Il metodo Giacarta
SUI (MOLTI) MASSACRI a FIRMA “USA”,
RECENSIONE
di Marco Fossati
Il XX secolo, segnato nella prima
parte dai due conflitti mondiali, è
stato caratterizzato nella seconda
metà anche da un altro scontro di
proporzioni globali; la cosiddetta
Guerra Fredda. Conosciuta e narrata,
come una contesa più politica che
militare tra due ideologie,
socialismo e capitalismo-liberale (da
cui l’aggettivo “fredda”), ebbe
nella realtà numerose fasi di
violenta conflittualità; sebbene ciò
sia avvenuto, in gran parte, lontano
da quello che è comunemente
considerato il “campo di battaglia”
principale ovvero l’Europa.
Secondo alcune interpretazioni
proprio lo studio degli eventi
accaduti fuori dal Vecchio
Continente è essenziale per capire
l’evoluzione della guerra e
soprattutto delle sue conseguenze.
Per non parlare degli effetti
peggiori del conflitto, in termini
di perdite di vite umane (e di
violenza sulle persone) e per quel
che riguarda i danni al tessuto
sociale e all’immaginario collettivo;
anch’essi in massima parte da
ricercare nei paesi extraeuropei. A
questa linea interpretativa
appartiene sicuramente il libro,
Il Metodo Giacarta, pubblicato
in prima edizione a New York nel
2020 e uscito in Italia alla fine
del 2021 per la casa editrice
Einaudi.
Se in Europa si fronteggiavano i due
blocchi ideologici guidati dagli
Stati Uniti e dall’Unione Sovietica,
il testo offre invece uno spaccato
di quanto avveniva fuori dal terreno
di scontro principale, indagando sui
retroscena della Guerra Fredda o
meglio, su quelli che si potrebbero
definire i suoi effetti collaterali.
Il sottotitolo, particolarmente
esplicativo (“La crociata
anticomunista di Washington e il
programma di omicidi di massa che
hanno plasmato il nostro mondo”),
sintetizza gli elementi base della
ricerca.
L’autore, il giornalista
statunitense Vincent Bevins,
corrispondente del Washington
Post e già collaboratore di
Los Angeles Times e Financial
Times, non si occupa dei fatti e
dei simboli che maggiormente hanno
segnato, per una parte del mondo,
l’immaginario collettivo sulla
Guerra Fredda (dalla costruzione del
Muro di Berlino alla cosiddetta
Cortina di ferro, passando per la
crisi dei missili di Cuba o quella
degli euromissili). Punta invece il
suo obiettivo sull’Asia, l’America
centrale e meridionale, l’Africa;
raccontando eventi spesso messi in
secondo piano nelle ricostruzioni e
nei principali studi sul secondo
Novecento, perché considerati
marginali e attualmente quasi
dimenticati.
Su tutti l’avvento delle dittature
militari in Brasile nel 1964 e in
Indonesia nel 1965, che Bevins
considera determinanti per la
formulazione delle sue tesi; a tal
punto che nell’introduzione scrive:
«Ciò che successe in Brasile nel
1964 e in Indonesia nel 1965 forse
fu la vittoria più importante della
Guerra fredda per la fazione che
alla fine vinse, vale a dire gli
Stati Uniti e l’attuale sistema
economico globale» e, di
conseguenza, «ha influenzato in
modo determinante la vita di tutti».
(pp. 3-4). «Sono arrivato alla
conclusione che l’assetto di tutto
il mondo – soprattutto dei paesi di
Asia, Africa e America Latina
[...] – sia stato determinato
dalle conseguenze degli eventi che
accaddero in Brasile e in Indonesia»
(p. 8).
Un libro di storia costruito però
come un reportage televisivo. Alle
fonti documentarie provenienti dagli
archivi del Governo statunitense,
con materiale da poco desecretato
sulle operazioni della CIA, si
affiancano le ricostruzioni ricavate
da interviste e colloqui fatti
dall’autore a persone che hanno
vissuto determinati fatti.
Un’indagine in giro per il mondo che
Bevins fa partire da casa propria
descrivendo lo scenario politico
all’indomani della Seconda Guerra
Mondiale, alla luce di quanto
avveniva all’interno degli USA.
Ovvero il nascere di un certo tipo
di atteggiamento verso il resto del
mondo e di conseguenza un certo tipo
di politica estera.
Non a caso il primo capitolo,
intitolato “Una nuova era
Americana”, descrive la presa di
coscienza da parte degli Stati Uniti
di essere diventata, dopo il 1945,
una potenza mondiale; la quale si
trovava di fronte ovviamente
l’Unione Sovietica, ma che doveva e
voleva soprattutto affrontare il suo
nemico naturale (secondo Bevins), il
socialismo, inteso sia come teoria
filosofica sia come sistema
politico: «L’ideologia centrale e
fondativa dell’America è l’esatto
opposto del comunismo. Il fulcro non
è la collettività ma l’individuo e
un’idea di libertà strettamente
legata al diritto al possesso dei
beni» (p. 17).
Di conseguenza viene descritto come
la classe dirigente statunitense
fosse preda di un’autentica
ossessione per il socialismo e le
forme di governo da esso derivate (in
primis il marxismo-leninismo o
comunismo), il cui sintomo più
evidente fu senza dubbio il
cosiddetto maccartismo degli
anni Cinquanta. Un anticomunismo
particolarmente fanatico basato
sulla convinzione che tale teoria
politica «fosse semplicemente un
sistema pessimo, o moralmente
riprovevole, anche quando funzionava
[…] e che ovunque ci fossero
comunisti, anche se pochi,
probabilmente questi progettassero
in segreto di rovesciare il governo»
(pp. 18-19).
In realtà già dagli anni Quaranta,
in particolare con la direzione
dell’FBI da parte di J. Edgar
Hoover, si era notevolmente diffusa
nell’opinione pubblica statunitense
la paura del comunismo e quindi
intensificata la lotta contro di
esso. Una lotta che ovviamente
assunse un significato diverso
all’indomani della Seconda Guerra
Mondiale quando, proprio la
contrapposizione con l’Unione
Sovietica, portò tali atteggiamenti
e i conseguenti atti politici, a
uscire progressivamente dai confini
nazionali, assumendo una dimensione
globale. «Ed era considerato
vangelo che ovunque stessero agendo
i comunisti fossero agli ordini
dell’Unione Sovietica e
partecipassero a una gigantesca
cospirazione globale per distruggere
l’occidente. La maggior parte di
tutto ciò era semplicemente falso e
molto di ciò che era vero era
parecchio esagerato» (p.19).
Pertanto la politica estera
statunitense non era volta alla
semplice opposizione verso l’Unione
Sovietica ma si prefiggeva di
bloccare la diffusione (se non
addirittura la completa eliminazione)
dell’ideologia comunista nel resto
del mondo.
In effetti lo scenario geopolitico
che si venne a formare tra gli anni
Quaranta e Cinquanta del XX secolo,
fu caratterizzato da un blocco di
Paesi che si riconoscevano nel
capitalismo liberale, ovvero gli
USA, il Canada, il Giappone e
l’Europa occidentale (il cosiddetto
Primo Mondo) opposti all’Unione
Sovietica e a tutti quei paesi
dell’Europa orientale che avevano
abbracciato l’ideologia comunista (il
Secondo Mondo): «E poi c’era il
Terzo Mondo, vale a dire tutti gli
altri, la maggioranza della
popolazione mondiale. [...]
Nel 1950, nel Terzo Mondo vivevano
più di due terzi della popolazione
mondiale e, con poche eccezioni,
queste persone avevano vissuto sotto
il controllo del colonialismo
europeo» (p. 15).
Bevins mette in evidenza come
proprio i paesi del Terzo Mondo
divennero in un certo senso centrali
nello scontro politico-ideologico di
quegli anni. Il punto di svolta
avvenne con la Conferenza
Asia-Africa che si tenne a Bandung
in Indonesia nel 1953: «L’importante
congresso raccolse i popoli del
mondo colonizzato in un movimento
contrapposto all’imperialismo
europeo e indipendente dal potere
degli Stati Uniti e dell’Unione
Sovietica» (p. 61). Si formò in
pratica un nuovo soggetto politico
che sulla scena internazionale
cercava di trovare una strada
alternativa alla logica dello
scontro fra le due grandi potenze;
tant’è che la Conferenza di Bandung
fece da base al movimento dei paesi
non allineati costituitosi a
Belgrado nel 1961.
Ma c’erano aspetti che (seguendo la
linea interpretativa di Bevins)
inquietavano l’Occidente e
soprattutto gli USA. Infatti la
Conferenza di Bandung portava alla
luce un’idea di nazione da parte dei
paesi più poveri del mondo che era
ben diversa da quella occidentale.
Un’idea “costruita sulla lotta
anticolonialista e sulla spinta alla
giustizia sociale”, con annesse
rivendicazioni di natura economica.
È ovvio che tali elementi, agli
occhi dei politici statunitensi, non
solo facevano diventare il Terzo
Mondo estremamente permeabile alle
teorie socialiste, ma aumentavano i
timori che l’Urss diventasse «un’alternativa
che i poveri potevano scegliere per
conquistare la modernità senza
replicare l’esperienza Americana»
(p. 17).
Nella classe dirigente statunitense
iniziò a diffondersi un giudizio
netto circa il Terzo Mondo e i Paesi
non allineati: «Per loro ormai la
neutralità equivaleva a un
comportamento ostile. Chi non era
attivamente contrario all’Unione
Sovietica doveva per forza essere un
nemico degli Stati Uniti» (p.
67). Il risultato fu appunto lo
sviluppo di una politica estera
sempre più orientata a condizionare
i paesi del Terzo Mondo affinché non
entrassero nell’orbita sovietica, un
condizionamento che non si limitava
a pressioni diplomatiche,
sicuramente legittime ma sfociava
sempre più spesso in interventi che
miravano a destabilizzare intere
nazioni per legittimare, in un
secondo tempo, la presa di potere da
parte di autorità militari che
potessero garantire quindi una
sicura vicinanza alle politiche
statunitensi; soprattutto nella
lotta al comunismo. In pratica
venivano appoggiati se non
addirittura provocati colpi di stato
con conseguenti violente repressioni.
Il metodo Giacarta,
«è anche la storia di alcune
persone che vissero quegli eventi e
che per questo videro le loro vite
profondamente cambiate [...]
“la storia la scrivono i vincitori”,
ma necessariamente ciò che racconto
si oppone a questa tendenza» (p.
9). Così scrive Bevins che in
pratica si propone di fare la storia
della Guerra Fredda utilizzando il
particolare punto di vista di coloro
che l’hanno persa.
Ecco l’aspetto originale del libro:
l’individuazione degli sconfitti.
Quelli che il giornalista
statunitense chiama “i maggiori
perdenti del XX secolo”, non si
trovano però tra i principali
protagonisti della Guerra ovvero
coloro che nelle narrazioni più
diffuse vengono considerati i grandi
sconfitti: l’Unione Sovietica e i
paesi satelliti dell’Europa
orientale. Sono bensì le popolazioni,
le persone, che all’epoca abitavano
nei paesi del Terzo Mondo.
Il libro racconta le storie
di alcune di loro, la loro vita e
soprattutto le aspettative o le
speranze che avevano in quegli anni.
La narrazione si sviluppa in una
specie di intreccio, che a tratti
richiama l’uso cinematografico del
flashback, tra microstoria, quella
delle persone comuni che si
interseca con la grande storia, i
grandi eventi entrati nella memoria
collettiva. Proprio attraverso
questi racconti si crea una
prospettiva nuova per leggere certi
avvenimenti.
Infatti Bevins analizzando anche le
fonti orali, le testimonianze,
ritiene di poter comporre un quadro
d’insieme della Guerra Fredda. Un
quadro composto da una serie di
eventi che solo in apparenza
appaiono slegati nello spazio e nel
tempo, ma che sono in realtà legati
fra loro. Per capire meglio il
modus operandi dell’autore è
bene soffermarsi sulle prime pagine
del penultimo capitolo, “We are
the Champions”.
Qui, al fine di introdurre le
conclusioni del lavoro, ne vengono
in un certo senso riassunti gli
elementi fondanti; a iniziare dalle
domande da cui ha preso avvio: «Che
mondo abbiamo ereditato dalla fine
della Guerra fredda? Chi ha vinto
quella guerra? Chi ha perso?».
Proprio le prime e parziali evidenze,
suscitate da tali quesiti, spingono
l’autore ad adottare un metodo di
lavoro particolare: «Quello che
ho imparato [...] ha scosso –
per usare un eufemismo – la mia fede
nel sistema di risposte con cui sono
stato cresciuto. Ma invece che
cercare nuove risposte da solo ho
preferito ascoltare le persone che
avevano vissuto e sentito il
conflitto più da vicino» (p.
259).
E proprio attraverso il dialogo con
un testimone (l’indonesiano Winarso,
di cui sono riportate le parole),
Bevins fornisce una delle chiavi di
lettura del testo: «“La Guerra
fredda è stata uno scontro tra
socialismo e capitalismo e ha vinto
il capitalismo” – ha continuato –
“Per di più abbiamo avuto tutti il
capitalismo americanocentrico voluto
da Washington. Basta guardarsi
intorno”». «Come abbiamo
fatto a vincere, ho chiesto – “Ci
avete ammazzati”. Questa risposta è
molto comune» (p. 259). Ecco che
viene introdotto il filo rosso (la
violenza politica) che lega insieme
molti degli avvenimenti accaduti nel
Terzo mondo a partire dagli anni
Cinquanta.
Tra il 1965 e il 1966 in Indonesia,
un colpo di stato guidato dai
militari del generale Suharto
destituisce il legittimo presidente
Sukarno. Inizia una sistematica e
violenta campagna anticomunista che
porta all’uccisione di oltre
cinquecentomila persone tra gli
aderenti al Pki (il partito
comunista indonesiano), ai sindacati
e alle organizzazioni culturali
della sinistra moderata; almeno un
altro milione di persone viene
arrestato, incarcerato o subisce
violenze: «Gli Stati Uniti
contribuirono all’operazione in ogni
sua fase, a partire da molto prima
dell’inizio dei massacri, fino a che
cadde l’ultima vittima e l’ultimo
prigioniero politico uscì di galera,
decenni dopo” (p. 175).
Ma Bevins vuole mettere in evidenza
un fatto che ritiene fondamentale
per le sue tesi: ciò che avvenne in
Indonesia «provocò uno ‘tsunami’
che arrivò in quasi ogni angolo del
globo. [...] Inoltre, le dimensioni
della vittoria anticomunista e la
spietata efficacia del metodo
impiegato ispirarono programmi di
sterminio che presero nome dalla
capitale indonesiana» (p. 178).
Infatti l’annientamento di uno dei
più grandi partiti comunisti del
mondo e l’instaurazione di una
dittatura militare che seguiva le
direttive di Washington, diventò una
specie di modello che, secondo
Bevins, fu replicato con la regia
statunitense in tutti quei paesi in
cui la lotta al socialismo era
considerata essenziale.
Ad esempio, tra i numerosi riportati
nel libro, di un Plan Yakarta
(Piano Giacarta) per l’eliminazione
di migliaia di attivisti di sinistra,
si parlava più o meno segretamente
tra le forze politiche di destra e
negli ambienti militari cileni nel
1973, poco prima del colpo di stato
che a settembre destituì il
presidente socialista Allende.
Mentre alcuni anni dopo verrà alla
luce che la giunta militare
brasiliana aveva messo a punto un
programma, Operaçào Jacarta,
per eliminare le opposizioni di
sinistra: «Ho trovato prove che
legano indirettamente la metafora
Giacarta, tratta dal più grande e
importante di questi programmi, ad
almeno undici paesi» (p. 265); e
altrettanti ne furono sensibilmente
influenzati.
Bevins si concentra quindi sul filo
rosso della violenza politica ma il
fine ultimo della sua ricerca è
quello di evidenziarne gli effetti.
Egli ha ben presente due elementi: «Non
sto dicendo che gli Stati Uniti
vinsero la Guerra Fredda grazie agli
omicidi di massa. La Guerra Fredda
finì soprattutto a causa delle
contraddizioni interne del comunismo
sovietico» (p. 265). Inoltre, la
violenza fu commessa anche dai
regimi comunisti, ma tali violenze
ebbero effetti limitati ai Paesi
dove furono compiute; non ebbero
effetti (e se li ebbero furono
trascurabili) sul resto del mondo. «Viviamo
invece in un mondo costruito in
parte sulla violenza della Guerra
Fredda sostenuta dagli Stati Uniti.
I programmi di omicidi di massa di
cui parla questo libro hanno
contribuito all’affermarsi
dell’americanizzazione. In un certo
senso l’hanno resa possibile»
(p. 267).
In una prospettiva sociologica si
potrebbe leggere il libro alla luce
del ragionamento
sull’occidentalizzazione del mondo
esposto dal filosofo francese Serge
Latouche nell’omonimo saggio. Da un
punto di vista degli studi storici
invece, si può affermare che il
Metodo Giacarta proponga di
attribuire, ad alcuni aspetti del XX
secolo, un peso sensibilmente
maggiore, se non addirittura
centrale, per la comprensione del
mondo contemporaneo (approccio che
si richiama esplicitamente agli
studi dello storico norvegese Odd
Arne Westad).
In definitiva questo il desiderio
dell’autore: «Spero che questa
storia riesca ad arrivare alle
persone che vogliono sapere il modo
in cui la violenza e la guerra
contro il comunismo abbia avuto un
ruolo così importante nel
determinare le nostre vite di oggi,
sia che abitiamo a Rio de Janeiro, a
Bali, a New York o a Lagos» (p.
5).