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N. 37 - Gennaio 2011 (LXVIII)

LA COSCIENZA CHE NON MUORE
Pippo Fava a ventisette anni dalla scomparsa

di Giuseppe Tramontana

 

Audendo agendoque

Respublica crescit,

non iis consiliis

quae timidi

cauta appellant. (Iscrizione presso "Santa Maria Maggiore della Pietrasanta" a Napoli)

 

 

Quando ritorno in Sicilia, non manco mai di andare a trovarlo. Ormai vivo stabilmente al nord e l’Isola è diventata più meta di vacanze che obbligo esistenziale, più volontario ritorno alle origini ed agli affetti che necessità imposta da rapporti famigliari. Così torno in Sicilia quando ne ho voglia, quando sento che una parte di me sta lentamente sbiadendo e che quindi abbisogna di una, come dire... "ritinteggiatura".

 

I percorsi della memoria sono gli stessi: gli amici ed i parenti, vivi e morti. Anche se, malauguratamente, col passare del tempo, come in un gioco dell’oca della vita, diminuisce il numero delle caselle del primo tipo ed aumenta quello del secondo. E così, tra le tappe segnate da coloro che di questa vita hanno già visto il meglio ed il peggio, ho ricompreso i miei genitori e alcuni miei carissimi ed indimenticabili amici, Franco, l’uomo perbene, l’incorruttibile, Pino, il barbudo anarchico e irriverente, Giovanni, il mio amico portiere, interista e fanatico motociclista, e l’altro Giovanni, il mio ex prof. di Storia dell’Arte.

Tutti a riposare dentro l’unico recinto del cimitero di Francofonte, Siracusa. Da qualche tempo, però, in questo mesto percorso ho inserito un’altra stazione: Palazzolo Acreide.

 

O meglio, il cimitero di Palazzolo.

 

Perché? Perché è qui che riposa, dal 1984, l’uomo di cui voglio parlare: Giuseppe Fava, detto Pippo. E’ proprio lui che ormai non manco di andare a trovare. Parcheggio l’auto fuori il muro di cinta, percorro i silenziosi viali alberati del camposanto finché non arrivo davanti al cancelletto della tomba-cappella di famiglia. A volte lo trovo aperto ed allora entro; più spesso lo trovo chiuso.

 

In ogni caso, rileggo, anche se di sbieco, la frase di Fava incisa sulla lastra che sigilla il loculo: “A che serve vivere se non si ha il coraggio di lottare”. La trovo bellissima. Verissima. Una vera chiamata al coraggio, un po’ come l’ “I want you” dello Zio Sam. E mi commuovo. Quando vado via ho la sensazione di aver fatto una cosa giusta. Sono contento di essere venuto. Io, che per vocazione, temperamento e scelta non amo né culti della personalità né leaderismi o personalizzazioni di alcun tipo, vado via contento come chi si sente riappacificato con se stesso e con il mondo. O meglio con la parte migliore di esso. La parte che lotta, che non si piega e che resta a schiena dritta e a testa alta. Nonostante tutto. Come gli operai sulle torri a Porto Marghera o gli immigrati sulla torre a Brescia, gli studenti per strada e sui monumenti di tutt’Italia e gli operai sardi ormai dimenticati rinchiusi da quasi 300 giorni all’Asinara. Lì, sempre lì. A lottare. Scrivere e lottare. A testa alta e senza padroni. Cose rare, bisogna ammetterlo, nell’Italia di oggi.

 

E, come tutti i transfughi siciliani, che ormai guardano all’isola con un sentimento tra il distacco, l’amore e la disillusione, mi riappacifico temporaneamente con la parte migliore della Sicilia. Della Sicilia e di me stesso.

 

Pippo Fava venne ucciso ventisette anni fa a Catania, la città in cui non fa mai troppo freddo con giornate dicembrine che possono sfiorare anche i venti gradi. Ed i pensieri, a Catania, sono fluidi e caldi, a plasmare e irrorare l’anima irridente di una città cinica e beffarda. Anche in inverno, a Catania, la brezza marina alita lieve sulla città, sulle sue strade formicolanti assediate di auto, sulle sue chiese barocche scolpite nell’aria, sulle case in stile liberty decorate di palme o sui miserandi quartieri delle periferie offese e dolenti. Una brezza dolce-salata, carica di umori ed odori, odori di mare, di putredine, di infinito ludibrio. Non serve vestirsi pesante, in quelle sere. Basta un giubbotto, una giacca. E una speranza di felicità.

 

E la sera del 5 gennaio 1984 una speranza di felicità ce l’aveva Giuseppe Fava, lo scrittore dalla penna acuminata, il giornalista coraggioso, il drammaturgo che aveva messo a soqquadro una città. Aveva attraversato la città sotto un cielo piovigginoso per andare a prendere la nipotina all’uscita dalla recita di Pensaci, Giacomino! di Pirandello al Teatro Verga. Come racconterà il figlio Claudio, erano già alcuni giorni che lo faceva. Si sa, sotto Natale, le recite dei bambini fanno parte anch’esse della tradizioni. Qualche minuto prima delle 22, si trovava in via dello Stadio Cibali (oggi Via Giuseppe Fava, mentre lo Stadio, ora, si chiama Angelo Massimino). Un commando mafioso lo attendeva. Un killer gli sparò a bruciapelo cinque colpi di pistola 7,65 alla nuca.

Alla nuca. Neanche il coraggio di guardarlo negli occhi.

 

L’Italia che tradizionalmente non è terra di intellettuali scomodi, è tuttavia lo Stato dell’Europa occidentale dove più facilmente costoro, scrittori, giornalisti, pubblicisti, ci hanno rimesso la pelle. Pippo Fava, Peppino Impastato, Beppe Alfano, Mauro Rostagno, Pier Paolo Pasolini, Cosimo Cristina, Giovanni Spampinato, Peppino Impastato, Mario Francese, Mauro De Mauro e via discorrendo. Eppure, molti di quelli che sono caduti per raccontare fatti e verità, sono caduti in Sicilia.

 

Pippo Fava era diventato direttore de “I Siciliani” meno di due anni prima. Ma aveva una lunga esperienza alle spalle. Era giornalista professionista dal 1952 ed aveva iniziato collaborando con varie testate giornalistiche regionali e nazionali, da Sport Sud a La Domenica del Corriere, da Tuttosport a Tempo illustrato. Nel 1956 era stato assunto dall’Espresso sera, di cui era diventato caporedattore fino al 1980. Cacciato via perché troppo indipendente, troppo poco malleabile con il potere, troppo incline a capire come stavano le cose effettivamente in una città come quella etnea dipinta da mass media e politici locali come la “Milano del Sud”.

 

Così, via dalla “Gazzetta”, Pippo Fava, insieme ai suoi collaboratori, si gettò a capofitto in un nuovo ambizioso progetto editoriale fondando la cooperativa Radar. Erano i mesi in cui erano caduti uno dopo l’altro Cesare Terranova, Boris Giuliano, Gaetano Costa, Bernardo Mattarella, Pio La Torre. Ed il 3 settembre 1982 sarebbe toccato anche al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Ed era stato il generale Dalla Chiesa, nella sua famosa intervista a Giorgio Bocca del 10 agosto 1982, a dichiarare che “con il consenso della mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo. Lei crede che potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?”

 

E fu sull’onda emotiva e giudiziaria della morte del generale che esplose il caso Catania. Come racconterà Claudio Fava, Catania cadde sotto il microscopio della stampa nazionale. Cosa nascondeva questa città? Quale era la vera immagine dei cavalieri del lavoro?

 

Nel novembre del 1982, dopo la morte del generale Dalla Chiesa, le trattative, i dibattiti, giunsero al capolinea. Il mensile I Siciliani poteva vedere la luce. Senza una lira, con tante cambiali nei cassetti, ma molte più idee.

 

Quella de I Siciliani divenne ben presto un’esperienza decisiva, fondante, per il movimento antimafia. Ma non solo.

 

Fu un pugno allo stomaco per Catania, per i suoi cavalieri e per i suoi impronunciabili segreti.

 

Fu un colpo al cuore per una città in cui, alcuni mesi addietro, una foto scattata all’inaugurazione dello Scimar, una boutique del boss Rosario Romeo, aveva ritratto insieme, sorridenti e beati i seguenti personaggi: Nitto Santapaola, due dei suoi uomini, il sindaco andreottiano Salvatore Coco, il Presidente della Provincia Giacomo Sciuto, il deputato regionale socialdemocratico Salvatore Lo Turco, il segretario provinciale del Psdi Antonello Longo, il dirigente del servizio sanitario della casa circondariale di Catania Franco Guarnera, il medico chirurgo Raimondo Bordonaro, poi arrestato per traffico di droga ed armi, il consigliere comunale Salvatore Di Stefano, i due nipoti del cavaliere del lavoro Carmelo Costanzo – Giuseppe e Vincenzo – e il genero del cavaliere del lavoro Gaetano Graci, Placido Filippo Aiello.

 

Fu un colpo insopportabile per una città in cui i manovratori non venivano mai disturbati e godevano di protezione, assistenza, connivenza e illimitata capacità di comando. Come il cavaliere Mario Rendo, il quale – stando alle sue famose “cartelline” sequestrate nell’’83 a Roma – poteva tranquillamente disporre la promozione di un questore o la rimozione di un colonnello della Guardia di finanza fin troppo zelante, così come poteva “indirizzare”, “promuovere”, “ammorbidire”, “gestire” gli affari dentro il Palazzo di Giustizia catanese.

 

I Siciliani, anno I, n. 1. Cominciò così l’avventura di quel periodico coraggioso e battagliero. Tra gli articoli, il più scottante recava la firma di Pippo Fava, un articolo entrato nella leggenda: I quattro cavalieri dell’Apocalisse mafiosa si titolava. I cavalieri erano i quattro uomini più potenti di Catania e tra i più potenti dell’Italia intera, i cavalieri del lavoro Rendo, Costanzo, Graci e Finocchiaro.

 

Scriveva Fava: “Per parlare dei cavalieri di Catania e per capire cosa essi effettivamente siano, protagonisti, comparse, o semplicemente innocui e spaventati spettatori della grande tragedia mafiosa che sta facendo vacillare la Nazione, bisogna prima avere perfettamente chiara la struttura della mafia negli anni ottanta, nei suoi tre livelli: gli uccisori, i pensatori, i politici. E per meglio intendere tutto bisognerà prima capire e identificare le prede della mafia nel nostro tempo.”

 

E la preda siamo noi, la società. Collegava la vicenda dei cavalieri all’analisi del ‘fattore mafioso’ ed al mutamento strategico che la stessa organizzazione criminale aveva e stava attuando, ossia il passaggio dall’ambito più “agrario” a quello del commercio di droga: “La droga ha ammorbato oramai anche alcune istituzioni fondamentali della nostra società, la scuola, lo sport, le carceri, gli ospedali, che si stanno trasformando in luogo di autentico contagio. (…) Da dieci anni la mafia tiene in pugno l’immenso affare. Dapprima nelle grandi capitali del mercato, che erano soprattutto Beirut, Il Cairo, Istambul, la grande plaga del Medioriente, Marsiglia, New York, e ora definitivamente anche in Sicilia. L’isola è nel cuore del Mediterraneo e quindi passaggio obbligato per il cinquanta per cento dei traffici dall’area afroasiatica verso le grandi nazioni dell’occidente. Per qualche tempo la Sicilia si è limitata a controllare questo passaggio, garantendo punti di approdo e reimbarco, sicurezza e rapidità in qualsiasi operazione ed esigendo in cambio una tangente. La Fiat fabbrica automobili e le affida ai concessionari: ebbene la mafia pretende una tangente dai concessionari perché possano svolgere il lavoro senza rischi, ma la mafia non si sogna di sostituirsi alla Fiat per fabbricare automobili. Per anni, incredibilmente, la mafia si comportò allo stesso modo per la droga. (…) Alla fine i calcoli furono perfetti e abbaglianti, e l’ultima ripugnanza venne vinta. La mafia assunse in proprio il traffico, anche in Sicilia, e lo fece alla sua maniera, eliminando qualsiasi concorrente e aggiudicandosi tutto il ciclo completo del mercato.”

 

Ora questi soldi sporchi vanno riciclati in qualche modo, altrimenti a che servono, a che servono tutti gli sforzi, i lavorii, gli omicidi? E per riciclare i denari della droga servono uomini pronti, caparbi, esperti negli affari. Magari capaci di mettere su qualche banca, come Sindona o il senatore Graziano Verzotto, l’uomo di Castelfranco Veneto: “Quante di queste banche furono inventate da Sindona, con i capitali di Sindona e che Sindona riceveva da imperscrutabili fonti? Un incauto giudice milanese dette incarico a un famoso commercialista, l’avvocato Ambrosoli, di venire a Palermo per indagare, capire. Era un professionista principe ma molto ingenuo. Praticamente lo condannarono a morte. Prima ancora che potesse venire in Sicilia gli fecero la pelle.”

 

Ma le banche non bastano. Il denaro non può essere nascosto, ripulito e nascosto in eterno. Deve essere reinvestito, deve produrre altro denaro. Pulito fin dall’origine, questa volta: “Accanto alle banche ecco dunque le grandi imprese industriali e commerciali che, opportunamente, saggiamente, prudentemente, garbatamente, silenziosamente, amabilmente finanziate, possono riuscire ad impiegare quei capitali, trasformandoli in opere di sicuro valore economico. E non è detto che non siano opere di mirabile importanza e perfezione civile: un moderno ospedale, un carcere modello, una città-giardino, un complesso sportivo, persino una nuova chiesa. E qui sul palcoscenico avanzano, quasi a passo di danza, i quattro cavalieri catanesi. Dopo quello che è accaduto, vien facile perfino la citazione: ‘I quattro cavalieri dell’Apocalisse’.”

 

Nell’aprile dello stesso anno, veniva pubblicato un altro articolo diventato famosissimo: Sindrome Catania, in cui la città etnea era inquadrata ed anatomizzata nei suoi apporti culturali, nelle sue capacità rappresentative e nei suoi rapporti con i potentati mafiosi: “Per sindrome Catania intendo quello stato d’animo per il quale da qualche anno a questa parte, ovunque in Italia, il siciliano viene innanzitutto ritenuto catanese. Ciò perché qualunque cosa sia accaduta in questi ultimi tempi in Sicilia, essa è accaduta a Catania o l’hanno fatta i catanesi. Sono catanesi i cavalieri del lavoro che hanno fatto impazzire mafiologhi ed economisti di mezza Europa, che costruiscono ognuno in ogni parte della Sicilia e dell’Europa, dell’Africa, dell’America del Sud, autostrade, dighe, ponti, grattacieli, chiese, centrali nucleari, chiodi e locomotive. E’ catanese l’uomo che viene braccato sotto l’accusa di avere organizzato e personalmente eseguito con un kalashnikoff l’assassinio del generale dalla Chiesa. è catanese la Procura Generale sottoposta a inchiesta dal Consiglio Superiore della Magistratura per accertare le clamorose indagini su evasioni fiscali e collusioni mafiose… è catanese l’unico Teatro Stabile del Sud: nemmeno Napoli e Palermo, che hanno maestà e presupponenza di autentiche capitali, ci sono riuscite. E’ catanese altresì quel tipo di siciliano che altri italiani ritengono il più perfettamente siciliano, che non rassomiglia ad alcun altro siciliano, che non è triste, né superbo, né tragico, né lamentoso, ma sempre allegro, sempre sprezzante, sfottente, ridente. Catanese è infine il dialetto siciliano che gli altri italiani conoscono, lingua parlata da Giovanni Grasso, Angelo Musco, Turi Ferro, una maniera di parlare nella quale non si capisce mai se il catanese stia parlando sul serio o da un momento all’altro ti scoppia a ridere in faccia… Dicono che Catania, onde potersi confrontare con Palermo, alla fine si sia inventata la mafia. Per entrare da protagonista negli affari giganteschi della droga, per proteggere politicamente e giudizialmente i crescenti imperi finanziari, e infine per potere eliminare chiunque (leggi dalla Chiesa) avesse in animo di opporsi. La realtà, probabilmente, è un’altra, la realtà è che il catanese è diverso (ecco la sindrome) da ogni altro italiano anche nella criminalità, anzi nella genesi stessa della criminalità.”

 

Nel numero 7 del luglio 1983, apparve una insolita e intrigante inchiesta: I dieci più potenti della Sicilia. Per Fava si trattava semplicemente di una “scoperta” più che di un’indagine. Era interessato ad indagare, quasi antropologicamente, le qualità umane – di cui pochi uomini dispongono – che permettono di comandare su tutti gli altri. Interessante, ed attualissimo, è quanto mette in bocca al giornalista: “Amo la mia professione come si può amare carnalmente una donna splendida e un po’ bagascia, che ti tradisce con tutti e di cui però non riesci a farne a meno. In questa società comanda soprattutto chi ha la possibilità di convincere le persone ad avere quei tali pensieri sul mondo e quelle tali idee sulla vita. In questa società il padrone è colui il quale ha nelle mani i mass-media, chi possiede o può utilizzare gli strumenti dell’informazione, la televisione, la radio, i giornali, poiché tu racconti una cosa e cinquantamila, cinquecentomila o cinque milioni di persone ti ascoltano e alla fine tu avrai cominciato a modificare i pensieri di costoro. (…) Voglio dire che la vera forza consiste nel numero di persone che ti sono devote, e quindi si fonda sull’amicizia, la riconoscenza, la gentilezza.”

 

Questi brevissimi stralci di articoli danno il senso della sua attività. Ma Fava era tanto altro ancora. A tutto questo, infatti, va aggiunta una padronanza eclettica degli strumenti comunicativi decisamente non comuni. Sicché tutto il repertorio del Fava drammaturgo, romanziere, saggista, giornalista e cronista trovava modo di manifestarsi nella sua attività di direzione. Senza paure, senza pause. Tutte le armi a sua disposizione, dal punto di vista tecnico-letterario, venivano impiegate con vivacità ed estroversione, ma soprattutto con libertà.

 

Tra il 1967 e il 1969 pubblicò sulla “terza pagina” de La Sicilia una serie di racconti, che colpirono “per la violenza e la bellezza moderna dello stile e dei temi” e che poi verranno raccolti in un volume dal titolo Pagine (1969). Fu nel periodo di impegno ad Espresso sera che cominciò a scrivere di teatro. Dapprima con Cronaca di un uomo (1966), opera vincitrice del premio Vallecorsi, portata in scena da Romano Bernardi con Leo Gullotta, Aldo Puglisi, Tuccio Musumeci e Fioretta Mari. Del 1970 è La violenza, che ottenne il Premio IDI e venne portata in tournée in tutta Italia, dopo la prima al Teatro Stabile di Catania. Da quest’opera – com’è noto – due anni dopo venne tratta una trasposizione cinematografica per la regia di Florestano Vancini e la partecipazioni di grandissimi attori come Michele Abruzzo, Riccardo Cucciola, Turi Ferro, Aldo Giuffrè, Ciccio Ingrassia, Mariangela Melato, Gastone Moschin, Enrico Maria Salerno.

 

L’anno successivo, lo Stabile mise in scena un nuovo testo di Fava: Il Proboviro, un apologo grottesco ed amaro sul degrado civile, morale e politico di una città meridionale. Il testo fu il frutto di quelle inchieste giornalistiche che avevano prodotto, nel 1970, il libro-denuncia Processo alla Sicilia. Interprete della pièce fu un grandissimo Turi Ferro, affiancato dalla validissima maschera di Tuccio Musumeci.

 

Nella stagione 1974-75 il Teatro Stabile etneo presentò un altro testo di Fava, contenente accuse e riferimenti ancor più polemici contro la ‘casta’ dei giornalisti: Bello bellissimo. E’ un atto d’accusa implacabile contro il consumismo cieco, l’egoismo spicciolo che corrode animi e sentimenti, che sostituisce alla comprensione, alla solidarietà l’ambiguo e vacuo desiderio di emergere, arrivare, scavalcando il prossimo, schiacciandolo, usandolo come infimo strumento per la realizzazione delle proprie brame. L’anno 1975 è anche quello della pubblicazione, da Bompiani, del romanzo Gente di rispetto, da cui verrà tratto un film per la regia di Luigi Zampa, con Franco Nero, James Mason e Jennifer O’ Neil.

 

La stagione 1976-77 vide il remake, nell’inconsueto palcoscenico del Teatro Greco di Taormina, de Il Proboviro, ribattezzata Opera buffa, mentre nello stesso anno 1977, la casa editrice Cappelli pubblicava il suo secondo romanzo, Prima che vi uccidano. Nella stagione 1979-80 venne rappresentata l’opera Delirio, un lavoro dove si sente il soffio della Sicilia pirandelliana. Ma fu il 1980 l’anno delle svolte. Ad Espresso sera sarebbe dovuto arrivare un nuovo direttore. Ci si aspettava che fosse lui il nuovo direttore della seconda testata catanese. Ma non fu così. Troppo indipendente, troppo poco riverente ed acquiescente verso i potenti. L’editore Mario Ciancio Sanfilippo gli preferì qualcun altro. Qualcuno che non rompeva le uova nel paniere delle intricate e remunerative relazioni tra mondo degli affari (puliti o sporchi), mass media e politica. Fava andò via. Si trasferì temporaneamente a Roma, dove condusse Voi e io, una trasmissione radiofonica su Radiorai. Da qui continuò a scrivere collaborando con Il Tempo ed Il Corriere della sera, e soprattutto impegnandosi nella sceneggiatura del film Palermo oder Wolfsburg, regista Werner Schroeter, tratto dal suo romanzo, pubblicato nello stesso 1980, Passione di Michele. Il film vinse l’Orso d’Oro a Berlino, ma in Italia non verrà mai proiettato.

 

Nel marzo del 1981 fu rappresentata l’opera Foemina ridens, spettacolo che riscosse un inatteso successo... Di questa pièce Fava fu, per la prima volta, anche il regista.

Il 9 novembre 1983 (due mesi prima della morte), il Teatro Stabile di Catania inaugurò la stagione teatrale con la messa in scena dell’ Ultima violenza, un dramma intricato, “dove sono chiamati a comparire i vari cavalieri del lavoro, gli imprenditori, i politici, i procuratori, i saccheggiatori della città e i monopolizzatori degli appalti regionali, tutti personaggi invulnerabili e compromessi".

 

L’opera venne messa in scena grazie alla regia di Lamberto Puggelli, con Turi Ferro ed Ennio Balbo nella parte dei due protagonisti-antagonisti, rispettivamente nel ruolo del potente, ambiguo e inquietante avvocato Bellolampo e del procuratore, suo avversario. Gli altri attori furono Vincenzo Ferro, presidente del tribunale speciale, Ida Carrara, nei panni della moglie del commissario, Maria Tolu, madre del carabiniere ucciso. E poi, Miko Magistro, Giacomo Furia, Marcello Perracchio, Leonardo Marino ed altri ancora. Lo spettacolo fu applauditissimo. Dopo l’omicidio, verrà portato in tournée, da gennaio a maggio 1985, in tutta Italia.

                        Nell’anno dell’uccisione, il 1984, la cooperativa Alfa propose Mafia-parole e suoni, un’opera già messa in scena nel 1983, ma ripresa dopo la morte dell’autore. Nello stesso anno, la casa editrice Editori Riuniti ripubblicò il libro-inchiesta Mafia. Da Giuliano a Dalla Chiesa, già dato alle stampe nel 1982. Questo volumetto, nella seconda edizione del 1987 sarà arricchito di una postfazione, a cura della redazione de I Siciliani, dal titolo Cronaca di 16 mesi (3 settembre 1982-5 gennaio 1984).

Nel maggio 1988 venne presentata, a Palazzo Bruca a Catania, l’edizione in quattro volumi del Teatro di Fava, contenente anche le opere inedite o mai rappresentate: La rivoluzione (incompiuta), Sinfonie d’amore, America America, Dialoghi futuri imminenti, Il Vangelo secondo Giuda, Paradigma, L’uomo del Nord.

 

Tra questi, Dialoghi futuri imminenti contiene molti punti di contatto con Ultima violenza. E’ la fase di istruttoria di un processo, durante gli anni del terrorismo. E’ l’affannosa ricerca del perché di tanta violenza, della violenza sull’uomo da parte dell’uomo, dell’accusato e dell’accusatore. Sinfonie d’amore, invece, testo scritto da Fava nel 1979, venne portato sulle scene dalla Cooperativa Alfa. La ‘prima’ si tenne il 28 febbraio 1987 e riproposta nella stagione 1988-89. Si tratta di due stravaganti ‘sinfonie’, d’amore e farsa, due atti unici: Andante e Allegretto. Una sorta di Beckett siciliano, con tanto di mugugni, risate, odori, deliri e suoni più o meno frastornanti. La regia fu di Orazio Torrisi, tra gli interpreti Pippo Pattavina, Guia Jelo e Miko Magistro.

 

Per concludere, ricordiamo che il 28 dicembre 1983 rilasciò l’ultima intervista a Enzo Biagi per il programma Film-story, trasmessa l’indomani da Retequattro. E’ un’intervista di un’attualità disarmante, che permette, semmai ce fosse bosgno, di mettere a fuoco ancora una volta lo straordinario spessore intellettuale e il grande fiuto giornalistico di Fava. Dunque siamo a sette giorni dal suo assassinio e negli studi di Retequattro, ad una precisa domanda di Biagi su cosa debba intendersi con il termine mafia, su cosa sia effettivamente la mafia, il giornalista catanese rispose: “Mi rendo conto che c’è un’enorme confusione sul problema della mafia. Questo signore (Fava si riferiva ad un precedente intervento, nda) ha avuto a che fare con scassapagghiara, delinquenti da tre soldi. I mafiosi veri stanno in ben altri luoghi, in ben altre assemblee; i mafiosi stanno in Parlamento, a volte sono ministri, a volte sono banchieri, sono quelli ai vertici della Nazione. Se non si chiarisce questo equivoco di fondo… Insomma, non si può definire mafioso il piccolo delinquente che ti impone la piccola taglia sulla tua piccola attività: questa è roba da piccola criminalità che ormai abita in tutte le città italiane ed europee. Il problema della mafia è molto più tragico ed importante, è un problema di vertice nella gestione della Nazione che rischia di portare alla rovina e al decadimento culturale l’Italia.”

 

E alla successiva questione posta dal conduttore se la mafia attuale fosse uguale o diversa rispetto alla mafia del passato, Fava argomentò lucidamente così:

 

“Oggi i mafiosi sono… non sono quelli che ammazzano, quelli sono esecutori. Anche al massimo livello. Non so, si fanno i nomi – io non li conosco – i nomi dei fratelli Greco. Si dice che siano i padroni della mafia, quelli delle cosche vincenti, i vicerè. Non è vero, loro sono degli esecutori, sono nell’organizzazione e fanno quello che gli altri… Non lo so, io adesso parlo di persone incensurate, quindi per quello che si presume, secondo l’accusa…

 

Ci sono degli altri a fianco di loro, ci sono degli altri che contano infinitamente di più. Cioè, i fratelli greco, lasciando stare se siano grandi malviventi o grandi innocenti, perché questo lo stabilirà il magistrato, non potrebbero essere dei mafiosi se non ci fosse dietro qualcun altro che consentisse loro di esserlo.”

Questo, ventisette anni fa.



 

 

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