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[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 158 / FEBBRAIO 2021 (CLXXXIX)


arte

ELMGREEN & DRAGSET

FRA ARTE DECONTESTUALIZZATA E L’ABBATTIMENTO DEGLI STEREOTIPI

di Francesco Antinolfi

 

Michael Elmgreen (Copenhagen, Danimarca, 1961) e Ingar Dragset (Trondheim, Norvegia, 1969) iniziano la loro collaborazione artistica a Copenhagen nel 1995. Per i primi dieci anni di collaborazione, Elmgreen & Dragset sono stati una coppia, per poi decidere di limitare i rapporti a un livello esclusivamente professionale. Nel 1997 si trasferiscono a Berlino, dove, nove anni dopo, grazie alla notorietà presto acquisita, possono permettersi di acquistare una vecchia stazione idraulica per trasformarla nel loro studio.

 

La loro sempre maggiore affermazione nel panorama artistico contemporaneo internazionale è avvenuta attraverso un percorso di interrelazioni fra arte, architettura e design, dando vita a opere contraddistinte da un umorismo sovversivo e dall’analisi di tematiche socioculturali di grande rilievo nella contemporaneità, secondo un processo che vede lo stesso spazio espositivo trasformarsi in ambientazione scenica. Tale scelta ha consentito al duo di ricevere incarichi, anche curatoriali, da importanti istituzioni artistiche di tutto il mondo. Tutto, nel loro modo di vivere l’arte, viene sottoposto a un processo di rielaborazione, un dislocamento che trova la sua eco nelle definizioni moderne e instabili dell’identità e dellarte stessa.

 

Una parte del loro processo creativo è incentrato sulla rivisitazione di luoghi strettamente legati alla comunità omosessuale, trasformati in denuncia sociale, in contrasto con la sempre più presente meccanizzazione dei rapporti umani.

 

Un esempio può essere riconducibile al 2003 quando vincono un concorso indetto dal governo tedesco per la realizzazione di un monumento in memoria delle vittime omosessuali dell’Olocausto. L’opera, situata nel parco Tiergarten di Berlino, consiste in un enorme stele di cemento del peso di 75 tonnellate.

 

Guardando in un’apertura posta sulla superficie, lo spettatore può osservare il video di due giovani uomini che si baciano. In questo caso Elmgreen & Dragset utilizzano la video art per riflettere su un tema molto attuale e profondo: la repressione e l’omofobia.

 

In occasione Giornata della Memoria del 2019 quest’opera ha subito atti vandalici riconducibili al significato dell’opera stessa. Un tale atto, però, non fa altro che sottolineare la necessità ancora oggi di riflettere su argomenti quali l’amore, l’odio, l’intolleranza e la civiltà; l’arte è solo uno dei tanti mezzi per attuare queste riflessioni e per sensibilizzare più persone possibile a temi di importanza fondamentale come questi.

 

 

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Memoriale per gli Omosessuali, 2008. Dettaglio del fotogramma

del video all’interno del Memoriale perseguitati durante il Nazismo

 

Tra le altre opere riconducibili al tema dell’omosessualità ci sono: The Incidental Self (2006), dove portando sotto la lente d’ingrandimento una rielaborazione del concetto di “quadretto familiare” con ben 500 fotografie distribuite su tre file di mensole, viene qui rielaborato per consentire all’intera comunità LGBTQ di entrare a farne parte in ogni suo aspetto, trasformandola così in una grande famiglia allargata, oppure è il caso di The Mirror (2008) esatta riproduzione di un night-club gay dove a essere richiamata è la perdita di luoghi sociali in cui fare nuove e tangibili conoscenze.

 

In un’epoca in cui gran parte delle relazioni sociali e sessuali prende forma nell’isolamento di un social network divertirci senza pensieri, baciare senza giudizi ed essere noi stessi. Altro esempio può essere rappresentato da Han (2012), opera che si presenta come un corrispettivo della sirenetta maschile di Copenaghen, è un netto rimarcare della contrapposizione tra il sesso della sirenetta tradizionale e quello del soggetto dell’opera. Il duo artistico fa un elogio del corpo maschile volutamente giovane.

 

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Han, 2012

 

Ponendo l’accento sul tema dell’omosessualità Elmgreen & Dragset non potevano non trattare tematiche relative al mondo dell’AIDS, questo lo vediamo con opere come Amigos Sauna (2011) dove prendendo il nome dalla sauna più grande di Copenhagen, riproducono uno dei luoghi di incontri sessuali più stereotipati del mondo gay, dove esibizionismo e voyeurismo si mescolano nei vapori delle sue sale sfocate al momento in cui le saune erano diventate capro espiatorio e luogo di proliferazione comunemente accettato di malattie come l’AIDS negli anni ’80 e ’90.

 

Al fine di sensibilizzare riguardo alle conseguenze sociali e i pregiudizi persistenti che ancora continuano a circondare la malattia nel 2015 Elmgreen & Dragset realizzarono Stigma (2015), questo fu il titolo scelto dal duo scandinavo per la loro terza mostra negli spazi del primo piano della Galleria Massimo De Carlo per porre l’attenzione sui vari aspetti che girano intorno al tema AIDS: la cura, la tristezza e, non ultimi, i tanti pregiudizi persistenti che ancora continuano a circondare la malattia.

 

L’installazione che compone la mostra nella sua interezza è detta “Side Effect”: essa è composta da una serie di vasi in vetro soffiato a forma di urna e di varie altezze, riempiti con sostanze coloranti, queste utilizzate per rivestire le pillole di ultima generazione per sconfiggere l’HIV, come la Truvada, l’Atripla, il Stribild e l’Isentress; pesca, rosa, verde menta e azzurro sono i colori rassicuranti dei vari pigmenti utilizzati per addolcire e tranquillizzare i consumatori di queste potenti sostanze.

 

L’opera è volta a stigmatizzare nel nuovo millennio l’immagine lontana degli anni ’80 e ’90 quando l’Aids era rappresentato come uno “spettro demoniaco” si cerca di fornire orizzonti diversi legati ai racconti di questa malattia, di dare differenti punti di vista, a tendere l’orizzonte delle cure croniche, dei tempi allungati, della possibilità di vivere una vita “normale” nonostante tutto.

 

Fortemente influenzati dall’estetica minimalista di Félix Gonzales-Torres, Elmgreen & Dragset creano la propria elegia funebre per coloro che la malattia ha mietuto. È per questo che i vasi nella sala adiacente ricordano urne cinerarie. Tuttavia, il loro contenuto polveroso non è simbolo di morte, ma di rinascita. Se la prima parte dell’opera è stata realizzata per poter dare un punto di vista differente per la malattia, la seconda parte affronta il tema del pregiudizio che gira ancora intorno alla malattia.

 

Questi i temi che si evincono, infatti, in TRACES, una piccola stanza vuota e quasi in ombra che completa la mostra dove i due artisti hanno installato, un lavoro scultoreo che consiste in una lampada a muro accesa con appesa una stella filante srotolata di colore rosa e azzurro. Still-life struggente che sembra il ricordare un amico, un famigliare, una persona cara.

 

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Stigma, 2015, Galleria Massimo de Carlo, Milano

 

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2015 Traces, 2015, Galleria Massimo de Carlo Milano

 

Come già accennato nella parte introduttiva dell’articolo, la produzione artistica del duo scandinavo è anche e soprattutto caratterizzata da una particolare interrelazione dove arte, architettura e design si fondono dando vita a opere contraddistinte da un umorismo sovversivo, secondo un processo che vede lo stesso spazio espositivo trasformarsi in ambientazione scenica.

 

Di quest’altro filone non possiamo fare a meno di non menzionare Shortcut (2003), opera realizzata per il loro primo progetto pubblico in Italia. I due artisti scelgono di confrontarsi anche con gli stereotipi locali: la macchina, una comune Fiat Uno bianca targata Napoli mentre sul cruscotto si vede una mappa di Rimini: la casa automobilistica torinese, che proprio nelle settimane della mostra attraversava una grave crisi, e la località balneare sulla riviera adriatica sono entrambe immagini classiche della cultura italiana più pop.

 

Con l’installazione di un’automobile bianca che traina una roulotte, che spuntano al centro dell’Ottagono della Galleria Vittorio Emanuele dopo un lungo viaggio immaginario al centro della terra, Michael Elmgreen & Ingar Dragset disegnano un’incursione unica nella vita quotidiana di Milano e nella sua storia, rileggendo uno dei simboli della città. Metafora del turismo globale ma anche simbolo della precarietà del mondo di oggi, l’installazione Shortcut racconta un universo in movimento che si sposta lungo rotte imprevedibili e destinazioni fantastiche.

 

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Shortcut, 2003

 

Tra gli altri esempi di decontestualizzazione abbiamo The Collectors - Death of a collector, opera esposta per la loro partecipazione alla 53° Biennale di Venezia nel 2009. Per questa occasione, i due artisti hanno unito il padiglione danese e scandinavo curando la mostra “The Collectors”, che comprendeva opere di artisti di grande rilievo internazionale come l’italiano Maurizio Cattelan e il tedesco Wolfgang Tillmans.

 

La mostra si sviluppava come una storia di cui il visitatore può ricostruire i dettagli visitando i due padiglioni, uno arredato come la casa plasmando lo spazio espositivo a dimora di un collezionista – il misterioso Mr. B – dal gusto artistico eccentrico e con una passione per giovani ragazzi, l’altro, dove le scelte artistiche e d’arredo riportano alla mente una dimensione più familiare dall’aura tesa e dai tratti disfunzionali dove è stata allestita.

 

Tra questi due padiglioni è stata allestita l’opera, tra quelle di maggior impatto della mostra, “Death of a collector”, che rappresenta proprio la morte del collezionista, rappresentato galleggiante a faccia in giù nella sua piscina, in un’installazione che occupa lo spazio comunicante tra i due padiglioni.

 

In questo caso, la denuncia è rivolta a quel desiderio borghese di accumulare beni al solo scopo di farne sfoggio, plasmando la propria identità in base a quelli. Questa fastosità, tuttavia, viene resa fatua dai risvolti della vita dei proprietari. Da un lato, il Padiglione Nordico, dove Mr. B giace senza vita in piscina, mentre un gruppo di nudi rent-boys girovaga per casa leggendo, ascoltando musica e bevendo cocktail.

 

Dall’altro, il Padiglione Danese, dove la casa è distrutta e messa in vendita. A poco è servito accaparrarsi così tanti oggetti di lusso: nel primo caso non sono serviti a migliorare una situazione familiare difficile; nel secondo sono lasciati al giovamento di alcuni ragazzi, il cui atteggiamento tranquillo e rilassato fa presagire un ruolo nella morte del proprietario di casa.

 

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Death of a collector, 2009

 

Ulteriori esempi di decontestualizzazione dell’arte applicati da Elmgreen & Dragset sono rappresentati nel ciclo delle Powerless structures (“Strutture impotenti”). Tali sculture e installazioni sono caratterizzate da un elemento che le accomuna: la decontestualizzazione, portandole così a perdere il loro significato originario.

 

Il potere di queste opere, dunque, si perde nella trasformazione della struttura originale. L’adeguamento allo scopo per il duo scandinavo non rappresenta un criterio per definire la bellezza di un’opera, né tantomeno per decidere se essa sia da considerarsi arte oppure no. In alcune di queste opere, ad esempio, esplorano il mondo delle gallerie d’arte, ribaltando in particolare le convenzioni del concetto di white cube, ovvero un tipo di spazio espositivo molto diffuso tra le gallerie di arte contemporanea.

 

I due artisti trasformano e rendono impraticabili questo tipo di strutture sospendendole a mezz’aria o facendole in alcuni casi sprofondare nel terreno, oppure come nel caso della Fig. 101. Una scultura di bronzo posta al di sopra di un piedistallo in Trafalgar Square, a Londra. L’opera raffigura un bambino su un cavallo a dondolo dove quel che si vuole trasmettere è quello di dare una rottura con la tradizione dei monumenti equestri e celebrativi, volendo creare una scultura pubblica che, anziché affrontare argomenti di vittoria o sconfitta, onori le battaglie quotidiane della crescita.

 

 

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Elevated Gallery - Powerless structures

 

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Fig. 101, 2012 - Powerless structures

 

Sempre appartenente all’insieme delle “Powerless structures”, nonché una delle loro opere più famose è Prada Marfa (2005). Si tratta di un edificio inaccessibile con le sembianze di un negozio Prada. L’opera è situata in pieno deserto texano, dove potrebbe risultare un po’ strano incontrare l’arte minimalista o un’opera come Prada Marfa, così lontano da New York e dalle altre capitali mondiali dell’arte a sessanta chilometri dalla città di Marfa in Texas, stato dove è viva la tradizione di Donald Judd, del minimalismo e della Land Art di Robert Smithson e Robert Indiana, tra gli altri.

 

All’interno dell’opera/boutique sono conservate borse, scarpe e accessori della nota casa di moda milanese, ben visibili attraverso le ampie vetrine frontali. Inizialmente concepita per essere priva di manutenzione, in modo che col passare del tempo si integrasse col paesaggio desertico circostante, l’idea venne successivamente abbandonata in seguito all’atto vandalico del 2005, a soli tre giorni dall’inaugurazione.

 

Secondo i due artisti Prada Marfa sarebbe un “progetto di arte del paesaggio pop-architettonica. L’installazione permanente incarna perfettamente il concetto di “powerless structure”, in quanto il suo aspetto di negozio non viene rispettato e non si coniugherà mai con la sua assenza di funzione commerciale: l’impotenza del negozio diventa però l’anima stessa dell’opera, elevando quello che sembra un semplice punto vendita al livello di una vera e propria mecca dell’arte contemporanea.

 

 

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Prada Marfa, 2005

 

Gli interventi temporanei dei due artisti, discreti o spettacolari, sono sempre esercizi di illusionismo che trasformano lo spazio urbano in strutture elastiche e flessibili. Le loro opere sono una sintesi tra antico e moderno, monumentale ed effimero, statico e dinamico: gallerie d’arte sospese a palloni aerostatici, trampolini cromati per salti nell’immaginazione, pavimenti instabili e stanze rovesciate, casse che esplodono, scalinate impossibili e porte che nascondono labirinti sconosciuti.

 

Ingegneri del possibile, Michael Elmgreen & Ingar Dragset scavano passaggi segreti per sfuggire all’ossessione contemporanea per l’ordine, la pulizia e il bianco. La loro arte si muove irrefrenabilmente tra sperimentalismo e concettualismo, riuscendo sempre a stupire e a meravigliare lo spettatore.

 

I due artisti riescono a esprimere loro stessi e le loro idee attraverso costanti artistiche e continue innovazioni, inserendosi a pieno titolo tra i più influenti artisti del ventunesimo secolo, facendoci entrare nel loro mondo fatto di gallerie sospese e soglie invalicabili.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

M. Elmgreen, I.Dragset, F. Erdemci, M. Hannula, A. Klingmann, R.Meyer, S. Zizek, Elmgreen & Dragset: A space called Public: Cornerhouse publications, 2014.

 

Le immagini sono tratte da: www.artwave.it; www.massimodecarlo.com.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]