N. 76 - Aprile 2014
(CVII)
menone
il
dialogo
platonico
sulla
virtù
di
Giulia
Elena
Vigoni
Platone
nasce
ad
Atene
nel
428
a.C.
da
una
famiglia
aristocratica
e
molto
in
vista
nella
polis.
Allievo
di
Socrate
e
maestro
di
Aristotele
rappresenterà
con
essi
una
pietra
miliare
della
filosofia
occidentale
tanto
che
anche
il
pittore
rinascimentale
Raffaello
li
dipingerà
donando
loro
una
posizione
di
rilievo
nell’opera
“La
scuola
di
Atene”.
A
Platone
si
deve
l’introduzione
della
Metafisica
per
quanto
concerne
la
dimensione
ontologica
e
gnoseologica
della
filosofia,
tematiche
affrontate
dalla
maggior
parte
dei
principali
pensatori
in
tutte
le
epoche
fino
al
XX
secolo.
La
filosofia
platonica
è
conosciuta
oggi
grazie
alle
fonti
storiche
che
riportano
le
vicende
personali
del
discepolo
prediletto
di
Socrate
oltre
al
suo
pensiero
ampiamente
condizionato
da
quello
del
maestro
che
invece
non
lasciò
nulla
di
scritto
e di
cui
abbiamo
notizie
solo
grazie
ad
Aristofane,
lo
stesso
Platone
e
l’allievo
Aristotele
che
tuttavia
riporta
informazioni
indirette
e
per
questo
poco
attendibili.
Il
filosofo
di
Atene
è
però
il
primo
di
cui
possediamo
quasi
tutte
le
opere
complete
il
cui
corpus
è
costituito
principalmente
da
34
Dialoghi,
un
monologo
“Apologia
di
Socrate”
e un
epistolario.
La
produzione
letteraria
e
filosofica
di
Platone
ha
inizio
nel
395
a.C.,
dodici
anni
prima
della
fondazione
dell’Accademia
di
Atene,
scuola
presso
la
quale
studiò
anche
il
giovane
Aristotele.
Essi
sono
distinti
in
dialoghi
aporetici
(o
giovanili)
e
dialoghi
della
maturità
(o
assertori-dottrinali).
I
primi
sono
a
carattere
confutatorio
e
fanno
emergere
la
pars
destruens
del
dialogo
socratico
senza
presentare
una
conclusione
o
soluzione
finale
al
problema
affrontato.
Protagonista
è
Socrate
affiancato
da
un
interlocutore,
generalmente
un
giovane
sofista,
il
quale
sostiene
ostinatamente
la
veridicità
assoluta
di
una
tesi
che
il
mentore
di
Platone
sa
già
essere
falsa;
cerca
dapprima
premesse
condivise
dalla
sua
controparte
e in
un
secondo
momento
dimostra
che
queste
contraddicono
la
tesi
da
lui
sostenuta
che
pertanto
è
errata.
I
secondi
sono
invece
più
complessi
e
approdano
a
conclusioni
intricate
ma
ancora
una
volta
non
definitive
perché
l’obiettivo
socratico
-
platonico
è
quello
di
giungere
alla
conoscenza
della
Verità
e
quindi
del
Sommo
Bene;
perché
questo
sia
possibile
bisognerebbe
conoscere
l’essenza
delle
cose,
ciò
che
fa
essere
qualcosa
ciò
che
è e
che
resta
sempre
immutabile,
che
trascende
il
divenire
della
realtà.
Per
far
fronte
a
questo
problema
che
già
Parmenide
di
Elea
nel
V
secolo
a.C.
aveva
analizzato
con
la
sua
“scienza
dell’Essere”
(o
Ontologia),
Platone
postula
l’esistenza
delle
Idee
ovvero,
in
termini
kantiani,
i
noumeni
dei
fenomeni.
Esse
appartengono
alla
realtà
Metafisica,
vera
innovazione
platonica,
che
è
una
dimensione
altra
rispetto
alla
nostra
soggetta
alla
contingenza
e di
cui
è
quindi
impossibile
avere
una
conoscenza
delle
cose
che
una
volta
sono
e
una
volta
non
sono
più
o
sono
diverse.
Ma
alla
realtà
metafisica
l’uomo,
limitato,
anela
senza
potervi
accedere;
chi
vuole
conoscere
la
Verità
e il
Sommo
Bene
deve
compiere
un
percorso
interiore,
una
conoscenza
di
sé
stessi
che
non
ha
mai
fine
ma
che
permette
di
giungere
sempre
più
vicino
al
Vero
tanto
più
ci
si
conosce.
Il
titolo
di
ogni
dialogo
è
caratterizzato
dal
nome
dell’interlocutore
di
Socrate
e
dal
tema
trattato.
Tra
i
principali
dialoghi
giovanili
spicca
“Menone
o
della
virtù”.
“Socrate,
sai
dirmi:
la
virtù
s’insegna?
Oppure
non
si
insegna,
ma
la
si
acquisisce
con
la
pratica?
Oppure
né
la
si
pratica
né
la
si
impara,
ma
si
viene
formando
negli
uomini
per
natura
o in
qualche
altro
modo?”
Con
questa
domanda
esordisce
Menone
nell’omonimo
dialogo
introducendo
un
tema
centrale
non
solo
nella
filosofia
platonica
ma
per
tutti
gli
intellettuali
delle
epoche
successive.
Emblematico
è il
fatto
che
Menone,
da
buon
sofista
e
allievo
di
Gorgia,
sia
interessato
a
sapere
come
si
acquisisca
la
virtù
e
non
a
cosa
essa
sia;
egli
infatti
presuppone
di
esserne
già
a
conoscenza
ma
quando
Socrate
gli
chiede
di
darne
una
definizione,
il
giovane
si
trova
in
difficoltà.
Definire
qualcosa
significa
indicare
l’essenza
stessa
dell’oggetto
designato.
Ma i
problemi
sorgono
nel
momento
in
cui
si
tenta
di
definire
non
tanto
un
essere
concreto
e
finito
ma
un
valore
morale
come
possono
essere
la
Giustizia,
il
Bene,
la
Virtù,
la
Bellezza.
Nel
dialogo
“Parmenide”
Platone
spiega,
per
bocca
di
Socrate,
che
per
poter
definire
“x”sarebbe
necessario
dire
le
infinite
cose
che
“x”
non
è e
le
molte
che
“x”
è;
per
l’uomo
questa
è
una
missione
impossibile.
Nel
“Sofista”
Socrate
illustra
il
metodo
dicotomico
per
poter
definire
l’idea
(ovvero
l’essenza)
di
qualcosa.
Esso
prevede
una
prima
suddivisione
della
realtà
nella
sua
totalità
in
due
parti
complementari
e
riconoscibili
di
cui
si
sceglierà
quella
più
attinente
all’oggetto
di
cui
ci
si
sta
occupando;
questa
verrà
a
sua
volta
divisa
in
due
e
ripetendo
la
bipartizione
per
ogni
aspetto
di
nostro
interesse
fino
a
giungere
all’oggetto
di
indagine,
l’intero
di
partenza
sarà
scisso
in
tutte
le
sue
varie
forme.
Risalendo
a
ritroso
le
varie
ramificazioni
ottenute,
è
possibile
ottenere
una
definizione
dell’oggetto
in
esame
unificando
i
vari
aspetti
di
nostro
interesse.
Tuttavia
questo
metodo
è
troppo
complesso
per
poter
essere
adottato
con
l’intento
di
definire
qualcosa
e
per
questo
va
scartato.
Anche
Socrate
ammette
di
non
sapere
affatto
cosa
sia
la
virtù
e
non
sapendo
cosa
sia
non
può
sapere
nulla
al
riguardo,
né
come
essa
sia
né
come
si
acquisti.
Scandalizzato,
Menone
lo
esorta
a
dargli
una
risposta
ma
Socrate
candidamente
risponde
che
non
ne
ha;
a
questo
punto
è il
filosofo
di
Atene
che
sprona
il
suo
interlocutore
a
dargli
una
definizione
di
virtù
e
giocando
con
l’ironia
tipica
della
pars
destruens
(confutatoria),
fa
leva
sulla
stima
che
il
giovane
ha
nei
confronti
del
maestro
Gorgia
e
sui
suoi
insegnamenti;
di
certo
il
retore
di
Lentini
si
espresse
esaurientemente
in
merito.
“La
virtù
dell’uomo
è
essere
capaci
di
occuparsi
adeguatamente
degli
affari
della
città,
e
così
facendo
fare
del
bene
agli
amici,
del
male
ai
nemici,
lui
stesso
avendo
cura
di
non
subire
nulla
del
genere.
Se
vuoi
la
virtù
della
donna,
non
è
difficile
esporla:
la
donna
deve
amministrare
bene
la
casa,
conservando
i
beni
e
obbedendo
al
marito.
Diversa
è
poi
la
virtù
del
ragazzo,
a
seconda
che
sia
maschio
o
femmina,
e
dell’uomo
più
anziano,
vuoi
libero,
vuoi
schiavo.
E vi
sono
molte
altre
virtù
(…)
per
ciascuna
azione
e
per
ciascuno
di
noi
vi è
una
virtù
propria;
e lo
stesso
dicasi,
Socrate,
anche
per
il
vizio.”
Il
problema
è
proprio
questo:
Socrate
non
ha
chiesto
di
definire
una
virtù
ma
la
virtù,
l’idea
che
la
fa
essere
tale.
Celebre
è
l’esempio
dello
sciame
di
api
per
spiegare
all’interlocutore
il
suo
errore.
“(…)
cercavo
una
sola
virtù
e ho
scoperto
che
presso
di
te
se
ne
trovano
uno
sciame.
(…)
supponi
che
io
ti
chiedessi,
a
proposito
della
realtà
dell’ape,
che
cosa
mai
sia
e tu
mi
rispondessi
che
le
api
sono
molte
e di
vario
tipo;
che
cosa
replicheresti
se
io
ti
chiedessi:
“
intendi
che
le
api
sono
molte,
di
vario
tipo
e
diverse
tra
loro
quanto
al
fatto
di
essere
api?
Oppure
in
questo
non
differiscono
per
nulla
, ma
si
distinguono
per
altro,
per
esempio
per
bellezza,
dimensione
o
qualcosa
del
genere?”
Menone
risponde
che
quanto
al
fatto
di
essere
api
esse
non
differiscono
in
nulla
l’una
dall’altra
e
allora
Socrate
gli
chiede
di
trovare
proprio
quel
qualcosa
che
le
accomuna
in
quanto
quella
è
l’essenza
della
realtà
dell’ape.
Questo
è
ciò
che
deve
emergere
da
una
definizione,
ciò
che
di
una
cosa
resta
immutato
e
sottratto
alla
contingenza
della
realtà;
lo
stesso
discorso
vale
per
la
virtù:
bisogna
trovare
quell’unico
elemento
che
è
identico
per
tutte.
Il
problema
principale
che
impedisce
a
Menone
di
trovare
una
definizione
è
rappresentato
dal
rapporto
uno
-
molti
che
Platone
affronterà
nei
dialoghi
della
maturità
e in
particolare
nel
“Parmenide”;
fino
ad
ora
il
giovane
si è
limitato
a
dare
solo
una
descrizione
della
virtù.
“La
virtù
o
una
virtù?”-
chiede
Socrate
a
uno
stupito
Menone
che
vede
tutta
la
sua
presuntuosa
e
presunta
sapienza
messa
in
crisi
-“
(…)
suvvia
dì
della
virtù
cosa
sia
in
generale
e
smetti
di
fare
di
uno
i
molti,
come
si
dice
scherzando
ogni
volta
che
qualcuno
rompe
qualcosa;
lasciala
intera
e
intatta,
e dì
che
cosa
è la
virtù”.
La
risposta
del
giovane
non
tarda
a
giungere:
““ A
me
sembra
che
la
virtù
sia,
come
dice
il
poeta,
“godere
delle
cose
belle
e
averne
il
potere”.
Anche
io
affermo
che
la
virtù
è
questo:
desiderando
le
cose
belle
essere
capace
di
procurarsele.””
Ma
Socrate
fa
notare
che
tutti
gli
uomini
desiderano
cose
belle
(e
buone
in
quanto
vale
il
principio
della
kalokagathia
greca)
perché
ognuno
di
noi
auspica
ad
essere
felice.
Nessuno,
nemmeno
chi
desidera
il
male,
anela
all’infelicità.
Chi
desidera
essere
danneggiato
pensa
che
sia
un
bene,
e
dunque
desidera
le
cose
buone;
persino
i
masochisti
quando
ricercano
le
cose
cattive,
lo
fanno
ritenendo
che
procureranno
loro
la
felicità,
e
considerandole
di
fatto,
e
dunque
desiderandole,
come
cose
buone.
Inoltre
la
seconda
parte
della
definizione
di
Menone
indica
che
virtù
è
anche
capacità
di
sapersi
procurare
cose
belle
e
buone;
in
questo
modo
chiunque
sarebbe
virtuoso.
Ma
“giustamente
e
sensatamente?”
chiede
Socrate
al
ragazzo
che
asserisce,
poiché
senza
queste
qualità
nessuna
azione
sarebbe
virtuosa.
Ma
ancora
una
volta
Menone
ha
frammentato
la
virtù
perché
per
definirla
ha
dovuto
introdurre
anche
“giustizia
e
temperanza”
venendo
meno
alla
richiesta
di
Socrate
che
lo
aveva
pregato
di
non
fare
più
di
uno
i
molti.
Menone
spazientito,
rendendosi
conto
di
avere
una
gran
confusione
in
testa
e
più
nessuna
certezza
su
tutto
ciò
che
credeva
di
sapere
a
proposito
della
virtù
accusa
Socrate
di
agire
come
una
torpedine.
Il
dubbio
che
egli
instilla
nell’interlocutore
con
il
metodo
confutatorio
intorpidisce
paralizzando
come
il
morso
di
questa
creatura
marina.
Tuttavia,
il
mentore
di
Platone,
si
difende
affermando
di
non
poter
esser
definito
una
torpedine
perché
egli
getta
gli
altri
nel
dubbio
essendolo
lui
stesso.
“E
in
che
modo
cercherai,
Socrate,
ciò
che
non
sai
affatto
che
cos’è?
Su
quale
delle
cose
che
non
sai
cadrà
la
tua
scelta
per
intraprendere
la
ricerca?”
“Infatti
non
è
possibile
per
un
uomo
cercare
né
quello
che
sa
né
quello
che
non
sa
–
risponde
Socrate
–
Non
cercherebbe
infatti
ciò
che
sa
perché
lo
sa e
non
c’è
bisogno
di
una
simile
ricerca
- e
neppure
ciò
che
non
sa -
perché
non
saprebbe
neppure
cosa
dovrà
cercare.”
Allora
come
si
può
conoscere?
Platone
propone
la
teoria
della
Reminescenza.
Essa
è in
realtà
solo
accennata
nel
“Menone”
mentre
verrà
approfondita
nei
dialoghi
ella
maturità.
Nell’opera
in
esame,
Socrate
cerca
di
dimostrare
la
validità
di
questa
teoria
tramite
un
esempio
geometrico
sottoposto
a
uno
schiavo
di
Menone
che
ammette
essere
ignorante
in
materia.
Il
ragazzo
riesce
a
risolvere
il
quesito
aiutato
da
Socrate
il
quale
però
non
gli
fornisce
la
soluzione
ma
tramite
la
maieutica
lo
induce
ad
un
ragionamento
pertinente
a
determinare
la
risoluzione
del
problema.
Questo
significa
o
che
lo
schiavo
ha
mentito
e
aveva
una
buona
conoscenza
della
geometria
oppure
che
la
sua
anima
era
già
conscia
della
soluzione
del
problema
in
una
vita
precedente.
“Se
dunque
tanto
nel
tempo
in
cui
era
uomo
quanto
nel
tempo
in
cui
non
lo
era
vi
saranno
in
lui
opinioni
vere,
le
quali,
risvegliate
dall’interrogazione
divengono
conoscenze,
non
è
forse
vero
che
la
sua
anima
si
troverà
ad
averle
apprese
da
sempre
e
per
sempre?(…)
Se
la
verità
delle
cose
è
sempre
nella
nostra
anima,
l’anima
sarebbe
immortale;
ma
allora
non
bisogna
fiduciosamente,
quello
che
ora
trovi
a
non
sapere
-
cioè
quello
che
ti
trovi
a
non
ricordare
-
impegnarsi
per
cercarlo
e
ricordarlo?”.
La
gnoseologia
platonica
è
fondata
sulla
credenza
che
l’anima
umana
sia
immortale
e
che
essa
abbia
da
sempre
conoscenza
della
verità
ovvero
delle
idee
metafisiche.
Il
problema
è
rappresentato
dall’incarnazione
delle
anime
nel
corpo
che
in
quel
momento,
precipitando
dalla
realtà
iperuranica
in
cui
coesistevano
con
le
idee
oggetto
della
loro
contemplazione,
hanno
obliato
quasi
tutto.
Di
quella
conoscenza
resta
un
ricordo
sfumato
che
solo
la
filosofia
e la
dialettica
tramite
la
pratica
costante
di
dialogo
e
domande
possono
ripristinare
anche
se
non
completamente.
Nel
“Fedone”
Platone
enuncia
la
dottrina
della
Reminescenza
e
del
rapporto
anima-corpo
sottolineando
che
conoscere
è
ricordare
e la
reminescenza
è la
condizione
di
possibilità
per
la
conoscenza.
L’apprendimento
è
interpretato
come
il
recupero
di
conoscenze
acquisite
dall’anima
prima
di
incarnarsi
in
un
corpo
ma
dimenticate
al
momento
della
nascita
e
rimaste
latenti
in
essa.
Socrate:
“Presumendo
che
si
debba
cercare
ciò
che
non
si
sa,
saremmo
migliori,
più
virili,
meno
pigri
che
se
pensassimo
che
non
è
possibile
trovare
ciò
che
non
si
conosce
né
lo
si
deve
cercare.
(…)
Allora
dacchè
abbiamo
convenuto
che
bisogna
cercare
a
proposito
di
ciò
che
non
si
sa,
vuoi
che
ci
impegniamo
per
cercare
insieme
che
cosa
è
mai
la
virtù?”
Menone:
“Certo.
Anche
se,
Socrate,
personalmente
indagherei
e
ascolterei
con
il
massimo
piacere
quanto
ti
chiedevo
fin
dall’inizio,
se
bisogna
impegnarsi
ritenendo
che
essa
sia
insegnabile
o
che
si
venga
formando
negli
uomini
per
natura
o in
qualche
altro
modo.”
Menone
non
ha
compreso
i
discorsi
di
Socrate;
egli
partiva
con
la
presunzione
di
sapere
senza
sapere
nulla
e
ancora
si
ostina
a
cercare
di
conoscere
il
come
di
una
cosa
senza
sapere
cosa
essa
sia
violando
così
il
principio
di
priorità
epistemica
che
antepone
ad
ogni
conoscenza
secondaria
quella
circa
l’essenza
di
“x”.
“Sembra
dunque
che
si
dovrà
indagare
come
sia
ciò
che
non
sappiamo
ancora
cosa
sia”
Accondiscendente
Socrate
cerca
di
rispondere
al
quesito
rivoltogli
per
l’ennesima
volta
dal
suo
interlocutore
cercando
di
indagare
se e
come
la
virtù
possa
essere
insegnata.
Il
ragionamento
procede
per
ipotesi.
Supponendo
che
la
virtù
sia
una
forma
di
conoscenza
e
che
la
conoscenza
sia
insegnabile
allora
la
virtù
è
insegnabile
altrimenti
no.
Considerando
valido
il
primo
caso
bisogna
ora
indagare
se
la
virtù
è
conoscenza;
se
ogni
forma
di
conoscenza
è
bene
ed è
utile
e
anche
la
virtù
risponde
a
tali
caratteristiche,
allora
la
virtù
è
conoscenza.
Inoltre,
è
evidente
che
l’anima
umana
è
contraddistinta
dalla
saggezza
e
che
essa
conduce
alla
felicità
e
quindi
al
Bene
a
cui
tutti
auspicano.
Perciò
la
saggezza
è
conoscenza
ed è
buona
e
utile;
ma
anche
la
virtù
è
conoscenza
e
pertanto
è
buona.
Poiché
ciò
che
uno
conosce
può
anche
essere
insegnato,
allora
la
virtù
in
quanto
forma
di
conoscenza
è
insegnabile.
Questo
ragionamento
scarta
l’ipotesi
per
cui
la
virtù
apparterrebbe
all’uomo
per
natura
perché
se
così
fosse
tutti
lo
sarebbero
e
invece
è
palese
che
tale
asserzione
non
rispecchia
la
realtà.
Il
ragionamento
sembrerebbe
non
lasciare
dubbi
e
soddisfare
la
domanda
di
Menone.
Tuttavia,
perché
uomini
virtuosi
come
Pericle
o
Temistocle
ebbero
figli
che
non
furono
all’altezza
dei
padri?
Ciò
significa
che
la
virtù
non
è
insegnabile;
non
esistono
né
allievi
né
maestri
di
virtù.
Nel
meta-dialogo
con
Anito,
responsabile
della
condanna
di
Socrate,
quest’ultimo
sottolinea
che
i
politici
e
gli
eroi
ateniesi
hanno
compiuto
azioni
virtuose
non
per
insegnamento
né
perché
qualità
naturalmente
attribuita
loro;
essi
agivano
per
opinione
corretta.
Socrate
aveva
argomentato
a
favore
della
coincidenza
tra
virtù
e
conoscenza
a
partire
dall’utile:
se
la
virtù
è
utile,
e
tutto
ciò
che
ha a
che
fare
con
l’utile
dipende
dall’intelligenza
e
dalla
conoscenza,
ne
consegue
che
virtù
e
conoscenza
in
qualche
modo
coincidono.
Socrate
osserva
però
che
ciò
che
è
utile
non
dipende
soltanto
dalla
conoscenza,
bensì
anche
dal’opinione
corretta.
Perciò
si
può
concludere
che
la
virtù
è
opinione
corretta
ovvero
senso
comune
e
per
questo
motivo
non
può
essere
insegnata.
Socrate:
“(…)
Ci è
sfuggito
in
un
modo
davvero
ridicolo,
che
non
è
soltanto
sotto
la
guida
della
conoscenza
che
gli
uomini
agiscono
correttamente
e
bene;
e
per
questa
ragione
forse
non
riusciamo
a
capire
come
si
formino
gli
uomini
virtuosi.”
Menone:
“Cosa
intendi
dire,
Socrate?”
Socrate:
“
Questo.
Che
gli
uomini
virtuosi
debbano
essere
utili
e
non
può
essere
altrimenti.
(…)
E
che
saranno
utili
se
ci
guidano
nelle
nostre
faccende.
Ma
non
è
possibile
guidare
correttamente
se
non
si è
saggi.”
Menone:
“
Cosa
intendi
dire?”
Socrate:
Se
uno
che
sa
la
strada
per
Larissa
o
per
qualunque
altro
posto
ci
andasse
e
facesse
d
guida
agli
altri,
non
li
guiderebbe
correttamente
e
bene?
Menone:
“Certamente.”
Socrate:
“E
fino
a
che
abbia
una
opinione
corretta
sulle
cose
di
cui
l’altro
ha
conoscenza,
in
quanto
presume
cose
vere
non
sarà
una
guida
peggiore,
anche
se
non
le
sa,
di
chi
ha
una
conoscenza
precisa.
Dunque
l’opinione
vera,
quanto
a
correttezza
dell’azione,
non
è
affatto
una
guida
peggiore
della
saggezza;
ed è
questo
che
poco
fa
abbiamo
trascurato
quando
indagavamo
quale
sia
la
virtù,
e
affermavamo
che
solo
la
saggezza
guida
l’agire
corretto.
Perché
c’era
anche
l’opinione
vera.(…)
Anche
le
opinioni
vere
per
tutto
il
tempo
in
cui
rimangono,
costituiscono
un
bel
possesso
e
producono
ogni
bene:
ma
non
sono
solite
star
ferme
a
lungo,
e se
ne
scappano
dall’anima
umana,
così
che
non
hanno
grande
valore,
a
meno
che
uno
non
le
leghi
con
il
ragionamento
della
causa.
E
questa
è la
reminescenza.
Quando
siano
legate,
diventano
conoscenze
e
poi
conoscenze
stabili(…)
ed è
per
il
legame
che
la
conoscenza
differisce
dall’opinione
corretta.”
La
conoscenza
è
quindi
un’opinione
corretta
a
cui
si
aggiunge
il
ragionamento,
il
quale
restituisce
la
causa
che
a
sua
volta
si
ricollega
alla
reminescenza
la
quale
permette
di
risalire
alle
vere
cause,
le
idee,
a
fondamento
ella
conoscenza
(fondazionalismo).
Nel
momento
in
cui
un’opinione
inserita
in
un
tessuto
di
relazioni
causali
si
stabilizza
si
giunge
ad
una
conoscenza
e si
parla
di
coerentismo.
Il
dialogo
in
realtà
non
presenta
una
vera
e
propria
conclusione
perché
Socrate
spiega
a
Menone
che
la
virtù
in
quanto
opinione
corretta
è
data,
a
chi
la
possiede,
per
sorte
divina.
Tuttavia
non
potremo
dire
come
la
si
acquisisca
effettivamente
fino
a
quando
non
si
riuscirà
a
dire
cosa
è la
virtù
in
quanto
tale.
Se
conoscere
è
ricordare,
si
può
aiutare
a
farlo
ma
non
lo
si
può
insegnare.
Conoscere
significa
allora
riattivare
il
sapere
che
è in
noi
il
quale
permette
di
comprendere
la
nostra
vera
natura
e il
legame
che
ci
lega
al
tutto.
Tanto
più
cerchiamo,
tanto
più
“ricordiamo”
e
tanto
più
saremo
virtuosi.
E
cos’è
questo
se
non
fare
filosofia?
Quindi
la
virtù,
che
è
filosofia,
si
acquista
grazie
alla
reminescenza
che
è
naturale
in
quanto
innata
in
noi
e
frutto
di
apprendimento
poiché
risultato
di
uno
sforzo
intellettuale.