N. 63 - Marzo 2013
(XCIV)
Michele Serveto
la fedeltà alla Bibbia fino al martirio
di Lawrence M.F. Sudbury
Se
una
vicenda
storica
può
assurgere
al
ruolo
di
epitome
del
clima
di
intransigenza
controriformistica
del
XVI
secolo
da
un
lato
e
della
paritetica
intransigenza
fanatica
che
caratterizzò
gran
parte
della
Riforma
magistrale
dall’altro,
questa
è,
senza
dubbio,
quella
di
colui
che
può
essere
definito
se
non
il
primo
certamente
il
più
famoso
martire
del
libero
pensiero
teologico
di
quel
travagliato
periodo:
Michele
Serveto.
Ricostruire
compiutamente
i
percorsi
della
vita
di
questo
figlio
della
cattolicissima
Spagna
che
ebbe
il
coraggio
di
proclamare
le
proprie
idee
fino
a
essere
messo
al
rogo
a
Ginevra
per
ordine
di
Calvino,
non
è
sempre
facile,
stanti
le
scarse
e
spesso
inconsistenti
registrazioni
che
ci
sono
pervenute.
Verosimilmente
Michele
(Miguel)
nacque
nel
1511
a
Tudela,
una
piccola
città
della
Navarra,
ma
durante
la
sua
prima
infanzia
i
suoi
genitori
si
trasferirono
a
Villanueva,
in
Aragona,
dove
suo
padre
aveva
ricevuto
la
nomina
a
notaio
reale,
un
ufficio
di
una
certa
distinzione
che
permetteva
alla
famiglia
di
vivere
agiatamente.
Certamente
i
suoi
genitori
dovevano
essere
devoti
cattolici
e
molti
studiosi
ritengono
che
indirizzassero
il
figlio
al
sacerdozio,
come
è
facile
presumere
dal
fatto
che
Miguel,
studente
di
notevole
precocità,
già
dalla
prima
adolescenza
avesse
acquisito
una
notevole
conoscenza
del
latino,
del
greco,
dell’ebraico
e
della
filosofia
scolastica.
Era
un
periodo
molto
particolare
per
la
Spagna:
i
regnanti
Ferdinando
e
Isabella
avevano
deciso
di
garantire
l’unità
politica
della
loro
nuova
nazione
costringendo
all’uniformità
religiosa
in
uno
spirito
di
intollerante
ortodossia
e,
nel
1492,
per
non
aver
rinnegato
la
fede
dei
loro
padri
e
professato
il
Cristianesimo,
800.000
Ebrei
erano
stati
banditi
dal
regno,
mentre
gli
ultimi
Mori
venivano
cacciati
da
Granada
o
costretti
a
scegliere
tra
abbandonare
l’Islam
o le
loro
case.
In
entrambi
i
casi
il
dogma
della
Trinità
si
era
rivelato
un
ostacolo
insormontabile
alla
conversione
e
nel
periodo
in
cui
Serveto
visse
la
sua
fanciullezza
circa
20.000
vittime,
ebrei
o
islamici,
erano
state
messe
al
rogo.
Nonostante
qualche
tentativo
di
resistenza
da
parte
degli
Aragonesi,
l’Inquisizione
era
stata
istituita
anche
in
Aragona
e
con
ogni
probabilità
i
suoi
metodi
brutali
dovevano
aver
notevolmente
impressionato
il
giovane
Serveto
che,
forse
proprio
per
questo,
decise
di
abbandonare
l’idea
di
una
carriera
ecclesiastica
e,
per
volontà
di
sua
padre,
a
diciassette
anni,
si
trasferì
a
Tolosa
per
studiare
legge
in
una
delle
università
più
famose
d’Europa
per
gli
studi
giuridici.
Fu
in
questo
periodo
che,
dalla
lettura
diretta
della
Bibbia,
il
cui
significato
gli
apparve
da
subito
così
lontano
dalla
dogmatica
scolastica
che
aveva
studiato
fino
a
quel
momento,
cominciò
a
formarsi
in
lui
quella
concezione
anti-trinitaria
che
avrebbe
condotto
la
sua
intera
esistenza.
Tale
concezione
e il
rifiuto
della
Chiesa
Cattolica
si
chiarirono
nella
sua
mente
l’anno
seguente,
quando,
lasciati
gli
studi
giuridici,
per
i
quali
non
aveva
alcun
interesse,
Miguel
trovò
impiego
come
segretario
personale
di
fra’
Juan
de
Quintana,
confessore
del
giovane
imperatore
Carlo
V:
proprio
seguendo
il
suo
datore
di
lavoro
a
Bologna,
per
l’incoronazione
imperiale
del
1530,
il
giovane
spagnolo
poté
assistere
al
lusso
sfrenato
della
Chiesa
e
agli
intrighi
politici
e
all’immoralità
che
regnavano
nella
corte
pontificia,
tanto
che,
da
quel
momento,
il
papa
divenne
per
lui
la
raffigurazione
terrena
dell’anticristo
predetto
nel
Nuovo
Testamento.
Il
caso
volle
che
da
Bologna
l’Imperatore
(naturalmente
seguito
dal
de
Quintana),
si
muovesse
alla
volta
della
Germania
per
partecipare
alla
famosa
Dieta
di
Augusta,
nella
quale
il
Protestantesimo
doveva
ottenere
un
riconoscimento
politico
da
parte
dell’impero
e
Melantone
doveva
presentare
all’approvazione
imperiale
la
Confessione
di
Augusta,
in
pratica
la
prima
grande
formalizzazione
delle
dottrine
protestanti.
Serveto,
al
seguito
dell’imperatore,
aveva
già
avuto
modo
di
leggere
alcuni
scritti
di
Melantone
(e
forse
anche
di
altri
riformatori)
ed
era
ansioso
d’incontrare
quegli
uomini
di
cui
aveva
a
lungo
sentito
parlare
e
che,
riteneva,
avevano
la
stessa
missione
che
sentiva
affidata
anche
a
lui
stesso:
riformare
la
dottrina
cattolica,
possibilmente
in
senso
anti-trinitario.
È in
questo
scenario
che
dobbiamo
inquadrare
la
sua
“scandalosa”
iniziativa
di
lasciare
improvvisamente
il
servizio
del
de
Quintana
per
cercare
di
mettersi
in
contatto
con
i
capi
del
Protestantesimo:
sebbene,
infatti,
la
Confessione
di
Augusta
avesse
chiaramente
dichiarato
l’accettazione
da
parte
dei
Riformati
del
Credo
niceno
e
atanasiano,
le
Chiese
protestanti
non
avevano
ancora
adottato
un
credo
proprio
permanente
e
formalizzato
e il
giovane
e
idealista
Miguel
era
convinto
che
le
sue
teorie
contrarie
alla
trinità
avrebbero
potuto
essere
facilmente
accolte
da
coloro
che
avevano
già
messo
in
discussione
il
primato
petrino.
È
certamente
questa
la
ragione
che
spinge
il
giovane
aragonese
a
dirigersi,
nell’autunno
del
1530,
a
Basilea
e a
cercare
di
ottenere
una
serie
d’incontri
con
Ecolampadio,
il
leader
della
Riforma
di
quella
città.
Ora,
per
comprendere
quanto
avvenne
in
seguito,
dobbiamo
avere
ben
chiara
in
mente
la
situazione:
Serveto
è,
agli
occhi
di
Ecolampadio,
un
ragazzo
di
diciannove
anni,
straniero
e
cattolico,
mentre
lui,
già
quarantenne,
è un
teologo
affermato
e,
soprattutto,
molto
occupato
nel
governo
della
città
in
un
momento
cruciale
per
l’intera
Riforma.
In
quest’ottica,
è
abbastanza
naturale
che,
dopo
aver
acconsentito
a
incontrare
un
paio
di
volte
questo
giovane
spagnolo
le
cui
opinioni
apparivano
per
lui
inaccettabili
e
dopo
aver
tentato
inutilmente
di
convincerlo
dei
suoi
“errori”,
Ecolampadio
perdesse
la
pazienza
e
rispondesse
a
una
ennesima
richiesta
di
colloquio
con
una
missiva
piuttosto
irata
in
cui,
tra
l’altro,
chiedeva
ironicamente
all’insistente
interlocutore
se
ritenesse
che
lui
non
avesse
niente
di
meglio
da
fare
che
stare
a
rispondere
inutilmente
alle
sue
domande.
Tale
missiva,
in
qualche
modo,
poneva
la
parola
fine
al
rapporto
tra
Ecolampadio
e
Serveto
e
quest’ultimo,
dopo
aver
cercato
inutilmente
di
ottenere
un
incontro
con
Erasmo,
che
all’epoca
viveva
proprio
a
Basilea,
decise
di
spostarsi
a
Strasburgo
per
vedere
che
cosa
sarebbe
riuscito
a
ottenere
dai
riformatori
di
quella
città.
Strasburgo
era,
a
quel
tempo,
la
più
liberale
tra
le
città
protestanti:
Denck
e
altri
Anabattisti
vi
si
erano
rifugiati
pochi
anni
prima
e la
loro
influenza
era
ancora
molto
sentita
e
presente.
Bucero
e
Capitone,
i
leader
riformatori
della
città,
ricevettero
Serveto
molto
gentilmente
e,
in
un
primo
momento,
pare
che
provassero
una
certa
simpatia
per
le
sue
idee,
tanto
da
far
sperare
lo
spagnolo
che
tali
teorie
potessero
essere
ufficialmente
adottate
nel
credo
cittadino,
ma
Zwingli,
fondatore
e
leader
della
Riforma
svizzera,
che
era
già
stato
messo
al
corrente
delle
opinioni
anti-trinitarie
del
ragazzo
e le
aveva
definite
bestemmie
terribili
che
avrebbero
potuto
portare
danni
incalcolabili
alla
causa
protestante,
aveva
già
messo
in
guardia
tutti
i
capi
delle
città
contro
qualsiasi
deriva
anti-trinitaria
e,
in
fin
dei
conti,
Serveto
si
trovò
a
cozzare
a
Strasburgo,
così
come
già
prima
a
Basilea,
contro
un
muro
di
gomma
di
pregiudizi
e di
rifiuto.
Nonostante
ciò,
Miguel,
che
si
sentiva
mosso
da
un
impulso
divino
a
emendare
la
Chiesa
dai
suoi
errori,
non
si
lasciò
scoraggiare
e
decise
di
andare
direttamente
alla
fonte,
tentando
di
conquistare
alle
sue
idee
addirittura
Melantone
o
Lutero.
Per
far
ciò,
però,
era
necessario
che
mettesse
le
sue
tesi
per
iscritto
e le
facesse
stampare,
cosa
non
facilissima
neppure
nella
protestante
Basilea,
in
cui
era
nel
frattempo
tornato,
per
i
rischi
che
la
stampa
di
dottrine
considerate
eretiche
poteva
comportare
sia
per
lui
che
per
un
eventuale
stampatore.
Dovette,
così
aspettare
l’estate
del
1531
per
trovare
a
Hagenau,
in
Alsazia,
un
tipografo
abbastanza
coraggioso
da
produrre
un
testo
che,
uscito
comunque
senza
indicazione
editoriale,
doveva
avviare
una
profonda
rivoluzione
nel
mondo
religioso:
il
“De
Trinitatis
Erroribus”.
Scritto
in
un
latino
piuttosto
grezzo,
il
testo,
che
avrebbe
voluto
essere
un
attacco
al
concetto
della
trinità
basato
su
un
impressionante
(per
un
ventenne)
corpus
di
letture,
mostra
oggi
certamente
i
limiti
di
un
pensiero
non
ancora
completamente
maturo
e di
concetti
teologici
non
sempre
compresi
a
fondo
ma,
ugualmente,
una
volta
messo
in
vendita,
ebbe
un
successo
di
pubblico
notevolissimo
in
Svizzera,
Germania
e
nord
Italia.
Dalle
sue
lettere
appare
chiaro
che
Serveto
si
aspettasse
ingenuamente
che
i
riformatori
avrebbero
dato
il
benvenuto
al
suo
contributo
alla
loro
causa
non
appena
avessero
riflettuto
su
quanto
aveva
scritto
ma,
purtroppo,
avvenne
esattamente
il
contrario:
Melantone,
è
vero,
ammise
che
si
trattava,
in
alcuni
punti,
di
un
buon
testo
e
Ecolampadio
fu
d’accordo
con
lui
nell’affermare
che
esso
conteneva
molti
aspetti
positivi,
ma
ogni
più
piccola
lode
fu
presto
schiacciata
dal
coro
generale
di
denuncia.
Lutero
lo
ritenne
un
libro
“abominevolmente
malvagio”,
Melantone
predisse
immediatamente
che
da
esso
avrebbero
potuto
sorgere
immani
tragedie,
Ecolampadio
ammonì
che,
se
fosse
stato
tollerato,
il
testo
avrebbe
potuto
essere
devastante
per
la
Riforma
dando
all’imperatore
armi
per
accusarla
di
eresia
e
Bucero
arrivò
addirittura
ad
affermare
che
l’autore,
che
evidentemente
doveva
aver
imparato
la
sua
dottrina
dal
“Gran
Turco”
in
Africa,
avrebbe
dovuto
essere
pubblicamente
squartato.
Insomma,
in
breve
tempo
la
vendita
del
“De
Trinitatis
Erroribus”
venne
proibita
in
tutta
l’Europa
protestante
(come
già,
ovviamente,
era
immediatamente
avvenuto
nell’Europa
cattolica,
allorché
il
de
Quintana,
scioccato
che
l’autore
di
quel
“libro
pestilenzialissimo”
fosse
stato
un
suo
protetto,
aveva
ordinato
di
bruciarne
tutti
gli
stampati
presenti
nell’Impero)
e si
procedette
a
una
eliminazione
così
sistematica
di
qualsiasi
copia
che
quando,
una
ventina
d’
anni
più
tardi,
si
cercò
il
testo
per
usarlo
come
prova
a
carico
nel
processo
di
Ginevra
contro
Serveto,
non
fu
possibile
reperirne
neppure
un
solo
esemplare.
Come
se
ciò
non
bastasse,
su
richiesta
di
Ecolampadio
Bucero
scrisse
una
confutazione
delle
tesi
di
Serveto
(che,
però,
non
osò
mai
pubblicare)
e,
sebbene
non
si
fosse
proceduto
ad
alcuna
accusa
formale
contro
l’autore,
ingiunse
allo
spagnolo
di
lasciare
immediatamente
Strasburgo,
dove
il
ventenne
aragonese
era
tornato
dopo
la
pubblicazione
del
testo.
A
questo
punto,
Serveto
non
poté
fare
altro
che
trasferirsi
ancora
una
volta
a
Basilea,
dove
sopravvisse
per
qualche
tempo
dando
lezioni
di
spagnolo
e da
dove,
con
un
ennesimo
colpo
di
testa,
inviò
l’ultima
copia
del
“De
Trinitatis”
a
una
fiera
del
libro
a
Lione.
Quest’ultima
mossa
provocò
una
reazione
così
negativa
contro
di
lui
in
tutto
il
mondo
protestante
che
Miguel
si
sentì
in
dovere
di
scrivere
a
Ecolampadio
offrendosi
di
lasciare
la
città
o,
addirittura,
di
ritrattare
le
tesi
esposte
nel
suo
libro
tanto
esecrato.
Ecolampadio,
indulgentemente,
propese
per
la
seconda
ipotesi,
ma,
nella
primavera
successiva,
la
presunta
ritrattazione,
che
uscì
con
il
titolo
di
“Dialoghi
sulla
Trinità”
(il
dialogo
era,
a
quel
tempo,
la
forma
preferita
per
disquisire
di
argomenti
di
qualsiasi
tipo),
non
fece
altro
che
correggere
la
forma
del
testo
precedente
(le
cui
imperfezioni,
scrisse
Serveto,
erano
dovute
in
parte
alla
sua
mancanza
di
abilità
e in
parte
alla
disattenzione
dello
stampatore),
rispondere
alle
obiezioni
dei
leader
riformati
e
ribadire
le
stesse
tesi
con
un
linguaggio
un
po’
più
vicino
all’insegnamento
della
Chiesa.
Il
risultato
fu,
ovviamente,
quello
di
inasprire
le
reazioni
riformate
e
isolare
ulteriormente
il
Serveto,
che
si
ritrovò
senza
amici
e
senza
denaro
in
una
città
di
cui
non
parlava
la
lingua
e in
cui
gli
era
completamente
impossibile
trovarsi
un
lavoro.
L’unica
decisione
possibile
fu,
conseguentemente,
per
lui
quella
di
lasciare
l’area
germanofona
e
sparire
per
quasi
vent’anni,
rifugiandosi
nell’anonimato.
Prima
di
proseguire
nel
tracciare
la
biografia
del
riformatore
iberico,
però,
conviene
cercare
di
comprendere
che
cosa
avesse,
nel
pensiero
servetiano,
tanto
sconvolto
i
capi
della
Riforma.
In
sostanza,
prendendo
l’insegnamento
della
Bibbia
come
autorità
assoluta
e
definitiva,
Serveto,
basandosi
coerentemente
su
Deuteronomio
6:4
(“Ascolta,
Israele:
il
Signore
è il
nostro
Dio,
il
Signore
è
Uno
solo”)
e su
numerosi
altri
passi,
dichiarava
che
la
natura
di
Dio
non
può
essere
divisa
in
tre
persone,
non
essendo
tale
dottrina
insegnata
dalle
Sacre
Scritture
ed
essendo,
anzi,
il
frutto
di
contaminazioni
di
culti
stranieri
e di
invenzioni
di
persone
ignoranti.
A
riprova
di
ciò,
argomentava
che
i
primi
Padri
della
Chiesa
non
parlavano
mai
di
trinità
e
che
l’idea
trinitaria
era
stata
imposta
alla
Chiesa
da
parte
dei
Greci,
più
attenti
a
filosofeggiare
vuotamente
che
a
sviluppare
il
Cristianesimo
originario.
Allo
stesso
modo,
altrettanto
non
scritturale
era
la
dottrina
delle
due
nature
in
Cristo,
dottrina
che
l’autore
ridicolizzava
definendola
illogica,
irragionevole,
contraddittoria,
immaginaria,
e
contro
cui
insorgeva,
ritenendo
che
definirla
come
ispirata
dallo
Spirito
Santo
fosse
blasfemo
e
demoniaco.
A
seguire,
Serveto
affermava
che
la
dottrina
di
un
Dio
unico
in
tre
persone
non
poteva
essere
dimostrata
e
neppure
veramente
immaginata
ed
era
unicamente
fonte
di
innumerevoli
eresie:
quelli
che
vi
credevano
erano
stolti
e
ciechi
e
divenivano
nella
pratica
atei
rimanendo
senza
il
vero
Dio,
mentre
era
proprio
questa
dottrina
assurda
l’ostacolo
insuperabile
per
la
conversione
di
Ebrei
e
Musulmani
al
Cristianesimo.
Al
posto
di
queste
dottrine
artificiali
espresse
nei
“credi”
niceani,
Serveto
attingeva
dalla
Bibbia
(con
numerose
citazioni
a
dimostrazione)
una
dottrina
molto
semplice:
l’uomo
Gesù,
di
cui
i
Vangeli
raccontano,
è il
Cristo,
l’Unto
di
Dio;
che
Egli
sia
il
Cristo,
miracolosamente
generato
da
Dio
è
provato
dai
suoi
poteri
miracolosi
e
dalle
sue
stesse
dichiarazioni;
anche
l’uomo
è
Dio
essendo
pieno
della
divinità
che
Dio
gli
ha
concesso
e,
conseguentemente,
Gesù
non
è
divino
per
natura
come
insegna
la
Chiesa
ma
solo
grazie
a un
dono
di
Dio,
il
quale
rimane
incomprensibile
ma
può
essere
conosciuto
solo
per
mezzo
di
Cristo
e
dello
Spirito
Santo,
che
è un
potere
di
Dio
inviato
sotto
forma
di
un
angelo
o
spirito
per
farci
santi.
Come
risultato
di
tutto
ciò,
l’unica
trinità
in
cui,
secondo
l’autore,
era
legittimo
credere
era
questa:
che
Dio
si
riveli
all’uomo
sotto
tre
diversi
aspetti
(“dispositiones”),
manifestandosi
nella
natura
del
Padre
che
è
condivisa
con
suo
Figlio
Gesù
e
con
lo
Spirito
che
abita
in
noi.
Risulta
piuttosto
chiaro
come
questa
costruzione
teologica
fosse
piuttosto
distante
dall’Unitarianesimo
successivo
e
fosse,
piuttosto,
una
rielaborazione
del
Sabellianismo
che,
per
altro,
non
creò
mai
una
Chiesa
di
seguaci.
Ciò
che,
in
particolare,
va
sottolineato
è
che
Serveto
non
lasciò
mai
formalmente
il
Cattolicesimo
e
che,
come
si
legge
chiaramente
al
termine
dei
“Dialoghi”,
egli
non
si
sentì
mai
né
pienamente
in
accordo
né
pienamente
in
disaccordo
sia
con
Cattolicesimo
che
con
Protestantesimo,
trovando
in
entrambi
elementi
positivi
e
negativi.
Insomma,
il
pensiero
servetiano
era,
in
questa
fase,
più
che
altro
una
ripresa
di
concezioni
già
espresse
nel
corso
della
storia
della
Chiesa
e
non
completamente
sistematizzate.
L’unica
ragione
per
la
risonanza
che
il
“De
Trinitatis”
e i
“Dialoghi”
ebbero
in
campo
protestante
(il
mondo
cattolico
vi
prestò,
in
fin
dei
conti,
ben
poca
attenzione)
fu
quella
di
aver
colpito
un
nervo
scoperto
come
quello
della
trinità:
Melantone,
ad
esempio,
nel
suo
primo
trattato
aveva
considerato
il
concetto
trinitario
coma
appena
degno
di
menzione
e
non
necessario
alla
salvezza
e
solo
dopo
l’attacco
servetiano
lo
propaganderà
come
essenziale
e
Calvino,
nel
suo
primo
catechismo,
aveva
trattato
della
trinità
solo
“en
passant”
e
solo
negli
“Istituti”
del
1536
ne
parlerà
diffusamente.
Insomma,
il
nodo
trinitario
comincia
a
essere
centrale
proprio
con
i
testi
che
Serveto
pubblica
prima
di
sparire
ed è
questa
messa
in
discussione
di
una
concezione
prima
data
come
“pacifica”
il
grande
merito
del
giovane
aragonese.
Abbiamo,
comunque,
visto
che
il
clima
per
lui,
nelle
aree
tedesche,
si
stava
facendo
troppo
caldo.
Fu
per
questa
ragione
che
il
giovane
Miguel
decise
di
trasferirsi
in
Francia
sotto
il
falso
nome
di
Michel
de
Villeneuve
(Michael
Villanovanus)
e di
iscriversi
alla
Sorbona
dove,
in
un
paio
d’anni,
arrivò
a
livelli
così
alti
nello
studio
della
matematica
da
poter
tenere
lezioni
agli
altri
studenti.
In
questa
prima
fase,
evidentemente,
l’interesse
per
la
teologia,
nonostante
la
delusione
per
i
suoi
approcci
fallimentari
con
i
leader
riformati,
non
era
per
nulla
scemato,
tanto
che,
conosciuto
il
giovane
Calvino,
Miguel
lo
sfidò
in
un
dibattito
pubblico
su
argomenti
religiosi,
a
cui,
però,
poi
non
si
presentò
temendo
un’accusa
di
eresia
da
parte
delle
autorità
cittadine.
Ben
presto,
in
ogni
caso,
si
ripresentarono
i
problemi
finanziari
che
lo
avevano
già
colpito
a
Basilea
e
Miguel,
ora
Michel,
dovette
interrompere
gli
studi
e
trasferirsi
a
Lione,
dove
lavorò
per
oltre
due
anni
presso
una
nota
casa
editrice
come
correttore
di
bozze.
In
questa
veste
Serveto
si
occupò,
come
redattore,
di
una
nuova
edizione,
aggiornata
con
le
scoperte
del
Nuovo
Mondo,
della
“Geografia”
di
Tolomeo
(per
altro
alcune
sue
annotazioni
sulla
Palestina
e
sulla
improbabilità
che
una
zona
così
povera
potesse
essere
la
“terra
promessa”
sarebbero
state
in
seguito
utilizzate
contro
di
lui
con
l’accusa
di
“aver
diffamato
Mosé”)
e di
numerosi
trattati
medici.
Fu
proprio
questo
assiduo
contatto
con
opere
mediche
a
aprirgli
un
nuovo
campo
d’interessi
e a
portarlo
a
tornare
a
Parigi
per
divenire
uno
studente
di
medicina.
A
Parigi
Serveto
rimase
per
circa
quattro
anni,
studiando
con
i
più
illustri
medici
e
anatomisti
dell’epoca
e
ottenendo
una
buona
fama
con
un
piccolo
trattatello
sulla
digestione
che
divenne
così
popolare
da
avere
cinque
edizioni
in
Francia
e in
Italia
e
per
i
suoi
studi
sulla
circolazione.
In
questo
periodo,
dietro
sollecitazione
di
alcuni
amici,
diede
anche
alcune
letture
universitarie
pubbliche
relative
a
geografia
e
astrologia
(allora
considerata
una
scienza
a
tutti
gli
effetti)
ma
queste
iniziative
furono,
per
lui,
fonte
di
nuovi
guai:
certe
sue
osservazioni
irriverenti
su
alcuni
luminari
della
medicina
del
tempo
gli
attirarono
l’ira
del
mondo
accademico
e il
giovane
medico
si
trovò
accusato
di
divinazione
(un’accusa
che
a
Parigi
poteva
costare
il
rogo)
e
costretto,
ancora
una
volta,
a
trasferirsi.
La
nuova
meta
dei
suoi
pellegrinaggi
fu
Charlieu,
nei
pressi
di
Lione,
e
per
un
anno
circa
svolse
in
quel
paese
l’attività
professionale
medica.
Un’aggressione
notturna
mentre
andava
a
visitare
un
paziente,
aggressione
probabilmente
organizzata
da
alcuni
suoi
colleghi
invidiosi
del
notevole
successo
che
stava
ottenendo,
lo
indusse,
nel
1540,
ad
accettare
l’invito
dell’arcivescovo
di
Vienne,
che
aveva
conosciuto
a
Parigi,
a
diventare
il
suo
medico
personale,
alloggiando
nel
suo
stesso
palazzo:
da
quel
momento
in
poi
iniziò
il
più
lungo
periodo
(circa
dieci
anni)
di
quiete
della
sua
vita
avventurosa
e
travagliata,
durante
il
quale
acquistò
fama
e
fortuna
come
medico
e,
al
tempo
stesso,
poté
proseguire
i
suoi
studi,
producendo,
tra
l’altro,
una
nuova
edizione
di
Tolomeo
(notevolmente
“
ammorbidita”
rispetto
alla
precedente)
e
una
edizione,
completa
di
prefazione
e
note,
della
recente
Bibbia
in
latino
curata
dal
monaco
domenicano
Sante
Pagnino.
È
proprio
questa
edizione
biblica
uno
dei
suoi
lavori
più
stupefacenti:
nella
sua
elaborazione,
infatti,
Serveto
stabilì
alcuni
principi
filologici
completamente
nuovi
(ad
esempio
sfatando
scientificamente
il
mito
che
Salmi
e
Profeti
avessero
profetizzato
l’avvento
di
Cristo),
in
anticipo
di
250
anni
rispetto
alla
moderna
filologia
biblica.
Naturalmente
tali
principi
vennero
poi
utilizzati
contro
di
lui
sia
dai
cattolici
(che
misero
la
sua
edizione
all’Indice)
che
come
elementi
“eretici”
e di
offesa
a
Dio
nel
processo
intentato
contro
di
lui
da
Calvino,
ma,
per
ora,
nessuno
osò
attaccare
questo
protetto
del
vescovo
di
Vienne.
Resta
il
fatto
che,
con
ogni
probabilità,
fu
proprio
questo
nuovo
studio
della
Bibbia
a
far
rivivere
in
lui
il
suo
antico
interesse
per
la
teologia,
che
ora,
nella
tranquillità
di
Vienne,
poteva
coltivare
a
fondo.
Ciò
che
sentiva
come
potente
necessità
era
spiegare
ai
Cristiani
che
il
vero
Cristianesimo
era,
in
realtà,
molto
più
semplice
di
quanto
apparisse
e,
in
particolare,
si
era
convinto
che,
riuscendo
a
convincere
Calvino,
ormai
affermato
riformatore
a
Ginevra,
delle
sue
teorie,
avrebbe
potuto
aprire
una
fase
nuova
per
l’intera
Chiesa.
Così,
tramite
un
certo
Frellon,
un
editore
di
Lione
per
il
quale
Serveto
aveva
curato
un’
opera
letteraria
e
che
conosceva
bene
Calvino,
il
medico
aragonese
riuscì
ad
aprire
una
corrispondenza
con
il
leader
riformato,
iniziando
a
inviargli
missive
in
cui
lo
interrogava
su
Gesù
come
Figlio
di
Dio,
sul
Regno
di
Cristo,
sulla
salvezza,
sul
battesimo
e su
molti
altri
argomenti.
La
corrispondenza,
iniziata
su
un
piano
di
estrema
cortesia,
presto
purtroppo
degenerò
in
un
abuso
grossolano
di
invettive:
Serveto
era
intenzionato
a
dimostrare
a
Calvino
i
suoi
errori
e le
sue
credenze
non
scritturali
e
Calvino,
dal
canto
suo,
ormai
praticamente
dittatore
di
Ginevra,
poco
aduso
a un
tono
didascalico
e
poco
rispettoso
utilizzato
nei
suoi
confronti,
non
aveva
alcuna
intenzione
di
farsi
dare
lezioni
da
uno
sconosciuto,
cosicché,
dopo
poche
missive,
accusò
il
suo
interlocutore
di
mancanza
di
umiltà
e
pose
fine
allo
scambio
epistolare,
inviando
come
atto
finale
una
copia
dei
suo
“Istitutuzioni
della
Religione
Cristiana”
perché
l’aragonese
“imparasse
che
cosa
era
la
vera
fede
cristiana”.
Serveto,
che,
come
visto,
non
era
certo
tipo
da
permettere
a
qualcuno
di
avere
l’ultima
parola,
non
fece
altro
che
rimandare
il
testo
al
mittente
con
una
serie
impressionante
di
note
scritte
a
margine,
che
Calvino,
come
era
prevedibile,
trovò
altamente
offensive.
Nei
due
anni
seguenti
Serveto
continuò
a
scrivere
a
Calvino
con
toni
sempre
più
duri:
nelle
trenta
missive
successive
arrivò
ad
accusarlo
come
reprobo,
bestemmiatore,
Ebreo,
ladro
e
brigante,
ricevendo
in
risposta
una
sola
nota
in
cui
il
riformatore
ginevrino
paragonava
le
lettere
che
gli
pervenivano
a un
“raglio
d’asino”.
Nonostante
ciò
Serveto
era
sempre
convinto
di
poter
convincere
Calvino
e,
in
quest’ottica,
gli
inviò
il
manoscritto
di
un
testo
che
aveva
appena
terminato
e in
cui
ridisegnava,
sistematizzandolo,
l’intero
sistema
di
pensiero
teologico
che
aveva
fino
a
quel
momento
asserito.
Calvino
lesse
il
manoscritto
ma
si
rifiutò
di
rispondere
e
ignorò
le
ripetute
richieste
di
Serveto
che
chiedeva
la
restituzione
del
testo.
Quando,
infine,
sempre
nella
speranza
di
convertire
il
suo
interlocutore,
Serveto
di
offrì
di
andare
a
Ginevra
per
discutere
faccia
a
faccia
con
lui,
Calvino
non
solo
si
rifiutò
di
fornire
allo
spagnolo
un
salvacondotto,
ma
arrivò
a
scrivere
all’amico
Farel,
pastore
di
Neuchâtel,
chiedendogli,
nel
caso
Serveto
fosse
capitato
nella
sua
area
d’influenza,
di
non
permettergli
di
fuggire
vivo.
Avendo
fallito
con
Calvino,
Serveto,
sempre
sotto
lo
pseudonimo
di
Michel
de
Villeneuve,
tentò
di
convincere,
senza
successo,
altre
guide
spirituali
della
Riforma,
in
particolare
Poupin,
parroco
a
Ginevra,
e
Viret,
parroco
a
Losanna,
della
mostruosità
di
scambiare
Dio
con
un
“Cerbero
a
tre
teste”
ma,
visti
gli
esiti
sempre
negativi
dei
suoi
approcci,
decise,
forse
avventatamente,
di
pubblicare
l’esito
delle
sue
riflessioni
perché
tutti
potessero
conoscerlo
e,
forse,
anche
perché
si
era
convinto,
dalle
sue
letture
scritturali,
che
il
regno
dell’Anticristo
(il
papato)
sarebbe
finito
nel
1585
e
riteneva
di
essere
stato
prescelto
come
agente
per
tale
cambiamento
epocale.
Così,
riprendendo
il
manoscritto
inviato
a
Calvino,
a
inizio
1553
lo
consegnò
a un
amico
tipografo
di
Basilea,
il
quale
in
un
primo
momento
non
osò
stamparlo
per
paura
delle
conseguenze
con
l’Inquisizione
ma
che,
dopo
molte
insistenze
e
dietro
il
pagamento
di
una
forte
cifra,
finì
per
produrne
un
certo
numero
di
copie
(circa
un
migliaio).
Il
testo,
che
venne
intitolato
“Christianismi
Restitutio”
(“Restauro
del
Cristianesimo”),
era
un
volume
di
circa
700
pagine,
in
cui
si
rielaboravano
le
teorie
del
“De
Trinitatis”
e
dei
“Dialoghi”
(con
l’aggiunta
delle
trenta
lettere
a
Calvino)
con
toni
ancora
più
accesi
e in
cui
si
dimostrava
l’assurdità
delle
pretese
trinitarie
utilizzando
ogni
metodo
possibile,
dalla
logica
alla
storia
alla
filologia
bibilica.
Naturalmente
i
volumi
vennero
stampati
in
gran
segreto
in
una
casa
abbandonata
di
Vienne,
senza
alcuna
indicazione
di
luogo,
data,
stampatore
o
l’autore
ma
Serveto
non
seppe
resistere
alla
tentazione
di
scrivere
le
sue
iniziali
sull’ultima
pagina
e di
inserire
il
suo
nome
in
diversi
punti
del
testo.
Forse
anche
questa
imprudenza
avrebbe
potuto
avere
conseguenze
di
non
particolare
gravità
se
non
fosse
accaduto
che
uno
stock
di
500
volumi
venisse
inviato
a
Lione
in
vista
della
vendita
nelle
grandi
fiere
librarie
di
quella
città
e di
Francoforte
e
che
l’editore
Frellon,
che
abbiamo
già
incontrato
come
tramite
tra
Serveto
e
Calvino,
probabilmente
senza
prevedere
le
conseguenze
del
suo
atto,
mandasse
una
copia
del
testo
a
quest’ultimo.
Calvino
non
ci
mise
molto
a
unire
le
tessere
del
puzzle
e a
riconoscere
in
Michel
de
Villeneuve
l’“eretico”
Miguel
Servet
e
mai
e
poi
mai
avrebbe
potuto
permettere
che
le
“bestemmie”
contenute
nel
“Restitutio”
si
diffondessero
in
Europa:
decise,
dunque,
di
servirsi
della
sua
peggior
nemica,
l’Inquisizione
cattolica,
per
mettere
la
parola
fine
all’annosa
vicenda
che
lo
legava
al
medico
spagnolo.
In
quest’ottica
si
servì
di
un
suo
amico,
un
certo
Guillaume
Trie,
rifugiato
protestante
di
Lione
che
era
ancora
in
corrispondenza
con
un
parente
cattolica:
a
lui
Calvino
raccontò
quello
che
sapeva
di
questo
nuovo
libro
e
del
suo
autore
e
caldeggiò
l’idea
che,
tramite
la
suddetta
parente
francese,
il
terribile
bestemmiatore
della
trinità
Michele
Serveto,
alias
Villeneuve,
che
viveva
a
Vienne
come
medico,
venisse
denunciato
all’Arcivescovo
di
Lione
come
eretico.
La
lettera
di
Trie
giunse
ben
presto
nelle
mani
dell’Inquisitore,
accompagnata
dalle
prime
quattro
pagine
della
“Restitutio”
inviate
a
riprova
delle
scandalose
idee
propagandate
dall’“eretico”
aragonese.
Serveto
venne
convocato
dalle
autorità
e
interrogato,
il
suo
alloggio
venne
perquisito
e
tutti
i
suoi
stampati
accuratamente
riletti
ma
non
si
riuscì
a
trovare
alcuna
prova
contro
l’accusato,
che
venne
rilasciato.
Allora,
Calvino
consegnò
a
Trie
una
serie
di
lettere
inviategli
da
Serveto
e la
famosa
copia
delle
“Institutio”
annotata
a
margine
e
queste,
fatte
pervenire
ai
giudici
lionesi,
risultarono
prove
sufficienti
per
l’arresto
del
sedicente
Michel
de
Villeneuve,
ora
riconosciuto
come
l’eretico
Serveto.
Serveto,
ormai
messo
all’angolo
e
impossibilitato
a
negare
gli
addebiti
che
gli
venivano
mossi,
tentò
una
mossa
disperata:
incaricò
dal
carcere
un
servitore
di
raccogliere
una
forte
somma
di
denaro
che
utilizzò
per
corrompere
influenti
amici
che
gli
permisero
di
fuggire.
Quando
l’evasione
venne
scoperta,
il
medico
spagnolo
era
già
ben
oltre
la
portata
dei
suoi
accusatori
e il
processo
civile
contro
di
lui
continuò
in
sua
assenza
per
oltre
dieci
settimane
fino
alla
scoperta
delle
500
copie
lionesi
della
“Restitutio”
e
fino
alla
condanna
per
il
reo
a
essere
bruciato
a
fuoco
lento
con
i
suoi
scritti
(sentenza
che
venne
eseguita
“in
effige”
il
giorno
seguente
alla
pronuncia
del
tribunale):
qualche
mese
dopo
lo
stesso
verdetto
venne
emesso
anche
dal
tribunale
ecclesiastico
(e
si
ripeté
la
stessa
macabra
sceneggiata
del
rogo
in
effige)
ma
ormai
Serveto
era
già
salito,
a
Ginevra,
su
un
rogo
vero.
A
questo
punto
si
poneva
per
il
fuggiasco
il
dubbio
su
dove
andare:
in
Francia
era
un
latitante,
un
ritorno
sulle
rive
del
Reno
era
assolutamente
da
escludere
per
il
rischio
di
essere
riconosciuto
e
consegnato
alle
autorità
riformate
e
non
era
neppure
pensabile
tentare
di
rientrare
nella
natia
Spagna
dove
il
furore
inquisitoriale
aveva
toccato
punte
di
fanatismo
mai
viste
in
precedenza.
L’unica
possibilità
era
quella
di
raggiungere
Napoli,
dove
avrebbe
potuto
esercitare
la
professione
medica
tra
connazionali,
ma
il
problema
era
come
arrivare
nella
città
Italiana:
dopo
quattro
mesi
di
fuga,
dunque,
Miguel
si
risolse
ad
attraversare
la
Svizzera
e il
nord
Italia
per
raggiungere
la
sua
meta,
ma
proprio
questo
percorso
si
sarebbe
rivelato
esiziale
per
lui.
Fu
così
che
Serveto,
diretto
verso
sud,
finì
per
ritrovarsi
presso
una
locanda
di
Ginevra
una
domenica
mattina:
la
legge
imponeva
a
tutti
di
recarsi
alla
funzione
e,
nonostante
desiderasse
tenersi
il
più
possibile
nascosto,
né
il
latitante
spagnolo
poteva
esimersi
dall’obbligo
né,
probabilmente,
lo
desiderava,
curioso
com’era
di
sentire
predicare
Calvino.
Naturalmente
venne
riconosciuto
e
tratto
in
arresto
ancora
prima
dell’inizio
del
sermone.
Come
sappiamo,
Calvino
già
da
tempo
riteneva
che
Serveto
dovesse
essere
messo
a
morte
come
bestemmiatore
ed
eretico
ed è
molto
probabile
che
sospettasse
che
la
presenza
dell’aragonese
fosse
dovuta
alla
sua
volontà
di
diffondere
le
sue
idee
(che
avevano
già
avuto
una
discreta
risonanza
nelle
città
del
nord
Italia)
e,
così
facendo,
mettere,
secondo
lui,
in
pericolo
l’intera
Riforma:
per
il
dittatore
ginevrino
divenne,
quindi,
una
sorta
di
dovere
morale
liberare
il
mondo
da
quella
che
riteneva
essere
una
piaga
infetta
e
chiese
che
l’“eretico”
venisse
immediatamente
arrestato.
Dal
momento
che
la
legge
cittadina
richiedeva
che
l’accusatore
venisse
trattenuto
insieme
all’accusato
fino
al
momento
della
formalizzazione
delle
accuse,
Calvino
inviò
al
suo
posto
uno
studente
di
nome
Nicolas
de
la
Fontaine,
che
viveva
in
casa
sua
come
suo
segretario
e
che,
da
quel
momento,
funse
da
accusatore
principale
nel
procedimento
che
seguì
e
che
si
basò
su
38
capi
d’imputazione,
quasi
tutti
tratti
dalla
“Restitutio”
(con
qualche
accenno
anche
alla
menzionata
redazione
della
“Geografia”
di
Tolomeo),
che
andavano
dalla
negazione
della
trinità
alla
bestemmia
contro
la
persona
di
Cristo,
dal
rifiuto
dell’immortalità
dell’anima
e
del
pedobattesimo
alla
diffamazione
di
Calvino.
Serveto,
interrogato
il
giorno
seguente,
non
smentì
gran
parte
delle
accuse
(aggiungendo,
però,
che,
qualora
gli
fosse
dimostrato
il
suo
errore
era
disposto
alla
ritrattazione)
e
venne
rinviato
a
giudizio:
come
pubblico
ministero
venne
scelto
un
consulente
legale
del
Concistoro,
mentre
la
difesa
venne
assunta
da
un
avversario
politico
di
Calvino,
un
membro
di
quel
“Partito
dei
Libertini”
che
da
tempo
metteva
in
discussione
il
potere
del
duro
riformatore
al
governo
di
Ginevra,
che,
da
subito,
minacciò
che,
se
il
processo
non
fosse
stato
equo,
avrebbe
reso
il
“caso
Serveto”
una
questione
politica
dirompente.
La
disamina
delle
prove
richiese
qualche
tempo
ma,
sostanzialmente,
non
aggiunse
nuove
prove
a
carico
e
quando
de
la
Fontaine
chiese
di
essere
liberato
dalla
prigione
in
cui
risiedeva
in
qualità
di
accusatore,
il
caso
venne
avocato
dal
Procuratore
generale
di
Ginevra
e
Calvino,
pur
continuando
a
tuonare
contro
l’eretico
dal
pulpito,
si
pose
sempre
più
in
una
posizione
defilata
dal
punto
di
vista
giuridico.
Il
passo
successivo
fu
quello
di
chiedere
alle
autorità
di
Vienne
per
inviare
una
copia
degli
elementi
che
avevano
contro
Serveto
e di
sottoporre
il
caso
davanti
alla
altre
Chiese
riformate
della
Svizzera
tedesca.
Serveto,
dal
canto
suo,
fece
istanza
formale
di
scarcerazione,
adducendo
a
motivazione
il
fatto
che
non
era
consuetudine
apostolica
né
dei
primi
imperatori
cristiani
infliggere
agli
eretici
la
pena
capitale,
ma
solo
la
scomunica
e il
bando
e
che,
di
fatto,
egli
non
aveva
commesso
alcun
reato
né
nel
territorio
ginevrino
né
altrove,
risultando
le
sue
proposizioni
solo
discussioni
accademiche
che
non
avevano
mai
provocato
turbative
dell’ordine
pubblico.
Questa
linea
di
difesa
contrastava
apertamente
con
l’accusa
che
tendeva
a
dimostrare
come
l’aragonese
avesse
tentato
di
diffondere
capillarmente
le
sue
eresie,
già
condannate
da
tempo,diffondendo
così
una
mentalità
immorale
e
conducendo
egli
stesso
una
vita
criminale.
Inizialmente
i
magistrati,
dopo
lunghi
interrogatori
dell’imputato,
parvero
propendere
per
lui
ma
l’intervento
del
Procuratore
Generale
che,
chiaramente
spinto
da
Calvino,
accusò
Serveto
di
voler
provocare
sommosse
in
città,
di
aver
mentito
e di
essere
così
chiaramente
colpevole
da
non
necessitare
neppure
di
una
difesa,
mantenne
il
processo
in
una
situazione
di
stallo.
La
questione
si
sbloccò
allorché
giunse
da
Vienne
l’incartamento
con
la
sentenza
definitiva
di
condanna
di
Serveto
e la
richiesta
di
estradizione
del
reo
sulla
base
dell’accusa
di
evasione
e
per
i
reati
commessi
in
territorio
francese.
Come
previsto
dalla
legislazione
ginevrina
venne,
conseguentemente,
chiesto
al
prigioniero
se
desiderasse
essere
giudicato
a
Ginevra
o in
Francia:
Serveto,
in
lacrime,
pregò
di
non
essere
inviato
a
morte
certa
a
Vienne
e
questo
fece
il
gioco
di
Calvino
che
poteva,
in
questo
modo,
dimostrare
che
i
Protestanti
non
erano
meno
zelanti
dei
Cattolici
nel
preservare
la
purezza
della
fede
cristiana.
La
richiesta
dei
magistrati
francesi
venne,
dunque,
ricusata
e si
continuò
a
procedere
nella
disamina
dei
capi
d’accusa.
Il
problema
era
che
una
discussione
sugli
insegnamenti
eretici
del
Serveto
avrebbe
richiesto,
se
portata
in
tribunale,
troppo
tempo
e
avrebbe
esulato
dal
campo
di
competenza
dei
giudici:
si
decise,
allora,
di
fornire
a
Serveto
i
libri
atti
alla
sua
difesa
e
che
l’imputato
e
Calvino
avrebbero
discusso
per
iscritto
i
punti
controversi,
lasciando
alle
Chiese
Svizzere
il
compito
di
decidere
sulla
ortodossia
o
meno
delle
argomentazioni.
La
discussione
scritta
durò
quattro
giorni:
Calvino,
dapprima,
elaborò
38
punti
(paralleli
ai
38
capi
d’accusa)
sulla
base
di
estratti
dai
libri
di
Serveto,
definendo
tali
scritti
come
“parzialmente
empi
e
bestemmiatori,
pieni
di,
errori
in
parte
profani
e
folle
e
tutti
completamente
estranei
alla
Parola
di
Dio
e
alla
fede
ortodossa”;
Serveto
rispose
spiegando
e
giustificando
le
sue
posizioni;
Calvino
scrisse
in
confutazione
e
Serveto
finì
semplicemente
aggiungendo
brevi
note
a
matita
tra
la o
a
margine
del
manoscritto
di
Calvino.
La
discussione,
iniziata
su
un
piano
abbastanza
dignitoso,
degenerò
ben
presto
a
causa
di
un
gravissimo
errore
di
valutazione
di
Serveto
che,
ritenendo
di
aver
già
vinto
la
disputa,
si
abbandonò
a
violente
invettive
contro
il
suo
avversario
(che,
al
contrario,
mantenne
sempre
un
tono
equilibrato),
arrecando
molto
danno
alla
sua
causa.
I
documenti
vennero
sottoposti
al
Consiglio
e
poi
debitamente
trasmessi
alle
Chiese
e ai
Consigli
di
Zurigo,
Berna,
Basilea
e
Sciaffusa,
mentre
Calvino
anticipava
questo
passaggio
scrivendo
a
numerosi
pastori
per
spingerli
a
condannare
Serveto.
Dopo
quattro
settimane
si
cominciarono
a
ricevere
le
prime
risposte
e,
nel
frattempo,
Serveto,
che
era
ancora
rinchiuso
in
carcere,
rivolse
al
Consiglio
un
indignato
appello
per
la
sua
liberazione,
sostenendo
di
essere
trattenuto
ingiustamente,
mangiato
dai
vermi
e
senza
vestiti
di
ricambio.
Quando
il
Consiglio
ignorò
la
sua
perorazione,
si
rivolse
al
Consiglio
Grande
(o
“Consiglio
dei
Duecento”)
e
arrivò
addirittura
a
richiedere
l’incarcerazione
di
Calvino
come
falso
accusatore,
sulla
base
di
sei
capi
d’accusa:
naturalmente
anche
questa
richiesta
venne
totalmente
ignorata.
Le
risposte
giunte
dalle
varie
Chiese
variavano
per
lunghezza
e
tono
ma,
avendo
tutti
i
Consigli
incaricato
i
loro
pastori
di
esprimersi,
tutte
concordavano
che
Serveto
dovesse
essere
condannato,
non
solo
per
le
“nefandezze
teologiche”
cha
aveva
espresso
ma
anche
e
soprattutto
perché
le
Chiese
Riformate
non
potessero
venire
accusate
di
dar
rifugio
a un
eretico.
A
questo
punto
la
sorte
di
Serveto
era
segnata:
due
giorni
dopo
venne
condannato
a
essere
condotto
nel
sobborgo
di
Champel
e
ivi
essere
bruciato
vivo
insieme
con
i
suoi
libri,
secondo
l’antica
pratica
imperiale
che
Calvino
aveva
lasciato
invariata.
Quando
la
sentenza
fu
pronunciata,
Serveto,
che
si
aspettava
l’assoluzione
o
nel
peggiore
dei
casi
una
condanna
al
bando,
proruppe
in
un
pianto
dirotto
ma
presto
si
ricompose
e
riprese
un
comportamento
di
grande
dignità,
scusandosi
per
il
suo
sfogo.
Farel,
il
ministro
di
Neuchatel,
che
era
giunto
quella
stessa
mattina
su
invito
di
Calvino
(che,
forse,
voleva
tentare
di
salvare
“capra
e
cavoli”
ottenendo,
tramite
le
capacità
oratorie
dell’amico,
un’abiura
che
avrebbe
evitato
a
Serveto
il
rogo)
ebbe
un
lungo
colloquio
con
il
medico
aragonese
chiedendogli
di
rinunciare
ai
suoi
errori
e
così
salvarsi
la
vita
ma
Serveto
rimase
fedele
alle
sue
convinzioni,
implorando
solo,
inutilmente,
che
gli
venisse
imposta
un’altra
forma
di
morte
perché
temeva
che
il
dolore
del
rogo
potesse
indurlo
a
ritrattare.
Fu
Farel
ad
accompagnarlo,
il
27
ottobre
1553,
al
luogo
dell’esecuzione
dove
si
era
radunata
una
grande
folle.
Qui
fu
incatenato
a un
palo,
con
una
copia
della
“Restitutio”
legata
a
una
gamba
e un
corona
di
foglie
imbevute
di
zolfo
sulla
testa
e,
quando
il
fuoco
venne
appiccato,
le
sue
ultime
parole
furono
“Gesù,
figlio
del
Dio
eterno,
abbi
pietà
di
me”.
Gli
ci
volle
oltre
mezz’ora
per
morire.
Anche
durante
il
processo
numerose
voci
si
erano
sollevate
a
favore
di
Serveto,
non
ultime
quelle
del
giurista
italiano
Gribaldo,
esule
a
Ginevra,
di
David
Joris
che
scrisse
da
Basilea
ai
governi
delle
città
protestanti
della
Svizzera
esortandoli
a
evitare
di
macchiarsi
di
un
delitto
come
l’omicidio
di
un
teologo,
di
Camillo
Renato,
pensatore
italiano,
che
protestò
contro
la
condanna
dicendo:
“Né
Dio
né
il
suo
spirito
hanno
incoraggiato
un’azione
del
genere.
Cristo
non
trattava
in
questo
modo
coloro
che
non
lo
riconoscevano”
e
dell’umanista
francese
Sébastien
Castellion
che
scrisse:
“Uccidere
un
uomo
non
significa
difendere
una
dottrina,
significa
solo
uccidere
un
uomo”,
ma
purtroppo
i
principali
riformatori
(Melantone,
Beza,
ecc.),
senza
eccezione,
approvarono
incondizionatamente
l’esecuzione.
Cosa
possiamo
dire
oggi
del
rogo
di
Serveto?
Nel
giudicare
tutta
questa
vicenda
si
deve
fare
attenzione
a
non
essere
ingiusti
verso
Calvino,
che,
in
realtà,
non
si
comportò
in
modo
troppo
diverso
da
quello
intollerante
di
tutti
i
capi
religiosi
e di
governo
della
sua
epoca,
confondendo
libero
pensiero
e
opinioni
divergenti
dalla
propria
come
attacchi
letali
alla
religione
cristiana.
Certamente
Serveto
era
un
uomo
ostinato,
per
certi
versi
fanatico,
offensivo
ed
esasperante
al
massimo
grado,
che
mescolava
idee
brillanti
e
incredibilmente
avanzate
con
elementi
che
rasentavano
la
superstizione.
Era,
però,
soprattutto,
un
sincero
cristiano,
incrollabilmente
fedele
alla
Bibbia
fino
alla
morte.
Probabilmente
ciò
che
dell’intera
vicenda
conta
di
più
è
l’effetto
a
lungo
termine
dell’esecuzione
di
Serveto.,
Come
scrisse
Marian
Hillar:
“La
morte
di
Serveto
segnò
una
svolta
nell’ideologia
e
nella
mentalità
invalse
a
partire
dal
IV
secolo
[...]
Da
un
punto
di
vista
storico,
Serveto
morì
affinché
la
libertà
di
coscienza
potesse
diventare
un
diritto
civile
del
singolo
individuo
nella
società
odierna”.
Nel
1908
nella
città
francese
di
Annemasse,
a
circa
cinque
chilometri
dal
luogo
in
cui
morì
Serveto,
fu
eretto
un
monumento
in
suo
onore.
Un’iscrizione
dice:
“Michele
Serveto
[...]
geografo,
medico,
fisiologo,
contribuì
al
bene
dell’umanità
con
le
sue
scoperte
scientifiche,
la
sua
dedizione
ai
malati
e ai
poveri,
e la
sua
indomita
indipendenza
di
pensiero
e
coscienza
[...]
Era
un
uomo
dalle
convinzioni
granitiche.
Sacrificò
la
propria
vita
per
la
causa
della
verità”.
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