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N. 76 - Aprile 2014 (CVII)

menone

il dialogo platonico sulla virtù
di Giulia Elena Vigoni

 

Platone nasce ad Atene nel 428 a.C. da una famiglia aristocratica e molto in vista nella polis. Allievo di Socrate e maestro di Aristotele rappresenterà con essi una pietra miliare della filosofia occidentale tanto che anche il pittore rinascimentale Raffaello li dipingerà donando loro una posizione di rilievo nell’opera “La scuola di Atene”.

 

A Platone si deve l’introduzione della Metafisica per quanto concerne la dimensione ontologica e gnoseologica della filosofia, tematiche affrontate dalla maggior parte dei principali pensatori in tutte le epoche fino al XX secolo.

 

La filosofia platonica è conosciuta oggi grazie alle fonti storiche che riportano le vicende personali del discepolo prediletto di Socrate oltre al suo pensiero ampiamente condizionato da quello del maestro che invece non lasciò nulla di scritto e di cui abbiamo notizie solo grazie ad Aristofane, lo stesso Platone e l’allievo Aristotele che tuttavia riporta informazioni indirette e per questo poco attendibili. Il filosofo di Atene è però il primo di cui possediamo quasi tutte le opere complete il cui corpus è costituito principalmente da 34 Dialoghi, un monologo “Apologia di Socrate” e un epistolario.

 

La produzione letteraria e filosofica di Platone ha inizio nel 395 a.C., dodici anni prima della fondazione dell’Accademia di Atene, scuola presso la quale studiò anche il giovane Aristotele. Essi sono distinti in dialoghi aporetici (o giovanili) e dialoghi della maturità (o assertori-dottrinali).

 

I primi sono a carattere confutatorio e fanno emergere la pars destruens del dialogo socratico senza presentare una conclusione o soluzione finale al problema affrontato. Protagonista è Socrate affiancato da un interlocutore, generalmente un giovane sofista, il quale sostiene ostinatamente la veridicità assoluta di una tesi che il mentore di Platone sa già essere falsa; cerca dapprima premesse condivise dalla sua controparte e in un secondo momento dimostra che queste contraddicono la tesi da lui sostenuta che pertanto è errata.

 

I secondi sono invece più complessi e approdano a conclusioni intricate ma ancora una volta non definitive perché l’obiettivo socratico - platonico è quello di giungere alla conoscenza della Verità e quindi del Sommo Bene; perché questo sia possibile bisognerebbe conoscere l’essenza delle cose, ciò che fa essere qualcosa ciò che è e che resta sempre immutabile, che trascende il divenire della realtà.

 

Per far fronte a questo problema che già Parmenide di Elea nel V secolo a.C. aveva analizzato con la sua “scienza dell’Essere” (o Ontologia), Platone postula l’esistenza delle Idee ovvero, in termini kantiani, i noumeni dei fenomeni. Esse appartengono alla realtà Metafisica, vera innovazione platonica, che è una dimensione altra rispetto alla nostra soggetta alla contingenza e di cui è quindi impossibile avere una conoscenza delle cose che una volta sono e una volta non sono più o sono diverse. Ma alla realtà metafisica l’uomo, limitato, anela senza potervi accedere; chi vuole conoscere la Verità e il Sommo Bene deve compiere un percorso interiore, una conoscenza di sé stessi che non ha mai fine ma che permette di giungere sempre più vicino al Vero tanto più ci si conosce.

 

Il titolo di ogni dialogo è caratterizzato dal nome dell’interlocutore di Socrate e dal tema trattato.

 

Tra i principali dialoghi giovanili spicca “Menone o della virtù”.

 

“Socrate, sai dirmi: la virtù s’insegna? Oppure non si insegna, ma la si acquisisce con la pratica? Oppure né la si pratica né la si impara, ma si viene formando negli uomini per natura o in qualche altro modo?”

 

Con questa domanda esordisce Menone nell’omonimo dialogo introducendo un tema centrale non solo nella filosofia platonica ma per tutti gli intellettuali delle epoche successive.

 

Emblematico è il fatto che Menone, da buon sofista e allievo di Gorgia, sia interessato a sapere come si acquisisca la virtù e non a cosa essa sia; egli infatti presuppone di esserne già a conoscenza ma quando Socrate gli chiede di darne una definizione, il giovane si trova in difficoltà.

 

Definire qualcosa significa indicare l’essenza stessa dell’oggetto designato. Ma i problemi sorgono nel momento in cui si tenta di definire non tanto un essere concreto e finito ma un valore morale come possono essere la Giustizia, il Bene, la Virtù, la Bellezza. Nel dialogo “Parmenide” Platone spiega, per bocca di Socrate, che per poter definire “x”sarebbe necessario dire le infinite cose che “x” non è e le molte che “x” è; per l’uomo questa è una missione impossibile.

 

Nel “Sofista” Socrate illustra il metodo dicotomico per poter definire l’idea (ovvero l’essenza) di qualcosa. Esso prevede una prima suddivisione della realtà nella sua totalità in due parti complementari e riconoscibili di cui si sceglierà quella più attinente all’oggetto di cui ci si sta occupando; questa verrà a sua volta divisa in due e ripetendo la bipartizione per ogni aspetto di nostro interesse fino a giungere all’oggetto di indagine, l’intero di partenza sarà scisso in tutte le sue varie forme. Risalendo a ritroso le varie ramificazioni ottenute, è possibile ottenere una definizione dell’oggetto in esame unificando i vari aspetti di nostro interesse.

 

Tuttavia questo metodo è troppo complesso per poter essere adottato con l’intento di definire qualcosa e per questo va scartato.

 

Anche Socrate ammette di non sapere affatto cosa sia la virtù e non sapendo cosa sia non può sapere nulla al riguardo, né come essa sia né come si acquisti. Scandalizzato, Menone lo esorta a dargli una risposta ma Socrate candidamente risponde che non ne ha; a questo punto è il filosofo di Atene che sprona il suo interlocutore a dargli una definizione di virtù e giocando con l’ironia tipica della pars destruens (confutatoria), fa leva sulla stima che il giovane ha nei confronti del maestro Gorgia e sui suoi insegnamenti; di certo il retore di Lentini si espresse esaurientemente in merito.

 

“La virtù dell’uomo è essere capaci di occuparsi adeguatamente degli affari della città, e così facendo fare del bene agli amici, del male ai nemici, lui stesso avendo cura di non subire nulla del genere. Se vuoi la virtù della donna, non è difficile esporla: la donna deve amministrare bene la casa, conservando i beni e obbedendo al marito. Diversa è poi la virtù del ragazzo, a seconda che sia maschio o femmina, e dell’uomo più anziano, vuoi libero, vuoi schiavo. E vi sono molte altre virtù (…) per ciascuna azione e per ciascuno di noi vi è una virtù propria; e lo stesso dicasi, Socrate, anche per il vizio.”

 

Il problema è proprio questo: Socrate non ha chiesto di definire una virtù ma la virtù, l’idea che la fa essere tale. Celebre è l’esempio dello sciame di api per spiegare all’interlocutore il suo errore.

 

“(…) cercavo una sola virtù e ho scoperto che presso di te se ne trovano uno sciame. (…) supponi che io ti chiedessi, a proposito della realtà dell’ape, che cosa mai sia e tu mi rispondessi che le api sono molte e di vario tipo; che cosa replicheresti se io ti chiedessi: “ intendi che le api sono molte, di vario tipo e diverse tra loro quanto al fatto di essere api? Oppure in questo non differiscono per nulla , ma si distinguono per altro, per esempio per bellezza, dimensione o qualcosa del genere?”

 

Menone risponde che quanto al fatto di essere api esse non differiscono in nulla l’una dall’altra e allora Socrate gli chiede di trovare proprio quel qualcosa che le accomuna in quanto quella è l’essenza della realtà dell’ape. Questo è ciò che deve emergere da una definizione, ciò che di una cosa resta immutato e sottratto alla contingenza della realtà; lo stesso discorso vale per la virtù: bisogna trovare quell’unico elemento che è identico per tutte.

Il problema principale che impedisce a Menone di trovare una definizione è rappresentato dal rapporto uno - molti che Platone affronterà nei dialoghi della maturità e in particolare nel “Parmenide”; fino ad ora il giovane si è limitato a dare solo una descrizione della virtù.

 

“La virtù o una virtù?”- chiede Socrate a uno stupito Menone che vede tutta la sua presuntuosa e presunta sapienza messa in crisi -“ (…) suvvia dì della virtù cosa sia in generale e smetti di fare di uno i molti, come si dice scherzando ogni volta che qualcuno rompe qualcosa; lasciala intera e intatta, e dì che cosa è la virtù”.

 

La risposta del giovane non tarda a giungere:

 

““ A me sembra che la virtù sia, come dice il poeta, “godere delle cose belle e averne il potere”.

Anche io affermo che la virtù è questo: desiderando le cose belle essere capace di procurarsele.””

 

Ma Socrate fa notare che tutti gli uomini desiderano cose belle (e buone in quanto vale il principio della kalokagathia greca) perché ognuno di noi auspica ad essere felice. Nessuno, nemmeno chi desidera il male, anela all’infelicità. Chi desidera essere danneggiato pensa che sia un bene, e dunque desidera le cose buone; persino i masochisti quando ricercano le cose cattive, lo fanno ritenendo che procureranno loro la felicità, e considerandole di fatto, e dunque desiderandole, come cose buone. Inoltre la seconda parte della definizione di Menone indica che virtù è anche capacità di sapersi procurare cose belle e buone; in questo modo chiunque sarebbe virtuoso.

 

Ma “giustamente e sensatamente?” chiede Socrate al ragazzo che asserisce, poiché senza queste qualità nessuna azione sarebbe virtuosa. Ma ancora una volta Menone ha frammentato la virtù perché per definirla ha dovuto introdurre anche “giustizia e temperanza” venendo meno alla richiesta di Socrate che lo aveva pregato di non fare più di uno i molti.

 

Menone spazientito, rendendosi conto di avere una gran confusione in testa e più nessuna certezza su tutto ciò che credeva di sapere a proposito della virtù accusa Socrate di agire come una torpedine.

Il dubbio che egli instilla nell’interlocutore con il metodo confutatorio intorpidisce paralizzando come il morso di questa creatura marina. Tuttavia, il mentore di Platone, si difende affermando di non poter esser definito una torpedine perché egli getta gli altri nel dubbio essendolo lui stesso.

 

“E in che modo cercherai, Socrate, ciò che non sai affatto che cos’è? Su quale delle cose che non sai cadrà la tua scelta per intraprendere la ricerca?”

“Infatti non è possibile per un uomo cercare né quello che sa né quello che non sa – risponde Socrate – Non cercherebbe infatti ciò che sa perché lo sa e non c’è bisogno di una simile ricerca - e neppure ciò che non sa - perché non saprebbe neppure cosa dovrà cercare.”

 

Allora come si può conoscere?

Platone propone la teoria della Reminescenza. Essa è in realtà solo accennata nel “Menone” mentre verrà approfondita nei dialoghi ella maturità.

 

Nell’opera in esame, Socrate cerca di dimostrare la validità di questa teoria tramite un esempio geometrico sottoposto a uno schiavo di Menone che ammette essere ignorante in materia.

 

Il ragazzo riesce a risolvere il quesito aiutato da Socrate il quale però non gli fornisce la soluzione ma tramite la maieutica lo induce ad un ragionamento pertinente a determinare la risoluzione del problema.

 

Questo significa o che lo schiavo ha mentito e aveva una buona conoscenza della geometria oppure che la sua anima era già conscia della soluzione del problema in una vita precedente.

 

“Se dunque tanto nel tempo in cui era uomo quanto nel tempo in cui non lo era vi saranno in lui opinioni vere, le quali, risvegliate dall’interrogazione divengono conoscenze, non è forse vero che la sua anima si troverà ad averle apprese da sempre e per sempre?(…) Se la verità delle cose è sempre nella nostra anima, l’anima sarebbe immortale; ma allora non bisogna fiduciosamente, quello che ora trovi a non sapere - cioè quello che ti trovi a non ricordare - impegnarsi per cercarlo e ricordarlo?”.

 

La gnoseologia platonica è fondata sulla credenza che l’anima umana sia immortale e che essa abbia da sempre conoscenza della verità ovvero delle idee metafisiche. Il problema è rappresentato dall’incarnazione delle anime nel corpo che in quel momento, precipitando dalla realtà iperuranica in cui coesistevano con le idee oggetto della loro contemplazione, hanno obliato quasi tutto.

 

Di quella conoscenza resta un ricordo sfumato che solo la filosofia e la dialettica tramite la pratica costante di dialogo e domande possono ripristinare anche se non completamente. Nel “Fedone” Platone enuncia la dottrina della Reminescenza e del rapporto anima-corpo sottolineando che conoscere è ricordare e la reminescenza è la condizione di possibilità per la conoscenza. L’apprendimento è interpretato come il recupero di conoscenze acquisite dall’anima prima di incarnarsi in un corpo ma dimenticate al momento della nascita e rimaste latenti in essa.

 

Socrate: “Presumendo che si debba cercare ciò che non si sa, saremmo migliori, più virili, meno pigri che se pensassimo che non è possibile trovare ciò che non si conosce né lo si deve cercare. (…) Allora dacchè abbiamo convenuto che bisogna cercare a proposito di ciò che non si sa, vuoi che ci impegniamo per cercare insieme che cosa è mai la virtù?”

 

Menone: “Certo. Anche se, Socrate, personalmente indagherei e ascolterei con il massimo piacere quanto ti chiedevo fin dall’inizio, se bisogna impegnarsi ritenendo che essa sia insegnabile o che si venga formando negli uomini per natura o in qualche altro modo.”

 

Menone non ha compreso i discorsi di Socrate; egli partiva con la presunzione di sapere senza sapere nulla e ancora si ostina a cercare di conoscere il come di una cosa senza sapere cosa essa sia violando così il principio di priorità epistemica che antepone ad ogni conoscenza secondaria quella circa l’essenza di “x”.

 

“Sembra dunque che si dovrà indagare come sia ciò che non sappiamo ancora cosa sia”

 

Accondiscendente Socrate cerca di rispondere al quesito rivoltogli per l’ennesima volta dal suo interlocutore cercando di indagare se e come la virtù possa essere insegnata.

Il ragionamento procede per ipotesi.

 

Supponendo che la virtù sia una forma di conoscenza e che la conoscenza sia insegnabile allora la virtù è insegnabile altrimenti no. Considerando valido il primo caso bisogna ora indagare se la virtù è conoscenza; se ogni forma di conoscenza è bene ed è utile e anche la virtù risponde a tali caratteristiche, allora la virtù è conoscenza.

Inoltre, è evidente che l’anima umana è contraddistinta dalla saggezza e che essa conduce alla felicità e quindi al Bene a cui tutti auspicano. Perciò la saggezza è conoscenza ed è buona e utile; ma anche la virtù è conoscenza e pertanto è buona. Poiché ciò che uno conosce può anche essere insegnato, allora la virtù in quanto forma di conoscenza è insegnabile.

 

Questo ragionamento scarta l’ipotesi per cui la virtù apparterrebbe all’uomo per natura perché se così fosse tutti lo sarebbero e invece è palese che tale asserzione non rispecchia la realtà.

 

Il ragionamento sembrerebbe non lasciare dubbi e soddisfare la domanda di Menone. Tuttavia, perché uomini virtuosi come Pericle o Temistocle ebbero figli che non furono all’altezza dei padri?

 

Ciò significa che la virtù non è insegnabile; non esistono né allievi né maestri di virtù.

 

Nel meta-dialogo con Anito, responsabile della condanna di Socrate, quest’ultimo sottolinea che i politici e gli eroi ateniesi hanno compiuto azioni virtuose non per insegnamento né perché qualità naturalmente attribuita loro; essi agivano per opinione corretta.

 

Socrate aveva argomentato a favore della coincidenza tra virtù e conoscenza a partire dall’utile: se la virtù è utile, e tutto ciò che ha a che fare con l’utile dipende dall’intelligenza e dalla conoscenza, ne consegue che virtù e conoscenza in qualche modo coincidono. Socrate osserva però che ciò che è utile non dipende soltanto dalla conoscenza, bensì anche dal’opinione corretta. Perciò si può concludere che la virtù è opinione corretta ovvero senso comune e per questo motivo non può essere insegnata.

 

Socrate: “(…) Ci è sfuggito in un modo davvero ridicolo, che non è soltanto sotto la guida della conoscenza che gli uomini agiscono correttamente e bene; e per questa ragione forse non riusciamo a capire come si formino gli uomini virtuosi.”

Menone: “Cosa intendi dire, Socrate?”

Socrate: “ Questo. Che gli uomini virtuosi debbano essere utili e non può essere altrimenti. (…) E che saranno utili se ci guidano nelle nostre faccende. Ma non è possibile guidare correttamente se non si è saggi.”

Menone: “ Cosa intendi dire?”

Socrate: Se uno che sa la strada per Larissa o per qualunque altro posto ci andasse e facesse d guida agli altri, non li guiderebbe correttamente e bene?

Menone: “Certamente.”

Socrate: “E fino a che abbia una opinione corretta sulle cose di cui l’altro ha conoscenza, in quanto presume cose vere non sarà una guida peggiore, anche se non le sa, di chi ha una conoscenza precisa. Dunque l’opinione vera, quanto a correttezza dell’azione, non è affatto una guida peggiore della saggezza; ed è questo che poco fa abbiamo trascurato quando indagavamo quale sia la virtù, e affermavamo che solo la saggezza guida l’agire corretto. Perché c’era anche l’opinione vera.(…) Anche le opinioni vere per tutto il tempo in cui rimangono, costituiscono un bel possesso e producono ogni bene: ma non sono solite star ferme a lungo, e se ne scappano dall’anima umana, così che non hanno grande valore, a meno che uno non le leghi con il ragionamento della causa. E questa è la reminescenza. Quando siano legate, diventano conoscenze e poi conoscenze stabili(…) ed è per il legame che la conoscenza differisce dall’opinione corretta.”

 

La conoscenza è quindi un’opinione corretta a cui si aggiunge il ragionamento, il quale restituisce la causa che a sua volta si ricollega alla reminescenza la quale permette di risalire alle vere cause, le idee, a fondamento ella conoscenza (fondazionalismo).

 

Nel momento in cui un’opinione inserita in un tessuto di relazioni causali si stabilizza si giunge ad una conoscenza e si parla di coerentismo.

 

Il dialogo in realtà non presenta una vera e propria conclusione perché Socrate spiega a Menone che la virtù in quanto opinione corretta è data, a chi la possiede, per sorte divina. Tuttavia non potremo dire come la si acquisisca effettivamente fino a quando non si riuscirà a dire cosa è la virtù in quanto tale.

 

Se conoscere è ricordare, si può aiutare a farlo ma non lo si può insegnare. Conoscere significa allora riattivare il sapere che è in noi il quale permette di comprendere la nostra vera natura e il legame che ci lega al tutto.

 

Tanto più cerchiamo, tanto più “ricordiamo” e tanto più saremo virtuosi.

 

E cos’è questo se non fare filosofia?

 

Quindi la virtù, che è filosofia, si acquista grazie alla reminescenza che è naturale in quanto innata in noi e frutto di apprendimento poiché risultato di uno sforzo intellettuale.



 

 

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