo che, dalla lettura diretta della Bibbia, il cui significato gli apparve da subito così lontano dalla dogmatica scolastica che aveva studiato fino a quel momento, cominciò a formarsi in lui quella concezione anti-trinitaria che avrebbe condotto la sua intera esistenza. Tale concezione e il rifiuto della Chiesa Cattolica si chiarirono nella sua mente l’anno seguente, quando, lasciati gli studi giuridici, per i quali non aveva alcun interesse, Miguel trovò impiego come segretario personale di fra’ Juan de Quintana, confessore del giovane imperatore Carlo V: proprio seguendo il suo datore di lavoro a Bologna, per l’incoronazione imperiale del 1530, il giovane spagnolo poté assistere al lusso sfrenato della Chiesa e agli intrighi politici e all’immoralità che regnavano nella corte pontificia, tanto che, da quel momento, il papa divenne per lui la raffigurazione terrena dell’anticristo predetto nel Nuovo Testamento.

Il caso volle che da Bologna l’Imperatore (naturalmente seguito dal de Quintana), si muovesse alla volta della Germania per partecipare alla famosa Dieta di Augusta, nella quale il Protestantesimo doveva ottenere un riconoscimento politico da parte dell’impero e Melantone doveva presentare all’approvazione imperiale la Confessione di Augusta, in pratica la prima grande formalizzazione delle dottrine protestanti. Serveto, al seguito dell’imperatore, aveva già avuto modo di leggere alcuni scritti di Melantone (e forse anche di altri riformatori) ed era ansioso d’incontrare quegli uomini di cui aveva a lungo sentito parlare e che, riteneva, avevano la stessa missione che sentiva affidata anche a lui stesso: riformare la dottrina cattolica, possibilmente in senso anti-trinitario. È in questo scenario che dobbiamo inquadrare la sua “scandalosa” iniziativa di lasciare improvvisamente il servizio del de Quintana per cercare di mettersi in contatto con i capi del Protestantesimo: sebbene, infatti, la Confessione di Augusta avesse chiaramente dichiarato l’accettazione da parte dei Riformati del Credo niceno e atanasiano, le Chiese protestanti non avevano ancora adottato un credo proprio permanente e formalizzato e il giovane e idealista Miguel era convinto che le sue teorie contrarie alla trinità avrebbero potuto essere facilmente accolte da coloro che avevano già messo in discussione il primato petrino.

È certamente questa la ragione che spinge il giovane aragonese a dirigersi, nell’autunno del 1530, a Basilea e a cercare di ottenere una serie d’incontri con Ecolampadio, il leader della Riforma di quella città. Ora, per comprendere quanto avvenne in seguito, dobbiamo avere ben chiara in mente la situazione: Serveto è, agli occhi di Ecolampadio, un ragazzo di diciannove anni, straniero e cattolico, mentre lui, già quarantenne, è un teologo affermato e, soprattutto, molto occupato nel governo della città in un momento cruciale per l’intera Riforma. In quest’ottica, è abbastanza naturale che, dopo aver acconsentito a incontrare un paio di volte questo giovane spagnolo le cui opinioni apparivano per lui inaccettabili e dopo aver tentato inutilmente di convincerlo dei suoi “errori”, Ecolampadio perdesse la pazienza e rispondesse a una ennesima richiesta di colloquio con una missiva piuttosto irata in cui, tra l’altro, chiedeva ironicamente all’insistente interlocutore se ritenesse che lui non avesse niente di meglio da fare che stare a rispondere inutilmente alle sue domande.

Tale missiva, in qualche modo, poneva la parola fine al rapporto tra Ecolampadio e Serveto e quest’ultimo, dopo aver cercato inutilmente di ottenere un incontro con Erasmo, che all’epoca viveva proprio a Basilea, decise di spostarsi a Strasburgo per vedere che cosa sarebbe riuscito a ottenere dai riformatori di quella città. Strasburgo era, a quel tempo, la più liberale tra le città protestanti: Denck e altri Anabattisti vi si erano rifugiati pochi anni prima e la loro influenza era ancora molto sentita e presente. Bucero e Capitone, i leader riformatori della città, ricevettero Serveto molto gentilmente e, in un primo momento, pare che provassero una certa simpatia per le sue idee, tanto da far sperare lo spagnolo che tali teorie potessero essere ufficialmente adottate nel credo cittadino, ma Zwingli, fondatore e leader della Riforma svizzera, che era già stato messo al corrente delle opinioni anti-trinitarie del ragazzo e le aveva definite bestemmie terribili che avrebbero potuto portare danni incalcolabili alla causa protestante, aveva già messo in guardia tutti i capi delle città contro qualsiasi deriva anti-trinitaria e, in fin dei conti, Serveto si trovò a cozzare a Strasburgo, così come già prima a Basilea, contro un muro di gomma di pregiudizi e di rifiuto.

Nonostante ciò, Miguel, che si sentiva mosso da un impulso divino a emendare la Chiesa dai suoi errori, non si lasciò scoraggiare e decise di andare direttamente alla fonte, tentando di conquistare alle sue idee addirittura Melantone o Lutero. Per far ciò, però, era necessario che mettesse le sue tesi per iscritto e le facesse stampare, cosa non facilissima neppure nella protestante Basilea, in cui era nel frattempo tornato, per i rischi che la stampa di dottrine considerate eretiche poteva comportare sia per lui che per un eventuale stampatore. Dovette, così aspettare l’estate del 1531 per trovare a Hagenau, in Alsazia, un tipografo abbastanza coraggioso da produrre un testo che, uscito comunque senza indicazione editoriale, doveva avviare una profonda rivoluzione nel mondo religioso: il “De Trinitatis Erroribus”. Scritto in un latino piuttosto grezzo, il testo, che avrebbe voluto essere un attacco al concetto della trinità basato su un impressionante (per un ventenne) corpus di letture, mostra oggi certamente i limiti di un pensiero non ancora completamente maturo e di concetti teologici non sempre compresi a fondo ma, ugualmente, una volta messo in vendita, ebbe un successo di pubblico notevolissimo in Svizzera, Germania e nord Italia.

Dalle sue lettere appare chiaro che Serveto si aspettasse ingenuamente che i riformatori avrebbero dato il benvenuto al suo contributo alla loro causa non appena avessero riflettuto su quanto aveva scritto ma, purtroppo, avvenne esattamente il contrario: Melantone, è vero, ammise che si trattava, in alcuni punti, di un buon testo e Ecolampadio fu d’accordo con lui nell’affermare che esso conteneva molti aspetti positivi, ma ogni più piccola lode fu presto schiacciata dal coro generale di denuncia. Lutero lo ritenne un libro “abominevolmente malvagio”, Melantone predisse immediatamente che da esso avrebbero potuto sorgere immani tragedie, Ecolampadio ammonì che, se fosse stato tollerato, il testo avrebbe potuto essere devastante per la Riforma dando all’imperatore armi per accusarla di eresia e Bucero arrivò addirittura ad affermare che l’autore, che evidentemente doveva aver imparato la sua dottrina dal “Gran Turco” in Africa, avrebbe dovuto essere pubblicamente squartato.

 

Insomma, in breve tempo la vendita del “De Trinitatis Erroribus” venne proibita in tutta l’Europa protestante (come già, ovviamente, era immediatamente avvenuto nell’Europa cattolica, allorché il de Quintana, scioccato che l’autore di quel “libro pestilenzialissimo” fosse stato un suo protetto, aveva ordinato di bruciarne tutti gli stampati presenti nell’Impero) e si procedette a una eliminazione così sistematica di qualsiasi copia che quando, una ventina d’ anni più tardi, si cercò il testo per usarlo come prova a carico nel processo di Ginevra contro Serveto, non fu possibile reperirne neppure un solo esemplare. Come se ciò non bastasse, su richiesta di Ecolampadio Bucero scrisse una confutazione delle tesi di Serveto (che, però, non osò mai pubblicare) e, sebbene non si fosse proceduto ad alcuna accusa formale contro l’autore, ingiunse allo spagnolo di lasciare immediatamente Strasburgo, dove il ventenne aragonese era tornato dopo la pubblicazione del testo.

A questo punto, Serveto non poté fare altro che trasferirsi ancora una volta a Basilea, dove sopravvisse per qualche tempo dando lezioni di spagnolo e da dove, con un ennesimo colpo di testa, inviò l’ultima copia del “De Trinitatis” a una fiera del libro a Lione. Quest’ultima mossa provocò una reazione così negativa contro di lui in tutto il mondo protestante che Miguel si sentì in dovere di scrivere a Ecolampadio offrendosi di lasciare la città o, addirittura, di ritrattare le tesi esposte nel suo libro tanto esecrato. Ecolampadio, indulgentemente, propese per la seconda ipotesi, ma, nella primavera successiva, la presunta ritrattazione, che uscì con il titolo di “Dialoghi sulla Trinità” (il dialogo era, a quel tempo, la forma preferita per disquisire di argomenti di qualsiasi tipo), non fece altro che correggere la forma del testo precedente (le cui imperfezioni, scrisse Serveto, erano dovute in parte alla sua mancanza di abilità e in parte alla disattenzione dello stampatore), rispondere alle obiezioni dei leader riformati e ribadire le stesse tesi con un linguaggio un po’ più vicino all’insegnamento della Chiesa.

Il risultato fu, ovviamente, quello di inasprire le reazioni riformate e isolare ulteriormente il Serveto, che si ritrovò senza amici e senza denaro in una città di cui non parlava la lingua e in cui gli era completamente impossibile trovarsi un lavoro. L’unica decisione possibile fu, conseguentemente, per lui quella di lasciare l’area germanofona e sparire per quasi vent’anni, rifugiandosi nell’anonimato.

Prima di proseguire nel tracciare la biografia del riformatore iberico, però, conviene cercare di comprendere che cosa avesse, nel pensiero servetiano, tanto sconvolto i capi della Riforma. In sostanza, prendendo l’insegnamento della Bibbia come autorità assoluta e definitiva, Serveto, basandosi coerentemente su Deuteronomio 6:4 (“Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno solo”) e su numerosi altri passi, dichiarava che la natura di Dio non può essere divisa in tre persone, non essendo tale dottrina insegnata dalle Sacre Scritture ed essendo, anzi, il frutto di contaminazioni di culti stranieri e di invenzioni di persone ignoranti.

 

A riprova di ciò, argomentava che i primi Padri della Chiesa non parlavano mai di trinità e che l’idea trinitaria era stata imposta alla Chiesa da parte dei Greci, più attenti a filosofeggiare vuotamente che a sviluppare il Cristianesimo originario. Allo stesso modo, altrettanto non scritturale era la dottrina delle due nature in Cristo, dottrina che l’autore ridicolizzava definendola illogica, irragionevole, contraddittoria, immaginaria, e contro cui insorgeva, ritenendo che definirla come ispirata dallo Spirito Santo fosse blasfemo e demoniaco. A seguire, Serveto affermava che la dottrina di un Dio unico in tre persone non poteva essere dimostrata e neppure veramente immaginata ed era unicamente fonte di innumerevoli eresie: quelli che vi credevano erano stolti e ciechi e divenivano nella pratica atei rimanendo senza il vero Dio, mentre era proprio questa dottrina assurda l’ostacolo insuperabile per la conversione di Ebrei e Musulmani al Cristianesimo.

 

Al posto di queste dottrine artificiali espresse nei “credi” niceani, Serveto attingeva dalla Bibbia (con numerose citazioni a dimostrazione) una dottrina molto semplice: l’uomo Gesù, di cui i Vangeli raccontano, è il Cristo, l’Unto di Dio; che Egli sia il Cristo, miracolosamente generato da Dio è provato dai suoi poteri miracolosi e dalle sue stesse dichiarazioni; anche l’uomo è Dio essendo pieno della divinità che Dio gli ha concesso e, conseguentemente, Gesù non è divino per natura come insegna la Chiesa ma solo grazie a un dono di Dio, il quale rimane incomprensibile ma può essere conosciuto solo per mezzo di Cristo e dello Spirito Santo, che è un potere di Dio inviato sotto forma di un angelo o spirito per farci santi.

 

Come risultato di tutto ciò, l’unica trinità in cui, secondo l’autore, era legittimo credere era questa: che Dio si riveli all’uomo sotto tre diversi aspetti (“dispositiones”), manifestandosi nella natura del Padre che è condivisa con suo Figlio Gesù e con lo Spirito che abita in noi. Risulta piuttosto chiaro come questa costruzione teologica fosse piuttosto distante dall’Unitarianesimo successivo e fosse, piuttosto, una rielaborazione del Sabellianismo che, per altro, non creò mai una Chiesa di seguaci. Ciò che, in particolare, va sottolineato è che Serveto non lasciò mai formalmente il Cattolicesimo e che, come si legge chiaramente al termine dei “Dialoghi”, egli non si sentì mai né pienamente in accordo né pienamente in disaccordo sia con Cattolicesimo che con Protestantesimo, trovando in entrambi elementi positivi e negativi.

Insomma, il pensiero servetiano era, in questa fase, più che altro una ripresa di concezioni già espresse nel corso della storia della Chiesa e non completamente sistematizzate. L’unica ragione per la risonanza che il “De Trinitatis” e i “Dialoghi” ebbero in campo protestante (il mondo cattolico vi prestò, in fin dei conti, ben poca attenzione) fu quella di aver colpito un nervo scoperto come quello della trinità: Melantone, ad esempio, nel suo primo trattato aveva considerato il concetto trinitario coma appena degno di menzione e non necessario alla salvezza e solo dopo l’attacco servetiano lo propaganderà come essenziale e Calvino, nel suo primo catechismo, aveva trattato della trinità solo “en passant” e solo negli “Istituti” del 1536 ne parlerà diffusamente. Insomma, il nodo trinitario comincia a essere centrale proprio con i testi che Serveto pubblica prima di sparire ed è questa messa in discussione di una concezione prima data come “pacifica” il grande merito del giovane aragonese.

Abbiamo, comunque, visto che il clima per lui, nelle aree tedesche, si stava facendo troppo caldo. Fu per questa ragione che il giovane Miguel decise di trasferirsi in Francia sotto il falso nome di Michel de Villeneuve (Michael Villanovanus) e di iscriversi alla Sorbona dove, in un paio d’anni, arrivò a livelli così alti nello studio della matematica da poter tenere lezioni agli altri studenti. In questa prima fase, evidentemente, l’interesse per la teologia, nonostante la delusione per i suoi approcci fallimentari con i leader riformati, non era per nulla scemato, tanto che, conosciuto il giovane Calvino, Miguel lo sfidò in un dibattito pubblico su argomenti religiosi, a cui, però, poi non si presentò temendo un’accusa di eresia da parte delle autorità cittadine.

 

Ben presto, in ogni caso, si ripresentarono i problemi finanziari che lo avevano già colpito a Basilea e Miguel, ora Michel, dovette interrompere gli studi e trasferirsi a Lione, dove lavorò per oltre due anni presso una nota casa editrice come correttore di bozze. In questa veste Serveto si occupò, come redattore, di una nuova edizione, aggiornata con le scoperte del Nuovo Mondo, della “Geografia” di Tolomeo (per altro alcune sue annotazioni sulla Palestina e sulla improbabilità che una zona così povera potesse essere la “terra promessa” sarebbero state in seguito utilizzate contro di lui con l’accusa di “aver diffamato Mosé”) e di numerosi trattati medici. Fu proprio questo assiduo contatto con opere mediche a aprirgli un nuovo campo d’interessi e a portarlo a tornare a Parigi per divenire uno studente di medicina.

A Parigi Serveto rimase per circa quattro anni, studiando con i più illustri medici e anatomisti dell’epoca e ottenendo una buona fama con un piccolo trattatello sulla digestione che divenne così popolare da avere cinque edizioni in Francia e in Italia e per i suoi studi sulla circolazione. In questo periodo, dietro sollecitazione di alcuni amici, diede anche alcune letture universitarie pubbliche relative a geografia e astrologia (allora considerata una scienza a tutti gli effetti) ma queste iniziative furono, per lui, fonte di nuovi guai: certe sue osservazioni irriverenti su alcuni luminari della medicina del tempo gli attirarono l’ira del mondo accademico e il giovane medico si trovò accusato di divinazione (un’accusa che a Parigi poteva costare il rogo) e costretto, ancora una volta, a trasferirsi.

La nuova meta dei suoi pellegrinaggi fu Charlieu, nei pressi di Lione, e per un anno circa svolse in quel paese l’attività professionale medica. Un’aggressione notturna mentre andava a visitare un paziente, aggressione probabilmente organizzata da alcuni suoi colleghi invidiosi del notevole successo che stava ottenendo, lo indusse, nel 1540, ad accettare l’invito dell’arcivescovo di Vienne, che aveva conosciuto a Parigi, a diventare il suo medico personale, alloggiando nel suo stesso palazzo: da quel momento in poi iniziò il più lungo periodo (circa dieci anni) di quiete della sua vita avventurosa e travagliata, durante il quale acquistò fama e fortuna come medico e, al tempo stesso, poté proseguire i suoi studi, producendo, tra l’altro, una nuova edizione di Tolomeo (notevolmente “ ammorbidita” rispetto alla precedente) e una edizione, completa di prefazione e note, della recente Bibbia in latino curata dal monaco domenicano Sante Pagnino.

 

È proprio questa edizione biblica uno dei suoi lavori più stupefacenti: nella sua elaborazione, infatti, Serveto stabilì alcuni principi filologici completamente nuovi (ad esempio sfatando scientificamente il mito che Salmi e Profeti avessero profetizzato l’avvento di Cristo), in anticipo di 250 anni rispetto alla moderna filologia biblica. Naturalmente tali principi vennero poi utilizzati contro di lui sia dai cattolici (che misero la sua edizione all’Indice) che come elementi “eretici” e di offesa a Dio nel processo intentato contro di lui da Calvino, ma, per ora, nessuno osò attaccare questo protetto del vescovo di Vienne.

Resta il fatto che, con ogni probabilità, fu proprio questo nuovo studio della Bibbia a far rivivere in lui il suo antico interesse per la teologia, che ora, nella tranquillità di Vienne, poteva coltivare a fondo. Ciò che sentiva come potente necessità era spiegare ai Cristiani che il vero Cristianesimo era, in realtà, molto più semplice di quanto apparisse e, in particolare, si era convinto che, riuscendo a convincere Calvino, ormai affermato riformatore a Ginevra, delle sue teorie, avrebbe potuto aprire una fase nuova per l’intera Chiesa.


Così, tramite un certo Frellon, un editore di Lione per il quale Serveto aveva curato un’ opera letteraria e che conosceva bene Calvino, il medico aragonese riuscì ad aprire una corrispondenza con il leader riformato, iniziando a inviargli missive in cui lo interrogava su Gesù come Figlio di Dio, sul Regno di Cristo, sulla salvezza, sul battesimo e su molti altri argomenti.

La corrispondenza, iniziata su un piano di estrema cortesia, presto purtroppo degenerò in un abuso grossolano di invettive: Serveto era intenzionato a dimostrare a Calvino i suoi errori e le sue credenze non scritturali e Calvino, dal canto suo, ormai praticamente dittatore di Ginevra, poco aduso a un tono didascalico e poco rispettoso utilizzato nei suoi confronti, non aveva alcuna intenzione di farsi dare lezioni da uno sconosciuto, cosicché, dopo poche missive, accusò il suo interlocutore di mancanza di umiltà e pose fine allo scambio epistolare, inviando come atto finale una copia dei suo “Istitutuzioni della Religione Cristiana” perché l’aragonese “imparasse che cosa era la vera fede cristiana”. Serveto, che, come visto, non era certo tipo da permettere a qualcuno di avere l’ultima parola, non fece altro che rimandare il testo al mittente con una serie impressionante di note scritte a margine, che Calvino, come era prevedibile, trovò altamente offensive.

Nei due anni seguenti Serveto continuò a scrivere a Calvino con toni sempre più duri: nelle trenta missive successive arrivò ad accusarlo come reprobo, bestemmiatore, Ebreo, ladro e brigante, ricevendo in risposta una sola nota in cui il riformatore ginevrino paragonava le lettere che gli pervenivano a un “raglio d’asino”. Nonostante ciò Serveto era sempre convinto di poter convincere Calvino e, in quest’ottica, gli inviò il manoscritto di un testo che aveva appena terminato e in cui ridisegnava, sistematizzandolo, l’intero sistema di pensiero teologico che aveva fino a quel momento asserito. Calvino lesse il manoscritto ma si rifiutò di rispondere e ignorò le ripetute richieste di Serveto che chiedeva la restituzione del testo. Quando, infine, sempre nella speranza di convertire il suo interlocutore, Serveto di offrì di andare a Ginevra per discutere faccia a faccia con lui, Calvino non solo si rifiutò di fornire allo spagnolo un salvacondotto, ma arrivò a scrivere all’amico Farel, pastore di Neuchâtel, chiedendogli, nel caso Serveto fosse capitato nella sua area d’influenza, di non permettergli di fuggire vivo.

Avendo fallito con Calvino, Serveto, sempre sotto lo pseudonimo di Michel de Villeneuve, tentò di convincere, senza successo, altre guide spirituali della Riforma, in particolare Poupin, parroco a Ginevra, e Viret, parroco a Losanna, della mostruosità di scambiare Dio con un “Cerbero a tre teste” ma, visti gli esiti sempre negativi dei suoi approcci, decise, forse avventatamente, di pubblicare l’esito delle sue riflessioni perché tutti potessero conoscerlo e, forse, anche perché si era convinto, dalle sue letture scritturali, che il
regno dell’Anticristo (il papato) sarebbe finito nel 1585 e riteneva di essere stato prescelto come agente per tale cambiamento epocale.

Così, riprendendo il manoscritto inviato a Calvino, a inizio 1553 lo consegnò a un amico tipografo di Basilea, il quale in un primo momento non osò stamparlo per paura delle conseguenze con l’Inquisizione ma che, dopo molte insistenze e dietro il pagamento di una forte cifra, finì per produrne un certo numero di copie (circa un migliaio). Il testo, che venne intitolato “Christianismi Restitutio” (“Restauro del Cristianesimo”), era un volume di circa 700 pagine, in cui si rielaboravano le teorie del “De Trinitatis” e dei “Dialoghi” (con l’aggiunta delle trenta lettere a Calvino) con toni ancora più accesi e in cui si dimostrava l’assurdità delle pretese trinitarie utilizzando ogni metodo possibile, dalla logica alla storia alla filologia bibilica. Naturalmente i volumi vennero stampati in gran segreto in una casa abbandonata di Vienne, senza alcuna indicazione di luogo, data, stampatore o l’autore ma Serveto non seppe resistere alla tentazione di scrivere le sue iniziali sull’ultima pagina e di inserire il suo nome in diversi punti del testo.

Forse anche questa imprudenza avrebbe potuto avere conseguenze di non particolare gravità se non fosse accaduto che uno stock di 500 volumi venisse inviato a Lione in vista della vendita nelle grandi fiere librarie di quella città e di Francoforte e che l’editore Frellon, che abbiamo già incontrato come tramite tra Serveto e Calvino, probabilmente senza prevedere le conseguenze del suo atto, mandasse una copia del testo a quest’ultimo.

 

Calvino non ci mise molto a unire le tessere del puzzle e a riconoscere in Michel de Villeneuve l’“eretico” Miguel Servet e mai e poi mai avrebbe potuto permettere che le “bestemmie” contenute nel “Restitutio” si diffondessero in Europa: decise, dunque, di servirsi della sua peggior nemica, l’Inquisizione cattolica, per mettere la parola fine all’annosa vicenda che lo legava al medico spagnolo. In quest’ottica si servì di un suo amico, un certo Guillaume Trie, rifugiato protestante di Lione che era ancora in corrispondenza con un parente cattolica: a lui Calvino raccontò quello che sapeva di questo nuovo libro e del suo autore e caldeggiò l’idea che, tramite la suddetta parente francese, il terribile bestemmiatore della trinità Michele Serveto, alias Villeneuve, che viveva a Vienne come medico, venisse denunciato all’Arcivescovo di Lione come eretico.

La lettera di Trie giunse ben presto nelle mani dell’Inquisitore, accompagnata dalle prime quattro pagine della “Restitutio” inviate a riprova delle scandalose idee propagandate dall’“eretico” aragonese. Serveto venne convocato dalle autorità e interrogato, il suo alloggio venne perquisito e tutti i suoi stampati accuratamente riletti ma non si riuscì a trovare alcuna prova contro l’accusato, che venne rilasciato. Allora, Calvino consegnò a Trie una serie di lettere inviategli da Serveto e la famosa copia delle “Institutio” annotata a margine e queste, fatte pervenire ai giudici lionesi, risultarono prove sufficienti per l’arresto del sedicente Michel de Villeneuve, ora riconosciuto come l’eretico Serveto.

Serveto, ormai messo all’angolo e impossibilitato a negare gli addebiti che gli venivano mossi, tentò una mossa disperata: incaricò dal carcere un servitore di raccogliere una forte somma di denaro che utilizzò per corrompere influenti amici che gli permisero di fuggire. Quando l’evasione venne scoperta, il medico spagnolo era già ben oltre la portata dei suoi accusatori e il processo civile contro di lui continuò in sua assenza per oltre dieci settimane fino alla scoperta delle 500 copie lionesi della “Restitutio” e fino alla condanna per il reo a essere bruciato a fuoco lento con i suoi scritti (sentenza che venne eseguita “in effige” il giorno seguente alla pronuncia del tribunale): qualche mese dopo lo stesso verdetto venne emesso anche dal tribunale ecclesiastico (e si ripeté la stessa macabra sceneggiata del rogo in effige) ma ormai Serveto era già salito, a Ginevra, su un rogo vero.

A questo punto si poneva per il fuggiasco il dubbio su dove andare: in Francia era un latitante, un ritorno sulle rive del Reno era assolutamente da escludere per il rischio di essere riconosciuto e consegnato alle autorità riformate e non era neppure pensabile tentare di rientrare nella natia Spagna dove il furore inquisitoriale aveva toccato punte di fanatismo mai viste in precedenza. L’unica possibilità era quella di raggiungere Napoli, dove avrebbe potuto esercitare la professione medica tra connazionali, ma il problema era come arrivare nella città Italiana: dopo quattro mesi di fuga, dunque, Miguel si risolse ad attraversare la Svizzera e il nord Italia per raggiungere la sua meta, ma proprio questo percorso si sarebbe rivelato esiziale per lui.

Fu così che Serveto, diretto verso sud, finì per ritrovarsi presso una locanda di Ginevra una domenica mattina: la legge imponeva a tutti di recarsi alla funzione e, nonostante desiderasse tenersi il più possibile nascosto, né il latitante spagnolo poteva esimersi dall’obbligo né, probabilmente, lo desiderava, curioso com’era di sentire predicare Calvino. Naturalmente venne riconosciuto e tratto in arresto ancora prima dell’inizio del sermone.

Come sappiamo, Calvino già da tempo riteneva che Serveto dovesse essere messo a morte come bestemmiatore ed eretico ed è molto probabile che sospettasse che la presenza dell’aragonese fosse dovuta alla sua volontà di diffondere le sue idee (che avevano già avuto una discreta risonanza nelle città del nord Italia) e, così facendo, mettere, secondo lui, in pericolo l’intera Riforma: per il dittatore ginevrino divenne, quindi, una sorta di dovere morale liberare il mondo da quella che riteneva essere una piaga infetta e chiese che l’“eretico” venisse immediatamente arrestato.

 

Dal momento che la legge cittadina richiedeva che l’accusatore venisse trattenuto insieme all’accusato fino al momento della formalizzazione delle accuse, Calvino inviò al suo posto uno studente di nome Nicolas de la Fontaine, che viveva in casa sua come suo segretario e che, da quel momento, funse da accusatore principale nel procedimento che seguì e che si basò su 38 capi d’imputazione, quasi tutti tratti dalla “Restitutio” (con qualche accenno anche alla menzionata redazione della “Geografia” di Tolomeo), che andavano dalla negazione della trinità alla bestemmia contro la persona di Cristo, dal rifiuto dell’immortalità dell’anima e del pedobattesimo alla diffamazione di Calvino.

Serveto, interrogato il giorno seguente, non smentì gran parte delle accuse (aggiungendo, però, che, qualora gli fosse dimostrato il suo errore era disposto alla ritrattazione) e venne rinviato a giudizio: come pubblico ministero venne scelto un consulente legale del Concistoro, mentre la difesa venne assunta da un avversario politico di Calvino, un membro di quel “Partito dei Libertini” che da tempo metteva in discussione il potere del duro riformatore al governo di Ginevra, che, da subito, minacciò che, se il processo non fosse stato equo, avrebbe reso il “caso Serveto” una questione politica dirompente.

La disamina delle prove richiese qualche tempo ma, sostanzialmente, non aggiunse nuove prove a carico e quando de la Fontaine chiese di essere liberato dalla prigione in cui risiedeva in qualità di accusatore, il caso venne avocato dal Procuratore generale di Ginevra e Calvino, pur continuando a tuonare contro l’eretico dal pulpito, si pose sempre più in una posizione defilata dal punto di vista giuridico. Il passo successivo fu quello di chiedere alle autorità di Vienne per inviare una copia degli elementi che avevano contro Serveto e di sottoporre il caso davanti alla altre Chiese riformate della Svizzera tedesca.

Serveto, dal canto suo, fece istanza formale di scarcerazione, adducendo a motivazione il fatto che non era consuetudine apostolica né dei primi imperatori cristiani infliggere agli eretici la pena capitale, ma solo la scomunica e il bando e che, di fatto, egli non aveva commesso alcun reato né nel territorio ginevrino né altrove, risultando le sue proposizioni solo discussioni accademiche che non avevano mai provocato turbative dell’ordine pubblico.

 

Questa linea di difesa contrastava apertamente con l’accusa che tendeva a dimostrare come l’aragonese avesse tentato di diffondere capillarmente le sue eresie, già condannate da tempo,diffondendo così una mentalità immorale e conducendo egli stesso una vita criminale. Inizialmente i magistrati, dopo lunghi interrogatori dell’imputato, parvero propendere per lui ma l’intervento del Procuratore Generale che, chiaramente spinto da Calvino, accusò Serveto di voler provocare sommosse in città, di aver mentito e di essere così chiaramente colpevole da non necessitare neppure di una difesa, mantenne il processo in una situazione di stallo.

La questione si sbloccò allorché giunse da Vienne l’incartamento con la sentenza definitiva di condanna di Serveto e la richiesta di estradizione del reo sulla base dell’accusa di evasione e per i reati commessi in territorio francese. Come previsto dalla legislazione ginevrina venne, conseguentemente, chiesto al prigioniero se desiderasse essere giudicato a Ginevra o in Francia: Serveto, in lacrime, pregò di non essere inviato a morte certa a Vienne e questo fece il gioco di Calvino che poteva, in questo modo, dimostrare che i Protestanti non erano meno zelanti dei Cattolici nel preservare la purezza della fede cristiana. La richiesta dei magistrati francesi venne, dunque, ricusata e si continuò a procedere nella disamina dei capi d’accusa.

Il problema era che una discussione sugli insegnamenti eretici del Serveto avrebbe richiesto, se portata in tribunale, troppo tempo e avrebbe esulato dal campo di competenza dei giudici: si decise, allora, di fornire a Serveto i libri atti alla sua difesa e che l’imputato e Calvino avrebbero discusso per iscritto i punti controversi, lasciando alle Chiese Svizzere il compito di decidere sulla ortodossia o meno delle argomentazioni. La discussione scritta durò quattro giorni: Calvino, dapprima, elaborò 38 punti (paralleli ai 38 capi d’accusa) sulla base di estratti dai libri di Serveto, definendo tali scritti come “parzialmente empi e bestemmiatori, pieni di, errori in parte profani e folle e tutti completamente estranei alla Parola di Dio e alla fede ortodossa”; Serveto rispose spiegando e giustificando le sue posizioni; Calvino scrisse in confutazione e Serveto finì semplicemente aggiungendo brevi note a matita tra la o a margine del manoscritto di Calvino.

 

La discussione, iniziata su un piano abbastanza dignitoso, degenerò ben presto a causa di un gravissimo errore di valutazione di Serveto che, ritenendo di aver già vinto la disputa, si abbandonò a violente invettive contro il suo avversario (che, al contrario, mantenne sempre un tono equilibrato), arrecando molto danno alla sua causa. I documenti vennero sottoposti al Consiglio e poi debitamente trasmessi alle Chiese e ai Consigli di Zurigo, Berna, Basilea e Sciaffusa, mentre Calvino anticipava questo passaggio scrivendo a numerosi pastori per spingerli a condannare Serveto.

Dopo quattro settimane si cominciarono a ricevere le prime risposte e, nel frattempo, Serveto, che era ancora rinchiuso in carcere, rivolse al Consiglio un indignato appello per la sua liberazione, sostenendo di essere trattenuto ingiustamente, mangiato dai vermi e senza vestiti di ricambio. Quando il Consiglio ignorò la sua perorazione, si rivolse al Consiglio Grande (o “Consiglio dei Duecento”) e arrivò addirittura a richiedere l’incarcerazione di Calvino come falso accusatore, sulla base di sei capi d’accusa: naturalmente anche questa richiesta venne totalmente ignorata.

Le risposte giunte dalle varie Chiese variavano per lunghezza e tono ma, avendo tutti i Consigli incaricato i loro pastori di esprimersi, tutte concordavano che Serveto dovesse essere condannato, non solo per le “nefandezze teologiche” cha aveva espresso ma anche e soprattutto perché le Chiese Riformate non potessero venire accusate di dar rifugio a un eretico.

A questo punto la sorte di Serveto era segnata: due giorni dopo venne condannato a essere condotto nel sobborgo di Champel e ivi essere bruciato vivo insieme con i suoi libri, secondo l’antica pratica imperiale che Calvino aveva lasciato invariata. Quando la sentenza fu pronunciata, Serveto, che si aspettava l’assoluzione o nel peggiore dei casi una condanna al bando, proruppe in un pianto dirotto ma presto si ricompose e riprese un comportamento di grande dignità, scusandosi per il suo sfogo.

 

Farel, il ministro di Neuchatel, che era giunto quella stessa mattina su invito di Calvino (che, forse, voleva tentare di salvare “capra e cavoli” ottenendo, tramite le capacità oratorie dell’amico, un’abiura che avrebbe evitato a Serveto il rogo) ebbe un lungo colloquio con il medico aragonese chiedendogli di rinunciare ai suoi errori e così salvarsi la vita ma Serveto rimase fedele alle sue convinzioni, implorando solo, inutilmente, che gli venisse imposta un’altra forma di morte perché temeva che il dolore del rogo potesse indurlo a ritrattare.

Fu Farel ad accompagnarlo, il 27 ottobre 1553, al luogo dell’esecuzione dove si era radunata una grande folle. Qui fu incatenato a un palo, con una copia della “Restitutio” legata a una gamba e un corona di foglie imbevute di zolfo sulla testa e, quando il fuoco venne appiccato, le sue ultime parole furono “Gesù, figlio del Dio eterno, abbi pietà di me”. Gli ci volle oltre mezz’ora per morire.

Anche durante il processo numerose voci si erano sollevate a favore di Serveto, non ultime quelle del giurista italiano Gribaldo, esule a Ginevra, di David Joris che scrisse da Basilea ai governi delle città protestanti della Svizzera esortandoli a evitare di macchiarsi di un delitto come l’omicidio di un teologo, di Camillo Renato, pensatore italiano, che protestò contro la condanna dicendo: “Né Dio né il suo spirito hanno incoraggiato un’azione del genere.

 

Cristo non trattava in questo modo coloro che non lo riconoscevano” e dell’umanista francese Sébastien Castellion che scrisse: “Uccidere un uomo non significa difendere una dottrina, significa solo uccidere un uomo”, ma purtroppo i principali riformatori (Melantone, Beza, ecc.), senza eccezione, approvarono incondizionatamente l’esecuzione.

Cosa possiamo dire oggi del rogo di Serveto? Nel giudicare tutta questa vicenda si deve fare attenzione a non essere ingiusti verso Calvino, che, in realtà, non si comportò in modo troppo diverso da quello intollerante di tutti i capi religiosi e di governo della sua epoca, confondendo libero pensiero e opinioni divergenti dalla propria come attacchi letali alla religione cristiana. Certamente Serveto era un uomo ostinato, per certi versi fanatico, offensivo ed esasperante al massimo grado, che mescolava idee brillanti e incredibilmente avanzate con elementi che rasentavano la superstizione.

 

Era, però, soprattutto, un sincero cristiano, incrollabilmente fedele alla Bibbia fino alla morte. Probabilmente ciò che dell’intera vicenda conta di più è l’effetto a lungo termine dell’esecuzione di Serveto., Come scrisse Marian Hillar: “La morte di Serveto segnò una svolta nell’ideologia e nella mentalità invalse a partire dal IV secolo [...] Da un punto di vista storico, Serveto morì affinché la libertà di coscienza potesse diventare un diritto civile del singolo individuo nella società odierna”.

Nel 1908 nella città francese di Annemasse, a circa cinque chilometri dal luogo in cui morì Serveto, fu eretto un monumento in suo onore. Un’iscrizione dice: “Michele Serveto [...] geografo, medico, fisiologo, contribuì al bene dell’umanità con le sue scoperte scientifiche, la sua dedizione ai malati e ai poveri, e la sua indomita indipendenza di pensiero e coscienza [...] Era un uomo dalle convinzioni granitiche. Sacrificò la propria vita per la causa della verità”.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

W.H. Drummond, The Life of Michael Servetus, Ulan Press 2011;

M. Hillar, Michael Servetus: Intellectual Giant, Humanist, and Martyr, University Press Of America 2002;

R. Lovci, Michael Servetus, Heretic Or Saint?, CSIPP 2008;

C.T. Odhner, Michael Servetus, his Life and Teachings, BiblioBazaar 2009;

W.K. Tweedil, Calvin and Servetus, BiblioBazaar 2008;

E.M. Wilbur, A history of Unitarianism, Vol.1, Harvard U.P. 1923



 

 

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