[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

186 / GIUGNO 2023 (CCXVII)


contemporanea

Il metodo Giacarta
SUI (MOLTI) MASSACRI a FIRMA “USA”, RECENSIONE

di Marco Fossati

 

Il XX secolo, segnato nella prima parte dai due conflitti mondiali, è stato caratterizzato nella seconda metà anche da un altro scontro di proporzioni globali; la cosiddetta Guerra Fredda. Conosciuta e narrata, come una contesa più politica che militare tra due ideologie, socialismo e capitalismo-liberale (da cui l’aggettivo “fredda”), ebbe nella realtà numerose fasi di violenta conflittualità; sebbene ciò sia avvenuto, in gran parte, lontano da quello che è comunemente considerato il “campo di battaglia” principale ovvero l’Europa.

 

Secondo alcune interpretazioni proprio lo studio degli eventi accaduti fuori dal Vecchio Continente è essenziale per capire l’evoluzione della guerra e soprattutto delle sue conseguenze. Per non parlare degli effetti peggiori del conflitto, in termini di perdite di vite umane (e di violenza sulle persone) e per quel che riguarda i danni al tessuto sociale e all’immaginario collettivo; anch’essi in massima parte da ricercare nei paesi extraeuropei. A questa linea interpretativa appartiene sicuramente il libro, Il Metodo Giacarta, pubblicato in prima edizione a New York nel 2020 e uscito in Italia alla fine del 2021 per la casa editrice Einaudi.

 

Se in Europa si fronteggiavano i due blocchi ideologici guidati dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica, il testo offre invece uno spaccato di quanto avveniva fuori dal terreno di scontro principale, indagando sui retroscena della Guerra Fredda o meglio, su quelli che si potrebbero definire i suoi effetti collaterali. Il sottotitolo, particolarmente esplicativo (“La crociata anticomunista di Washington e il programma di omicidi di massa che hanno plasmato il nostro mondo”), sintetizza gli elementi base della ricerca.

 

L’autore, il giornalista statunitense Vincent Bevins, corrispondente del Washington Post e già collaboratore di Los Angeles Times e Financial Times, non si occupa dei fatti e dei simboli che maggiormente hanno segnato, per una parte del mondo, l’immaginario collettivo sulla Guerra Fredda (dalla costruzione del Muro di Berlino alla cosiddetta Cortina di ferro, passando per la crisi dei missili di Cuba o quella degli euromissili). Punta invece il suo obiettivo sull’Asia, l’America centrale e meridionale, l’Africa; raccontando eventi spesso messi in secondo piano nelle ricostruzioni e nei principali studi sul secondo Novecento, perché considerati marginali e attualmente quasi dimenticati.

 

Su tutti l’avvento delle dittature militari in Brasile nel 1964 e in Indonesia nel 1965, che Bevins considera determinanti per la formulazione delle sue tesi; a tal punto che nell’introduzione scrive: «Ciò che successe in Brasile nel 1964 e in Indonesia nel 1965 forse fu la vittoria più importante della Guerra fredda per la fazione che alla fine vinse, vale a dire gli Stati Uniti e l’attuale sistema economico globale» e, di conseguenza, «ha influenzato in modo determinante la vita di tutti». (pp. 3-4). «Sono arrivato alla conclusione che l’assetto di tutto il mondo – soprattutto dei paesi di Asia, Africa e America Latina [...] – sia stato determinato dalle conseguenze degli eventi che accaddero in Brasile e in Indonesia» (p. 8).

 

Un libro di storia costruito però come un reportage televisivo. Alle fonti documentarie provenienti dagli archivi del Governo statunitense, con materiale da poco desecretato sulle operazioni della CIA, si affiancano le ricostruzioni ricavate da interviste e colloqui fatti dall’autore a persone che hanno vissuto determinati fatti. Un’indagine in giro per il mondo che Bevins fa partire da casa propria descrivendo lo scenario politico all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, alla luce di quanto avveniva all’interno degli USA. Ovvero il nascere di un certo tipo di atteggiamento verso il resto del mondo e di conseguenza un certo tipo di politica estera.

 

Non a caso il primo capitolo, intitolato “Una nuova era Americana”, descrive la presa di coscienza da parte degli Stati Uniti di essere diventata, dopo il 1945, una potenza mondiale; la quale si trovava di fronte ovviamente l’Unione Sovietica, ma che doveva e voleva soprattutto affrontare il suo nemico naturale (secondo Bevins), il socialismo, inteso sia come teoria filosofica sia come sistema politico: «L’ideologia centrale e fondativa dell’America è l’esatto opposto del comunismo. Il fulcro non è la collettività ma l’individuo e un’idea di libertà strettamente legata al diritto al possesso dei beni» (p. 17).

 

Di conseguenza viene descritto come la classe dirigente statunitense fosse preda di un’autentica ossessione per il socialismo e le forme di governo da esso derivate (in primis il marxismo-leninismo o comunismo), il cui sintomo più evidente fu senza dubbio il cosiddetto maccartismo degli anni Cinquanta. Un anticomunismo particolarmente fanatico basato sulla convinzione che tale teoria politica «fosse semplicemente un sistema pessimo, o moralmente riprovevole, anche quando funzionava […] e che ovunque ci fossero comunisti, anche se pochi, probabilmente questi progettassero in segreto di rovesciare il governo» (pp. 18-19).

 

In realtà già dagli anni Quaranta, in particolare con la direzione dell’FBI da parte di J. Edgar Hoover, si era notevolmente diffusa nell’opinione pubblica statunitense la paura del comunismo e quindi intensificata la lotta contro di esso. Una lotta che ovviamente assunse un significato diverso all’indomani della Seconda Guerra Mondiale quando, proprio la contrapposizione con l’Unione Sovietica, portò tali atteggiamenti e i conseguenti atti politici, a uscire progressivamente dai confini nazionali, assumendo una dimensione globale. «Ed era considerato vangelo che ovunque stessero agendo i comunisti fossero agli ordini dell’Unione Sovietica e partecipassero a una gigantesca cospirazione globale per distruggere l’occidente. La maggior parte di tutto ciò era semplicemente falso e molto di ciò che era vero era parecchio esagerato» (p.19). Pertanto la politica estera statunitense non era volta alla semplice opposizione verso l’Unione Sovietica ma si prefiggeva di bloccare la diffusione (se non addirittura la completa eliminazione) dell’ideologia comunista nel resto del mondo.

 

In effetti lo scenario geopolitico che si venne a formare tra gli anni Quaranta e Cinquanta del XX secolo, fu caratterizzato da un blocco di Paesi che si riconoscevano nel capitalismo liberale, ovvero gli USA, il Canada, il Giappone e l’Europa occidentale (il cosiddetto Primo Mondo) opposti all’Unione Sovietica e a tutti quei paesi dell’Europa orientale che avevano abbracciato l’ideologia comunista (il Secondo Mondo): «E poi c’era il Terzo Mondo, vale a dire tutti gli altri, la maggioranza della popolazione mondiale. [...] Nel 1950, nel Terzo Mondo vivevano più di due terzi della popolazione mondiale e, con poche eccezioni, queste persone avevano vissuto sotto il controllo del colonialismo europeo» (p. 15).

 

Bevins mette in evidenza come proprio i paesi del Terzo Mondo divennero in un certo senso centrali nello scontro politico-ideologico di quegli anni. Il punto di svolta avvenne con la Conferenza Asia-Africa che si tenne a Bandung in Indonesia nel 1953: «L’importante congresso raccolse i popoli del mondo colonizzato in un movimento contrapposto all’imperialismo europeo e indipendente dal potere degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica» (p. 61). Si formò in pratica un nuovo soggetto politico che sulla scena internazionale cercava di trovare una strada alternativa alla logica dello scontro fra le due grandi potenze; tant’è che la Conferenza di Bandung fece da base al movimento dei paesi non allineati costituitosi a Belgrado nel 1961.

 

Ma c’erano aspetti che (seguendo la linea interpretativa di Bevins) inquietavano l’Occidente e soprattutto gli USA. Infatti la Conferenza di Bandung portava alla luce un’idea di nazione da parte dei paesi più poveri del mondo che era ben diversa da quella occidentale. Un’idea “costruita sulla lotta anticolonialista e sulla spinta alla giustizia sociale”, con annesse rivendicazioni di natura economica. È ovvio che tali elementi, agli occhi dei politici statunitensi, non solo facevano diventare il Terzo Mondo estremamente permeabile alle teorie socialiste, ma aumentavano i timori che l’Urss diventasse «un’alternativa che i poveri potevano scegliere per conquistare la modernità senza replicare l’esperienza Americana» (p. 17).

 

Nella classe dirigente statunitense iniziò a diffondersi un giudizio netto circa il Terzo Mondo e i Paesi non allineati: «Per loro ormai la neutralità equivaleva a un comportamento ostile. Chi non era attivamente contrario all’Unione Sovietica doveva per forza essere un nemico degli Stati Uniti» (p. 67). Il risultato fu appunto lo sviluppo di una politica estera sempre più orientata a condizionare i paesi del Terzo Mondo affinché non entrassero nell’orbita sovietica, un condizionamento che non si limitava a pressioni diplomatiche, sicuramente legittime ma sfociava sempre più spesso in interventi che miravano a destabilizzare intere nazioni per legittimare, in un secondo tempo, la presa di potere da parte di autorità militari che potessero garantire quindi una sicura vicinanza alle politiche statunitensi; soprattutto nella lotta al comunismo. In pratica venivano appoggiati se non addirittura provocati colpi di stato con conseguenti violente repressioni.

 

Il metodo Giacarta, «è anche la storia di alcune persone che vissero quegli eventi e che per questo videro le loro vite profondamente cambiate [...] “la storia la scrivono i vincitori”, ma necessariamente ciò che racconto si oppone a questa tendenza» (p. 9). Così scrive Bevins che in pratica si propone di fare la storia della Guerra Fredda utilizzando il particolare punto di vista di coloro che l’hanno persa.

 

Ecco l’aspetto originale del libro: l’individuazione degli sconfitti. Quelli che il giornalista statunitense chiama “i maggiori perdenti del XX secolo”, non si trovano però tra i principali protagonisti della Guerra ovvero coloro che nelle narrazioni più diffuse vengono considerati i grandi sconfitti: l’Unione Sovietica e i paesi satelliti dell’Europa orientale. Sono bensì le popolazioni, le persone, che all’epoca abitavano nei paesi del Terzo Mondo.

 

Il libro racconta le storie di alcune di loro, la loro vita e soprattutto le aspettative o le speranze che avevano in quegli anni. La narrazione si sviluppa in una specie di intreccio, che a tratti richiama l’uso cinematografico del flashback, tra microstoria, quella delle persone comuni che si interseca con la grande storia, i grandi eventi entrati nella memoria collettiva. Proprio attraverso questi racconti si crea una prospettiva nuova per leggere certi avvenimenti.

 

Infatti Bevins analizzando anche le fonti orali, le testimonianze, ritiene di poter comporre un quadro d’insieme della Guerra Fredda. Un quadro composto da una serie di eventi che solo in apparenza appaiono slegati nello spazio e nel tempo, ma che sono in realtà legati fra loro. Per capire meglio il modus operandi dell’autore è bene soffermarsi sulle prime pagine del penultimo capitolo, “We are the Champions”.

 

Qui, al fine di introdurre le conclusioni del lavoro, ne vengono in un certo senso riassunti gli elementi fondanti; a iniziare dalle domande da cui ha preso avvio: «Che mondo abbiamo ereditato dalla fine della Guerra fredda? Chi ha vinto quella guerra? Chi ha perso?». Proprio le prime e parziali evidenze, suscitate da tali quesiti, spingono l’autore ad adottare un metodo di lavoro particolare: «Quello che ho imparato [...] ha scosso – per usare un eufemismo – la mia fede nel sistema di risposte con cui sono stato cresciuto. Ma invece che cercare nuove risposte da solo ho preferito ascoltare le persone che avevano vissuto e sentito il conflitto più da vicino» (p. 259).

 

E proprio attraverso il dialogo con un testimone (l’indonesiano Winarso, di cui sono riportate le parole), Bevins fornisce una delle chiavi di lettura del testo: «“La Guerra fredda è stata uno scontro tra socialismo e capitalismo e ha vinto il capitalismo” – ha continuato – “Per di più abbiamo avuto tutti il capitalismo americanocentrico voluto da Washington. Basta guardarsi intorno”». «Come abbiamo fatto a vincere, ho chiesto – “Ci avete ammazzati”. Questa risposta è molto comune» (p. 259). Ecco che viene introdotto il filo rosso (la violenza politica) che lega insieme molti degli avvenimenti accaduti nel Terzo mondo a partire dagli anni Cinquanta.

 

Tra il 1965 e il 1966 in Indonesia, un colpo di stato guidato dai militari del generale Suharto destituisce il legittimo presidente Sukarno. Inizia una sistematica e violenta campagna anticomunista che porta all’uccisione di oltre cinquecentomila persone tra gli aderenti al Pki (il partito comunista indonesiano), ai sindacati e alle organizzazioni culturali della sinistra moderata; almeno un altro milione di persone viene arrestato, incarcerato o subisce violenze: «Gli Stati Uniti contribuirono all’operazione in ogni sua fase, a partire da molto prima dell’inizio dei massacri, fino a che cadde l’ultima vittima e l’ultimo prigioniero politico uscì di galera, decenni dopo” (p. 175).

 

Ma Bevins vuole mettere in evidenza un fatto che ritiene fondamentale per le sue tesi: ciò che avvenne in Indonesia «provocò uno ‘tsunami’ che arrivò in quasi ogni angolo del globo. [...] Inoltre, le dimensioni della vittoria anticomunista e la spietata efficacia del metodo impiegato ispirarono programmi di sterminio che presero nome dalla capitale indonesiana» (p. 178). Infatti l’annientamento di uno dei più grandi partiti comunisti del mondo e l’instaurazione di una dittatura militare che seguiva le direttive di Washington, diventò una specie di modello che, secondo Bevins, fu replicato con la regia statunitense in tutti quei paesi in cui la lotta al socialismo era considerata essenziale.

 

Ad esempio, tra i numerosi riportati nel libro, di un Plan Yakarta (Piano Giacarta) per l’eliminazione di migliaia di attivisti di sinistra, si parlava più o meno segretamente tra le forze politiche di destra e negli ambienti militari cileni nel 1973, poco prima del colpo di stato che a settembre destituì il presidente socialista Allende. Mentre alcuni anni dopo verrà alla luce che la giunta militare brasiliana aveva messo a punto un programma, Operaçào Jacarta, per eliminare le opposizioni di sinistra: «Ho trovato prove che legano indirettamente la metafora Giacarta, tratta dal più grande e importante di questi programmi, ad almeno undici paesi» (p. 265); e altrettanti ne furono sensibilmente influenzati.

 

Bevins si concentra quindi sul filo rosso della violenza politica ma il fine ultimo della sua ricerca è quello di evidenziarne gli effetti. Egli ha ben presente due elementi: «Non sto dicendo che gli Stati Uniti vinsero la Guerra Fredda grazie agli omicidi di massa. La Guerra Fredda finì soprattutto a causa delle contraddizioni interne del comunismo sovietico» (p. 265). Inoltre, la violenza fu commessa anche dai regimi comunisti, ma tali violenze ebbero effetti limitati ai Paesi dove furono compiute; non ebbero effetti (e se li ebbero furono trascurabili) sul resto del mondo. «Viviamo invece in un mondo costruito in parte sulla violenza della Guerra Fredda sostenuta dagli Stati Uniti. I programmi di omicidi di massa di cui parla questo libro hanno contribuito all’affermarsi dell’americanizzazione. In un certo senso l’hanno resa possibile» (p. 267).

 

In una prospettiva sociologica si potrebbe leggere il libro alla luce del ragionamento sull’occidentalizzazione del mondo esposto dal filosofo francese Serge Latouche nell’omonimo saggio. Da un punto di vista degli studi storici invece, si può affermare che il Metodo Giacarta proponga di attribuire, ad alcuni aspetti del XX secolo, un peso sensibilmente maggiore, se non addirittura centrale, per la comprensione del mondo contemporaneo (approccio che si richiama esplicitamente agli studi dello storico norvegese Odd Arne Westad).

 

In definitiva questo il desiderio dell’autore: «Spero che questa storia riesca ad arrivare alle persone che vogliono sapere il modo in cui la violenza e la guerra contro il comunismo abbia avuto un ruolo così importante nel determinare le nostre vite di oggi, sia che abitiamo a Rio de Janeiro, a Bali, a New York o a Lagos» (p. 5).  

RUBRICHE


attualità

ambiente

arte

filosofia & religione

storia & sport

turismo storico

 

PERIODI


contemporanea

moderna

medievale

antica

 

ARCHIVIO

 

COLLABORA


scrivi per instoria

 

 

 

 

PUBBLICA CON GBE


Archeologia e Storia

Architettura

Edizioni d’Arte

Libri fotografici

Poesia

Ristampe Anastatiche

Saggi inediti

.

catalogo

pubblica con noi

 

 

 

CERCA NEL SITO


cerca e premi tasto "invio"

 


by FreeFind

 

 

 

 

 


 

 

 

[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]