N. 101 - Maggio 2016
(CXXXII)
MEZZOGIORNO STRANIERO
Potere, intrighi e passioni al tempo delle guerre napoleonichE
-
PARTE
I
di Antonino La Mattina
L’avvento
del
periodo
napoleonico
–
che
vide
la
Francia
dominare
in
maniera
diretta
o
indiretta
quasi
l’intera
Europa
–
aveva
reso
nuovamente
il
Mediterraneo
teatro
di
un
conflitto
“mondiale”,
ridando
alla
Sicilia
quel
ruolo
strategico
che
l’aveva
vista
protagonista
nel
corso
dei
primi
secoli
dell’età
moderna.
Nell’isola
si
era
avvertito
poco
o
nulla
della
Rivoluzione
francese,
ma
essa
fu
ugualmente
catapultata
nella
realtà
europea
allorquando
la
città
di
Palermo
si
vide
giungere
la
corte
borbonica,
in
fuga
da
Napoli,
dove
era
stata
appena
proclamata
la
Repubblica
Napoletana
nel
1799.
La
Sicilia
ritornò
così
ad
essere
fortezza
del
Mediterraneo.
Truppe
inglesi
sbarcarono
a
Messina
e le
coste
vennero
presidiate
dalla
flotta
di
Nelson
in
persona.
I
siciliani
accolsero
di
buon
grado
re
Ferdinando,
speranzosi
che
quest’ultimo
stabilisse
definitivamente
la
corte
sull’isola;
ma
le
loro
speranze
furono
deluse
quando,
nel
1802,
il
re
Borbone,
dopo
aver
massacrato
i
patrioti
della
repubblica
napoletana,
lasciava
Palermo
diretto
nuovamente
a
Napoli.
Ciò
fu
l’incipit
di
quello
che
si
sarebbe
succeduto
negli
anni
a
venire,
cioè
uno
scenario
dominato
dalle
due
principali
superpotenze
che
vedeva
il
Mezzogiorno
diviso
in
una
sorta
di
bipolarismo,
con
Napoli
in
mano
ai
francesi
di
Gioacchino
Murat
e la
Sicilia
borbonica
“ostaggio”
delle
forze
inglesi
guidate
prima
dal
generale
Stuard
e in
seguito
da
lord
William
Bentinck.
Francesi
e
Inglesi
non
si
affrontarono
solamente
dal
punto
di
vista
militare,
ma
anche
attraverso
l’esportazione
delle
proprie
ideologie
che
andarono
a
sconvolgere
un
territorio
dove
ancora
vigeva
l’ordinamento
feudale
e
dove,
soprattutto
in
Sicilia,
non
era
il
re a
possedere
de
facto
il
potere,
bensì
i
baroni.
Nel
1808,
dopo
che
fu
per
un
breve
periodo
sotto
la
guida
del
fratello
dell’imperatore
francese,
Giuseppe,
il
regno
di
Napoli
passò
a
Gioacchino
Murat,
il
quale
fece
una
trionfale
entrata
nella
città
con
l’altisonante
titolo
di
Joachim-Napoleon
par
la
grace
de
Dieu
et
la
Costitution
de
l’Etat,
roi
des
Deux
Sicilies,
grand
amiral
de
l’Empire.
Intanto
Ferdinando
era
stato
costretto
–
dopo
che
Napoleone
aveva
messo
a
tacere
la
terza
coalizione
con
la
battaglia
di
Austerlitz
– a
rifugiarsi
per
la
seconda
volta
in
Sicilia
e di
nuovo,
come
nel
1799,
fu
messo
sotto
scorta
dagli
inglesi.
Con
la
minaccia
dell’invasione
francese,
la
corte
si
vide
costretta
a
fare
i
conti
con
la
presenza
inglese,
le
cui
file
vennero
rimpinguate
da
continui
sbarchi
di
rinforzi.
Si
intuiva
già
da
subito
il
clima
che
ciò
avrebbe
determinato
il
corso
del
cosiddetto
“decennio
inglese”
nell’isola.
Gli
inglesi,
da
un
lato
alleati,
dall’altro
invasori,
si
intromisero
sempre
più
spesso
negli
affari
interni
dell’isola,
comportandosi
da
padroni
e
facendo
diventare
la
corte
sempre
più
insofferente
per
le
continue
ingerenze.
La
situazione
sembrò
gravare
soltanto
su
Maria
Carolina,
decisamente
più
determinata
e
intraprendente
dell’inetto
marito
Ferdinando.
Sorella
della
ghigliottinata
Maria
Antonietta,
Carolina
aveva
rinunciato
ad
ogni
iniziativa
di
riforma
per
paura
che
la
rivoluzione
imperversasse
anche
nel
suo
Regno.
Iniziò
a
inimicarsi
numerosi
oppositori
a
furia
di
persecuzioni,
arresti
e,
in
diversi
casi,
anche
esecuzioni.
La
regina
in
pochi
anni
diventò
una
presenza
assai
scomoda,
che
mal
si
adattava
a
rivestire
il
ruolo
di
“protetta”.
D’altro
canto,
Carolina
fu
sempre
più
ossessionata
dall’idea
che
gli
inglesi
volessero
impadronirsi
dell’isola.
I
contrasti
tra
la
regina
e
questi
ultimi
non
cessarono,
benché
molti
in
seno
alla
corte
e lo
stesso
Ferdinando
si
mantenessero
dell’idea
che
fosse
meglio
“ubbidire
ed
essere
grati”,
vincolati,
forse,
dal
fatto
di
essere
sostenuti
da
un
generoso
sussidio
che
gli
inglesi
fornivano
e
che,
nel
contempo,
avevano
aumentato
il
loro
contingente
a
diecimila
uomini
nel
1808.
L’unica
che
sembrava
ancora
tormentarsi
era
proprio
Maria
Caterina,
la
quale
ricercava
conforto
nel
figlio
ed
erede
al
trono
Francesco.
Questi,
tuttavia,
non
poté
fare
altro
che
sottolineare
l’impossibilità
di
opporsi
alla
protezione
inglese
e,
quindi,
attendere
il
mutamento
delle
circostanze
“rimanendo
leali
e
onesti”.
Ma
come
si
può
rimanere
leali
ad
un
alleato
trasformatosi
in
carceriere?
Come
se
non
bastasse,
dal
fronte
di
guerra
non
giungevano
nemmeno
buone
notizie:
Napoleone
aveva
vinto
a
Wagram
(1809),
mettendo
in
ginocchio
ancora
una
volta
l’intera
Europa.
A
ciò
si
aggiungeva
il
fatto
che
Napoleone
convolava
a
nozze,
nella
primavera
del
1810,
con
Maria
Luisa
d’Austria,
figlia
dell’Imperatore
e
nipote
di
Maria
Carolina.
Il
matrimonio
portò
gli
Inglesi
a
essere
più
sospettosi
di
quanto
già
non
fossero;
la
regina,
dal
canto
suo,
si
vedeva
l’oggetto
di
tutti
i
complotti,
controllata
da
spie,
circondata
da
individui
pronti
ad
accusarla
di
tradimento.
Dall’altra
parte
dello
stretto,
il
re
di
Napoli
Gioacchino
Murat
si
accingeva
a
difendere
la
capitale
dall’attacco
delle
truppe
anglo-sicule.
Nel
giugno
1809
le
truppe
guidate
dal
Principe
Leopoldo
di
Borbone
partivano
da
Milazzo
e
sbarcavano
nei
pressi
di
Reggio
Calabria
e in
poco
tempo
cinsero
d’assedio
la
cittadina
di
Scilla.
Dell’esercito
anglo-siculo
facevano
parte
numerose
bande
di
briganti
che
si
unirono
a
quelle
dell’entroterra
calabrese
con
l’intento
di
sollevare
le
varie
provincie
nel
nome
dei
sovrani
Ferdinando
e
Maria
Carolina.
Murat,
temprato
dalle
battaglie
al
fianco
dell’augusto
cognato
Napoleone
mise
i
suoi
reggimenti
in
difesa
della
capitale,
mentre
riuniva
la
flotta
franco-napoletana,
che
a
fine
giugno
si
scontrò
con
quella
nemica
in
una
cruenta
battaglia
dalla
quale
però
fu
costretta
a
ritirarsi
e
rifugiarsi
nel
porto
di
Baja.
Il
re
assistette
in
prima
persona
alla
battaglia
e,
una
volta
terminata,
si
precipitò
a
far
visita
ai
feriti
distribuendo
lodi
e
ricompense
ai
combattenti
per
il
loro
coraggio
e
l’ardore
che
avevano
mostrato.
In
un
successivo
scontro
a
metà
luglio,
gli
Inglesi
–
demoralizzati
dagli
avvenimenti
nel
cuore
dell’Europa
e
nonostante
avessero
subito
perdite
insignificanti
– si
ritirarono,
non
senza
però
prima
bombardare
la
capitale.
Ritirato
l’esercito
inglese,
rimasero
però
i
briganti
che
imperversavano
in
Basilicata,
nella
bassa
Campania
e
nella
Calabria.
La
repressione
del
brigantaggio
da
quel
momento
fu
uno
dei
capisaldi
della
politica
di
Murat.
Egli,
per
estinguere
questo
male,
non
solo
mandò
contro
l’esercito
ma
emanò
anche
delle
leggi
eccezionali
che
prevedevano
la
confisca
di
beni
e la
compilazione
di
liste
contenenti
tutti
i
nomi
dei
briganti
noti,
da
esporre
in
ogni
comune
del
regno.
In
seguito,
sarebbero
state
nominate
delle
commissioni
che
avrebbero
giudicato
i
briganti
e
coloro
che
li
favoriva
e
proteggeva;
le
famiglie
degli
accusati
sarebbero
state
anch’esse
incarcerate
e
sottratto
loro
ogni
bene.
Con
la
repressione
del
brigantaggio
iniziò
la
stagione
di
riforme
murattiane:
in
primis
fu
introdotto
il
codice
napoleonico
e
vennero
quindi
abolite
le
strutture
di
impronta
feudale;
Murat
si
fece
poi
apprezzare
per
la
sua
attività
di
imporre
sgravi
fiscali,
visitare
carceri
e
ospedali,
amnistiare
i
disertori,
limitare
i
rigori
della
polizia.
Si
concentrò
su
numerosi
lavori
pubblici
sia
a
Napoli
che
fuori,
tra
cui
gli
scavi
di
Ercolano
e la
progettazione
del
borgo
nuovo
a
Bari
secondo
i
più
moderni
canoni
urbanistici.
Nel
campo
dell’istruzione
fondò
il
Corpo
degli
ingegneri
di
Ponti
e
Strade
(nucleo
della
Facoltà
di
Ingegneria
a
Napoli,
la
prima
in
Italia)
e la
cattedra
di
agraria
nella
medesima
Università,
ma
condannò
alla
chiusura
la
Scuola
medica
salernitana,
primo
esempio
al
mondo
di
Università.
Il
16
maggio
1810
Murat
iniziò
“l’impresa
di
Sicilia”
lasciando
Napoli
alla
volta
della
Calabria,
dove
si
stavano
radunando
le
truppe
franco-napoletane
forti
di
più
di
ventimila
uomini,
alla
guida
dei
generali
Cavaignac
e
Grenier.
Quest’ultimo
fu
molto
contrario
alla
spedizione
per
gli
alti
costi
e le
forze
in
campo
che,
seppur
maggiori
di
numero,
dovevano
fare
i
conti
con
la
marina
britannica.
Noncurante
degli
ammonimenti,
Murat
fu
deciso
a
compiere
quell’ardua
impresa
e a
conquistarsi
la
gloria
in
una
regione
così
vasta
e
ricca
di
cui,
solo
nominalmente,
egli
aveva
la
corona.
Sebbene
Murat
bramasse
di
compiere
l’iniziativa
nel
più
breve
tempo
possibile,
trascorsero
dei
mesi
prima
che
essa
potesse
concretizzarsi,
a
causa
del
perpetrarsi
di
scontri
navali
con
la
marina
britannica,
decisa
a
non
far
passare
niente
e
nessuno
dall’altra
sponda
dello
stretto.
Solo
a
fine
settembre
la
divisione
composta
dai
soldati
napoletani,
guidati
dal
Cavaignac,
riuscirono
a
sbarcare
con
poche
migliaia
di
uomini
a
Scaletta;
ma i
francesi
rimasero
sul
continente
per
ferma
opposizione
del
Grenier.
Intanto,
il
contingente
sull’isola
di
Cavaignac
–
vedendosi
abbandonato
e
minacciato
dall’esercito
inglese
e
borbonico
del
generale
Stuard
–
lasciò
l’isola
e
con
essa
solo
un
migliaio
di
uomini,
che
vennero
infine
assaliti
e
sconfitti.
Tornato
a
Napoli,
Murat
si
impegnò
nuovamente
contro
il
brigantaggio,
riuscendo
in
poche
settimane
a
liberare
la
Calabria
prima
e le
altre
regioni
poi.
Nella
città
cercò
di
consolidare
il
potere
concedendo
titoli
ad
ufficiali
e
magistrati,
ma
sin
da
allora
egli
iniziò
una
politica
sempre
più
tesa
ad
essere
indipendente
dal
cognato
Imperatore,
che
troppe
volte
l’aveva
umiliato
e
che
-
con
la
nascita
nel
marzo
dell’1810
del
nuovo
re
di
Roma
–
non
avrebbe
più
pensato
a
lui
per
la
successione
di
Francia.
Il
tentativo
d’invasione
francese
in
Sicilia
portò
gli
inglesi
a
prendere
importanti
decisioni.
In
Europa
si
combatteva
per
stabilire
un
nuovo
ordine
mondiale:
Francia
e
Inghilterra
erano
il
simbolo
di
due
opposte
visioni
ideologiche
e
politiche
oltre
che
economiche.
In
questo
scenario,
il
generale
inglese
Stuard
aveva
due
soluzioni:
o
prendere
la
Sicilia
in
nome
dell’Inghilterra
o
abbandonarla
alle
mire
francesi.