arte
ELMGREEN & DRAGSET
FRA ARTE DECONTESTUALIZZATA E
L’ABBATTIMENTO DEGLI STEREOTIPI
di Francesco Antinolfi
Michael Elmgreen (Copenhagen,
Danimarca, 1961) e Ingar Dragset (Trondheim,
Norvegia, 1969) iniziano la loro
collaborazione artistica a Copenhagen
nel 1995. Per i primi dieci anni di
collaborazione, Elmgreen & Dragset
sono stati una coppia, per poi decidere
di limitare i rapporti a un livello
esclusivamente professionale. Nel 1997
si trasferiscono a Berlino, dove, nove
anni dopo, grazie alla notorietà presto
acquisita, possono permettersi di
acquistare una vecchia stazione
idraulica per trasformarla nel loro
studio.
La loro sempre maggiore affermazione nel
panorama artistico contemporaneo
internazionale
è avvenuta attraverso un percorso
di interrelazioni fra arte, architettura
e design, dando vita a opere
contraddistinte da un umorismo
sovversivo e dall’analisi di tematiche
socioculturali di grande rilievo nella
contemporaneità, secondo un processo che
vede lo stesso spazio espositivo
trasformarsi in ambientazione
scenica. Tale scelta
ha
consentito al duo di ricevere incarichi,
anche curatoriali, da importanti
istituzioni artistiche di tutto il
mondo.
Tutto, nel loro modo di vivere l’arte,
viene sottoposto a un processo di
rielaborazione, un dislocamento che
trova la sua eco nelle definizioni
moderne e instabili dell’identità e dell’arte
stessa.
Una parte del loro processo
creativo è incentrato sulla
rivisitazione di luoghi strettamente
legati alla comunità omosessuale,
trasformati in denuncia sociale, in
contrasto con la sempre più presente
meccanizzazione dei rapporti umani.
Un esempio può essere riconducibile al
2003 quando vincono un concorso indetto
dal governo tedesco per la realizzazione
di un monumento in memoria delle vittime
omosessuali dell’Olocausto.
L’opera, situata nel parco Tiergarten
di Berlino, consiste in un enorme
stele di cemento del peso di 75
tonnellate.
Guardando in un’apertura posta sulla
superficie, lo spettatore può osservare
il video di due giovani uomini che si
baciano. In questo caso Elmgreen &
Dragset utilizzano la video art
per riflettere su un tema molto attuale
e profondo: la repressione e l’omofobia.
In occasione Giornata della Memoria
del 2019 quest’opera ha subito atti
vandalici riconducibili al significato
dell’opera stessa. Un tale atto, però,
non fa altro che sottolineare la
necessità ancora oggi di riflettere su
argomenti quali l’amore, l’odio,
l’intolleranza e la civiltà; l’arte è
solo uno dei tanti mezzi per attuare
queste riflessioni e per sensibilizzare
più persone possibile a temi di
importanza fondamentale come questi.
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Memoriale per gli Omosessuali,
2008. Dettaglio del fotogramma
del video all’interno del Memoriale
perseguitati durante il Nazismo
Tra le altre opere riconducibili al tema
dell’omosessualità ci sono: The
Incidental Self (2006), dove
portando sotto la lente d’ingrandimento
una rielaborazione del concetto di
“quadretto familiare” con ben 500
fotografie distribuite su tre file di
mensole, viene qui rielaborato per
consentire all’intera comunità LGBTQ
di entrare a farne parte in ogni suo
aspetto, trasformandola così in una
grande famiglia allargata, oppure è il
caso di The Mirror (2008) esatta
riproduzione di un night-club gay dove a
essere richiamata è la perdita di luoghi
sociali in cui fare nuove e tangibili
conoscenze.
In un’epoca in cui gran parte delle
relazioni sociali e sessuali prende
forma nell’isolamento di un social
network divertirci senza pensieri,
baciare senza giudizi ed essere noi
stessi. Altro esempio può essere
rappresentato da Han (2012),
opera che si presenta come un
corrispettivo della sirenetta maschile
di Copenaghen, è un netto rimarcare
della contrapposizione tra il sesso
della sirenetta tradizionale e quello
del soggetto dell’opera. Il duo
artistico fa un elogio del corpo
maschile volutamente giovane.
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Han, 2012
Ponendo l’accento sul tema
dell’omosessualità Elmgreen & Dragset
non potevano non trattare tematiche
relative al mondo dell’AIDS,
questo lo vediamo con opere come
Amigos Sauna (2011) dove
prendendo il nome dalla sauna più grande
di Copenhagen, riproducono uno dei
luoghi di incontri sessuali più
stereotipati del mondo gay, dove
esibizionismo e voyeurismo si mescolano
nei vapori delle sue sale sfocate al
momento in cui le saune erano diventate
capro espiatorio e luogo di
proliferazione comunemente accettato di
malattie come l’AIDS negli
anni ’80 e ’90.
Al fine di sensibilizzare riguardo alle
conseguenze sociali e i pregiudizi
persistenti che ancora continuano a
circondare la malattia nel 2015 Elmgreen
& Dragset realizzarono Stigma
(2015), questo fu il titolo scelto dal
duo scandinavo per la loro terza mostra
negli spazi del primo piano della
Galleria Massimo De Carlo per porre
l’attenzione sui vari aspetti che girano
intorno al tema AIDS: la cura, la
tristezza e, non ultimi, i tanti
pregiudizi persistenti che ancora
continuano a circondare la malattia.
L’installazione che compone la mostra
nella sua interezza è detta “Side
Effect”: essa è composta da una
serie di vasi in vetro soffiato a forma
di urna e di varie altezze, riempiti con
sostanze coloranti, queste utilizzate
per rivestire le pillole di ultima
generazione per sconfiggere l’HIV, come
la Truvada, l’Atripla, il Stribild e l’Isentress;
pesca, rosa, verde menta e azzurro sono
i colori rassicuranti dei vari pigmenti
utilizzati per addolcire e
tranquillizzare i consumatori di queste
potenti sostanze.
L’opera è volta a stigmatizzare nel
nuovo millennio l’immagine lontana degli
anni ’80 e ’90 quando l’Aids era
rappresentato come uno “spettro
demoniaco” si cerca di fornire orizzonti
diversi legati ai racconti di questa
malattia, di dare differenti punti di
vista, a tendere l’orizzonte delle cure
croniche, dei tempi allungati, della
possibilità di vivere una vita “normale”
nonostante tutto.
Fortemente influenzati dall’estetica
minimalista di Félix Gonzales-Torres,
Elmgreen & Dragset creano la propria
elegia funebre per coloro che la
malattia ha mietuto. È per questo che i
vasi nella sala adiacente
ricordano urne cinerarie. Tuttavia, il
loro contenuto polveroso non è simbolo
di morte, ma di rinascita. Se la prima
parte dell’opera è stata realizzata per
poter dare un punto di vista differente
per la malattia, la seconda parte
affronta il tema del pregiudizio che
gira ancora intorno alla malattia.
Questi i temi che si evincono, infatti,
in TRACES, una piccola
stanza vuota e quasi in ombra che
completa la mostra dove i due artisti
hanno installato, un lavoro scultoreo
che consiste in una lampada a muro
accesa con appesa una stella filante
srotolata di colore rosa e azzurro.
Still-life struggente che sembra il
ricordare un amico, un famigliare, una
persona cara.
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Stigma, 2015, Galleria Massimo de
Carlo, Milano
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2015 Traces, 2015, Galleria
Massimo de Carlo Milano
Come già accennato nella parte
introduttiva dell’articolo, la
produzione artistica del duo scandinavo
è anche e soprattutto caratterizzata da
una particolare interrelazione dove
arte, architettura e design si fondono
dando vita a opere contraddistinte da un
umorismo sovversivo, secondo un processo
che vede lo stesso spazio espositivo
trasformarsi in ambientazione scenica.
Di quest’altro filone non possiamo fare
a meno di non menzionare Shortcut
(2003), opera realizzata per il loro
primo progetto pubblico in Italia. I due
artisti scelgono di confrontarsi anche
con gli stereotipi locali: la macchina,
una comune Fiat Uno bianca targata
Napoli mentre sul cruscotto si vede una
mappa di Rimini: la casa automobilistica
torinese, che proprio nelle settimane
della mostra attraversava una grave
crisi, e la località balneare sulla
riviera adriatica sono entrambe immagini
classiche della cultura italiana più
pop.
Con l’installazione di un’automobile
bianca che traina una roulotte, che
spuntano al centro dell’Ottagono della
Galleria Vittorio Emanuele dopo un lungo
viaggio immaginario al centro della
terra, Michael Elmgreen & Ingar Dragset
disegnano un’incursione unica nella vita
quotidiana di Milano e nella sua storia,
rileggendo uno dei simboli della città.
Metafora del turismo globale ma anche
simbolo della precarietà del mondo di
oggi, l’installazione Shortcut racconta
un universo in movimento che si sposta
lungo rotte imprevedibili e destinazioni
fantastiche.
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Shortcut, 2003
Tra gli altri esempi di
decontestualizzazione abbiamo The
Collectors - Death of a collector,
opera esposta per la loro partecipazione
alla 53° Biennale di Venezia nel 2009.
Per questa occasione, i due artisti
hanno unito il padiglione danese e
scandinavo curando la mostra “The
Collectors”, che comprendeva
opere di artisti di grande rilievo
internazionale come l’italiano Maurizio
Cattelan e il tedesco Wolfgang
Tillmans.
La mostra si sviluppava come una storia
di cui il visitatore può ricostruire i
dettagli visitando i due padiglioni, uno
arredato come la casa plasmando lo
spazio espositivo a dimora di un
collezionista – il misterioso Mr. B –
dal gusto artistico eccentrico e con una
passione per giovani ragazzi,
l’altro, dove le scelte artistiche e
d’arredo riportano alla mente una
dimensione più familiare dall’aura tesa
e dai tratti disfunzionali dove è stata
allestita.
Tra questi due padiglioni è stata
allestita l’opera, tra quelle di maggior
impatto della mostra, “Death of a
collector”, che rappresenta proprio
la morte del collezionista,
rappresentato galleggiante a faccia in
giù nella sua piscina, in
un’installazione che occupa lo spazio
comunicante tra i due padiglioni.
In questo caso, la denuncia è rivolta a
quel desiderio borghese di accumulare
beni al solo scopo di farne sfoggio,
plasmando la propria identità in base a
quelli. Questa fastosità, tuttavia,
viene resa fatua dai risvolti della vita
dei proprietari. Da un lato, il
Padiglione Nordico, dove Mr. B giace
senza vita in piscina, mentre un gruppo
di nudi rent-boys girovaga
per casa leggendo, ascoltando musica e
bevendo cocktail.
Dall’altro, il Padiglione Danese, dove
la casa è distrutta e messa in
vendita. A poco è servito accaparrarsi
così tanti oggetti di lusso: nel primo
caso non sono serviti a migliorare una
situazione familiare difficile; nel
secondo sono lasciati al giovamento di
alcuni ragazzi, il cui atteggiamento
tranquillo e rilassato fa presagire un
ruolo nella morte del proprietario di
casa.
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Death of a collector, 2009
Ulteriori esempi di
decontestualizzazione dell’arte
applicati da Elmgreen & Dragset sono
rappresentati nel ciclo delle
Powerless structures (“Strutture
impotenti”). Tali sculture e
installazioni sono caratterizzate da un
elemento che le accomuna: la
decontestualizzazione, portandole così a
perdere il loro significato originario.
Il potere di queste opere, dunque, si
perde nella trasformazione della
struttura originale. L’adeguamento allo
scopo per il duo scandinavo non
rappresenta un criterio per definire la
bellezza di un’opera, né tantomeno per
decidere se essa sia da considerarsi
arte oppure no.
In alcune di queste opere, ad esempio,
esplorano il mondo delle gallerie
d’arte, ribaltando in particolare le
convenzioni del concetto di white cube,
ovvero un tipo di spazio espositivo
molto diffuso tra le gallerie di arte
contemporanea.
I due artisti trasformano e rendono
impraticabili questo tipo di strutture
sospendendole a mezz’aria o facendole in
alcuni casi sprofondare nel terreno,
oppure come nel caso della Fig.
101. Una scultura di bronzo
posta al di sopra di un piedistallo in
Trafalgar Square, a Londra. L’opera
raffigura un bambino su un cavallo a
dondolo dove quel che si vuole
trasmettere è quello di dare una rottura
con la tradizione dei monumenti equestri
e celebrativi, volendo creare una
scultura pubblica che, anziché
affrontare argomenti di vittoria o
sconfitta, onori le battaglie quotidiane
della crescita.
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Elevated Gallery - Powerless
structures
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Fig. 101, 2012 - Powerless
structures
Sempre appartenente all’insieme delle “Powerless
structures”, nonché una delle loro
opere più famose è Prada Marfa
(2005). Si tratta di un edificio
inaccessibile con le sembianze di un
negozio Prada. L’opera è situata in
pieno deserto texano, dove potrebbe
risultare un po’ strano incontrare
l’arte minimalista o un’opera come Prada
Marfa, così lontano da New York e dalle
altre capitali mondiali dell’arte a
sessanta chilometri dalla città di Marfa
in Texas, stato dove è viva la
tradizione di Donald Judd, del
minimalismo e della Land Art di Robert
Smithson e Robert Indiana, tra gli
altri.
All’interno dell’opera/boutique sono
conservate borse, scarpe e accessori
della nota casa di moda milanese, ben
visibili attraverso le ampie vetrine
frontali. Inizialmente concepita per
essere priva di manutenzione, in modo
che col passare del tempo si integrasse
col paesaggio desertico circostante,
l’idea venne successivamente abbandonata
in seguito all’atto vandalico del 2005,
a soli tre giorni dall’inaugurazione.
Secondo i due artisti Prada Marfa sarebbe
un “progetto di arte del paesaggio
pop-architettonica. L’installazione
permanente incarna perfettamente il
concetto di “powerless structure”,
in quanto il suo aspetto di negozio non
viene rispettato e non si coniugherà mai
con la sua assenza di funzione
commerciale: l’impotenza del negozio
diventa però l’anima stessa dell’opera,
elevando quello che sembra un semplice
punto vendita al livello di una vera e
propria mecca dell’arte contemporanea.
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Prada Marfa, 2005
Gli interventi temporanei dei due
artisti, discreti o spettacolari, sono
sempre esercizi di illusionismo che
trasformano lo spazio urbano in
strutture elastiche e flessibili. Le
loro opere sono una sintesi tra antico e
moderno, monumentale ed effimero,
statico e dinamico: gallerie d’arte
sospese a palloni aerostatici,
trampolini cromati per salti
nell’immaginazione, pavimenti instabili
e stanze rovesciate, casse che
esplodono, scalinate impossibili e porte
che nascondono labirinti sconosciuti.
Ingegneri del possibile, Michael
Elmgreen & Ingar Dragset scavano
passaggi segreti per sfuggire
all’ossessione contemporanea per
l’ordine, la pulizia e il bianco. La
loro arte si muove irrefrenabilmente
tra sperimentalismo e concettualismo,
riuscendo sempre a stupire e a
meravigliare lo spettatore.
I due artisti riescono a esprimere loro
stessi e le loro idee attraverso
costanti artistiche e continue
innovazioni, inserendosi a pieno titolo
tra i più influenti artisti del
ventunesimo secolo, facendoci entrare
nel loro mondo fatto di gallerie sospese
e soglie invalicabili.
Riferimenti bibliografici:
M. Elmgreen, I.Dragset, F. Erdemci, M.
Hannula, A. Klingmann, R.Meyer, S. Zizek,
Elmgreen & Dragset: A space called
Public: Cornerhouse publications, 2014.
Le immagini
sono tratte da:
www.artwave.it; www.massimodecarlo.com. |