N. 37 - Gennaio 2011
(LXVIII)
LA COSCIENZA CHE NON MUORE
Pippo Fava a ventisette anni dalla scomparsa
di Giuseppe Tramontana
Audendo
agendoque
Respublica
crescit,
non
iis
consiliis
quae
timidi
cauta
appellant.
(Iscrizione
presso
"Santa
Maria
Maggiore
della
Pietrasanta"
a
Napoli)
Quando
ritorno
in
Sicilia,
non
manco
mai
di
andare
a
trovarlo.
Ormai
vivo
stabilmente
al
nord
e
l’Isola
è
diventata
più
meta
di
vacanze
che
obbligo
esistenziale,
più
volontario
ritorno
alle
origini
ed
agli
affetti
che
necessità
imposta
da
rapporti
famigliari.
Così
torno
in
Sicilia
quando
ne
ho
voglia,
quando
sento
che
una
parte
di
me
sta
lentamente
sbiadendo
e
che
quindi
abbisogna
di
una,
come
dire...
"ritinteggiatura".
I
percorsi
della
memoria
sono
gli
stessi:
gli
amici
ed i
parenti,
vivi
e
morti.
Anche
se,
malauguratamente,
col
passare
del
tempo,
come
in
un
gioco
dell’oca
della
vita,
diminuisce
il
numero
delle
caselle
del
primo
tipo
ed
aumenta
quello
del
secondo.
E
così,
tra
le
tappe
segnate
da
coloro
che
di
questa
vita
hanno
già
visto
il
meglio
ed
il
peggio,
ho
ricompreso
i
miei
genitori
e
alcuni
miei
carissimi
ed
indimenticabili
amici,
Franco,
l’uomo
perbene,
l’incorruttibile,
Pino,
il
barbudo
anarchico
e
irriverente,
Giovanni,
il
mio
amico
portiere,
interista
e
fanatico
motociclista,
e
l’altro
Giovanni,
il
mio
ex
prof.
di
Storia
dell’Arte.
Tutti
a
riposare
dentro
l’unico
recinto
del
cimitero
di
Francofonte,
Siracusa.
Da
qualche
tempo,
però,
in
questo
mesto
percorso
ho
inserito
un’altra
stazione:
Palazzolo
Acreide.
O
meglio,
il
cimitero
di
Palazzolo.
Perché?
Perché
è
qui
che
riposa,
dal
1984,
l’uomo
di
cui
voglio
parlare:
Giuseppe
Fava,
detto
Pippo.
E’
proprio
lui
che
ormai
non
manco
di
andare
a
trovare.
Parcheggio
l’auto
fuori
il
muro
di
cinta,
percorro
i
silenziosi
viali
alberati
del
camposanto
finché
non
arrivo
davanti
al
cancelletto
della
tomba-cappella
di
famiglia.
A
volte
lo
trovo
aperto
ed
allora
entro;
più
spesso
lo
trovo
chiuso.
In
ogni
caso,
rileggo,
anche
se
di
sbieco,
la
frase
di
Fava
incisa
sulla
lastra
che
sigilla
il
loculo:
“A
che
serve
vivere
se
non
si
ha
il
coraggio
di
lottare”.
La
trovo
bellissima.
Verissima.
Una
vera
chiamata
al
coraggio,
un
po’
come
l’
“I
want
you”
dello
Zio
Sam.
E mi
commuovo.
Quando
vado
via
ho
la
sensazione
di
aver
fatto
una
cosa
giusta.
Sono
contento
di
essere
venuto.
Io,
che
per
vocazione,
temperamento
e
scelta
non
amo
né
culti
della
personalità
né
leaderismi
o
personalizzazioni
di
alcun
tipo,
vado
via
contento
come
chi
si
sente
riappacificato
con
se
stesso
e
con
il
mondo.
O
meglio
con
la
parte
migliore
di
esso.
La
parte
che
lotta,
che
non
si
piega
e
che
resta
a
schiena
dritta
e a
testa
alta.
Nonostante
tutto.
Come
gli
operai
sulle
torri
a
Porto
Marghera
o
gli
immigrati
sulla
torre
a
Brescia,
gli
studenti
per
strada
e
sui
monumenti
di
tutt’Italia
e
gli
operai
sardi
ormai
dimenticati
rinchiusi
da
quasi
300
giorni
all’Asinara.
Lì,
sempre
lì.
A
lottare.
Scrivere
e
lottare.
A
testa
alta
e
senza
padroni.
Cose
rare,
bisogna
ammetterlo,
nell’Italia
di
oggi.
E,
come
tutti
i
transfughi
siciliani,
che
ormai
guardano
all’isola
con
un
sentimento
tra
il
distacco,
l’amore
e la
disillusione,
mi
riappacifico
temporaneamente
con
la
parte
migliore
della
Sicilia.
Della
Sicilia
e di
me
stesso.
Pippo
Fava
venne
ucciso
ventisette
anni
fa a
Catania,
la
città
in
cui
non
fa
mai
troppo
freddo
con
giornate
dicembrine
che
possono
sfiorare
anche
i
venti
gradi.
Ed i
pensieri,
a
Catania,
sono
fluidi
e
caldi,
a
plasmare
e
irrorare
l’anima
irridente
di
una
città
cinica
e
beffarda.
Anche
in
inverno,
a
Catania,
la
brezza
marina
alita
lieve
sulla
città,
sulle
sue
strade
formicolanti
assediate
di
auto,
sulle
sue
chiese
barocche
scolpite
nell’aria,
sulle
case
in
stile
liberty
decorate
di
palme
o
sui
miserandi
quartieri
delle
periferie
offese
e
dolenti.
Una
brezza
dolce-salata,
carica
di
umori
ed
odori,
odori
di
mare,
di
putredine,
di
infinito
ludibrio.
Non
serve
vestirsi
pesante,
in
quelle
sere.
Basta
un
giubbotto,
una
giacca.
E
una
speranza
di
felicità.
E la
sera
del
5
gennaio
1984
una
speranza
di
felicità
ce
l’aveva
Giuseppe
Fava,
lo
scrittore
dalla
penna
acuminata,
il
giornalista
coraggioso,
il
drammaturgo
che
aveva
messo
a
soqquadro
una
città.
Aveva
attraversato
la
città
sotto
un
cielo
piovigginoso
per
andare
a
prendere
la
nipotina
all’uscita
dalla
recita
di
Pensaci,
Giacomino!
di
Pirandello
al
Teatro
Verga.
Come
racconterà
il
figlio
Claudio,
erano
già
alcuni
giorni
che
lo
faceva.
Si
sa,
sotto
Natale,
le
recite
dei
bambini
fanno
parte
anch’esse
della
tradizioni.
Qualche
minuto
prima
delle
22,
si
trovava
in
via
dello
Stadio
Cibali
(oggi
Via
Giuseppe
Fava,
mentre
lo
Stadio,
ora,
si
chiama
Angelo
Massimino).
Un
commando
mafioso
lo
attendeva.
Un
killer
gli
sparò
a
bruciapelo
cinque
colpi
di
pistola
7,65
alla
nuca.
Alla
nuca.
Neanche
il
coraggio
di
guardarlo
negli
occhi.
L’Italia
che
tradizionalmente
non
è
terra
di
intellettuali
scomodi,
è
tuttavia
lo
Stato
dell’Europa
occidentale
dove
più
facilmente
costoro,
scrittori,
giornalisti,
pubblicisti,
ci
hanno
rimesso
la
pelle.
Pippo
Fava,
Peppino
Impastato,
Beppe
Alfano,
Mauro
Rostagno,
Pier
Paolo
Pasolini,
Cosimo
Cristina,
Giovanni
Spampinato,
Peppino
Impastato,
Mario
Francese,
Mauro
De
Mauro
e
via
discorrendo.
Eppure,
molti
di
quelli
che
sono
caduti
per
raccontare
fatti
e
verità,
sono
caduti
in
Sicilia.
Pippo
Fava
era
diventato
direttore
de
“I
Siciliani”
meno
di
due
anni
prima.
Ma
aveva
una
lunga
esperienza
alle
spalle.
Era
giornalista
professionista
dal
1952
ed
aveva
iniziato
collaborando
con
varie
testate
giornalistiche
regionali
e
nazionali,
da
Sport
Sud
a
La
Domenica
del
Corriere,
da
Tuttosport
a
Tempo
illustrato.
Nel
1956
era
stato
assunto
dall’Espresso
sera,
di
cui
era
diventato
caporedattore
fino
al
1980.
Cacciato
via
perché
troppo
indipendente,
troppo
poco
malleabile
con
il
potere,
troppo
incline
a
capire
come
stavano
le
cose
effettivamente
in
una
città
come
quella
etnea
dipinta
da
mass
media
e
politici
locali
come
la
“Milano
del
Sud”.
Così,
via
dalla
“Gazzetta”,
Pippo
Fava,
insieme
ai
suoi
collaboratori,
si
gettò
a
capofitto
in
un
nuovo
ambizioso
progetto
editoriale
fondando
la
cooperativa
Radar.
Erano
i
mesi
in
cui
erano
caduti
uno
dopo
l’altro
Cesare
Terranova,
Boris
Giuliano,
Gaetano
Costa,
Bernardo
Mattarella,
Pio
La
Torre.
Ed
il 3
settembre
1982
sarebbe
toccato
anche
al
generale
Carlo
Alberto
Dalla
Chiesa.
Ed
era
stato
il
generale
Dalla
Chiesa,
nella
sua
famosa
intervista
a
Giorgio
Bocca
del
10
agosto
1982,
a
dichiarare
che
“con
il
consenso
della
mafia
palermitana,
le
quattro
maggiori
imprese
edili
catanesi
oggi
lavorano
a
Palermo.
Lei
crede
che
potrebbero
farlo
se
dietro
non
ci
fosse
una
nuova
mappa
del
potere
mafioso?”
E fu
sull’onda
emotiva
e
giudiziaria
della
morte
del
generale
che
esplose
il
caso
Catania.
Come
racconterà
Claudio
Fava,
Catania
cadde
sotto
il
microscopio
della
stampa
nazionale.
Cosa
nascondeva
questa
città?
Quale
era
la
vera
immagine
dei
cavalieri
del
lavoro?
Nel
novembre
del
1982,
dopo
la
morte
del
generale
Dalla
Chiesa,
le
trattative,
i
dibattiti,
giunsero
al
capolinea.
Il
mensile
I
Siciliani
poteva
vedere
la
luce.
Senza
una
lira,
con
tante
cambiali
nei
cassetti,
ma
molte
più
idee.
Quella
de
I
Siciliani
divenne
ben
presto
un’esperienza
decisiva,
fondante,
per
il
movimento
antimafia.
Ma
non
solo.
Fu
un
pugno
allo
stomaco
per
Catania,
per
i
suoi
cavalieri
e
per
i
suoi
impronunciabili
segreti.
Fu
un
colpo
al
cuore
per
una
città
in
cui,
alcuni
mesi
addietro,
una
foto
scattata
all’inaugurazione
dello
Scimar,
una
boutique
del
boss
Rosario
Romeo,
aveva
ritratto
insieme,
sorridenti
e
beati
i
seguenti
personaggi:
Nitto
Santapaola,
due
dei
suoi
uomini,
il
sindaco
andreottiano
Salvatore
Coco,
il
Presidente
della
Provincia
Giacomo
Sciuto,
il
deputato
regionale
socialdemocratico
Salvatore
Lo
Turco,
il
segretario
provinciale
del
Psdi
Antonello
Longo,
il
dirigente
del
servizio
sanitario
della
casa
circondariale
di
Catania
Franco
Guarnera,
il
medico
chirurgo
Raimondo
Bordonaro,
poi
arrestato
per
traffico
di
droga
ed
armi,
il
consigliere
comunale
Salvatore
Di
Stefano,
i
due
nipoti
del
cavaliere
del
lavoro
Carmelo
Costanzo
–
Giuseppe
e
Vincenzo
– e
il
genero
del
cavaliere
del
lavoro
Gaetano
Graci,
Placido
Filippo
Aiello.
Fu
un
colpo
insopportabile
per
una
città
in
cui
i
manovratori
non
venivano
mai
disturbati
e
godevano
di
protezione,
assistenza,
connivenza
e
illimitata
capacità
di
comando.
Come
il
cavaliere
Mario
Rendo,
il
quale
–
stando
alle
sue
famose
“cartelline”
sequestrate
nell’’83
a
Roma
–
poteva
tranquillamente
disporre
la
promozione
di
un
questore
o la
rimozione
di
un
colonnello
della
Guardia
di
finanza
fin
troppo
zelante,
così
come
poteva
“indirizzare”,
“promuovere”,
“ammorbidire”,
“gestire”
gli
affari
dentro
il
Palazzo
di
Giustizia
catanese.
I
Siciliani,
anno
I,
n.
1.
Cominciò
così
l’avventura
di
quel
periodico
coraggioso
e
battagliero.
Tra
gli
articoli,
il
più
scottante
recava
la
firma
di
Pippo
Fava,
un
articolo
entrato
nella
leggenda:
I
quattro
cavalieri
dell’Apocalisse
mafiosa
si
titolava.
I
cavalieri
erano
i
quattro
uomini
più
potenti
di
Catania
e
tra
i
più
potenti
dell’Italia
intera,
i
cavalieri
del
lavoro
Rendo,
Costanzo,
Graci
e
Finocchiaro.
Scriveva
Fava:
“Per
parlare
dei
cavalieri
di
Catania
e
per
capire
cosa
essi
effettivamente
siano,
protagonisti,
comparse,
o
semplicemente
innocui
e
spaventati
spettatori
della
grande
tragedia
mafiosa
che
sta
facendo
vacillare
la
Nazione,
bisogna
prima
avere
perfettamente
chiara
la
struttura
della
mafia
negli
anni
ottanta,
nei
suoi
tre
livelli:
gli
uccisori,
i
pensatori,
i
politici.
E
per
meglio
intendere
tutto
bisognerà
prima
capire
e
identificare
le
prede
della
mafia
nel
nostro
tempo.”
E la
preda
siamo
noi,
la
società.
Collegava
la
vicenda
dei
cavalieri
all’analisi
del
‘fattore
mafioso’
ed
al
mutamento
strategico
che
la
stessa
organizzazione
criminale
aveva
e
stava
attuando,
ossia
il
passaggio
dall’ambito
più
“agrario”
a
quello
del
commercio
di
droga:
“La
droga
ha
ammorbato
oramai
anche
alcune
istituzioni
fondamentali
della
nostra
società,
la
scuola,
lo
sport,
le
carceri,
gli
ospedali,
che
si
stanno
trasformando
in
luogo
di
autentico
contagio.
(…)
Da
dieci
anni
la
mafia
tiene
in
pugno
l’immenso
affare.
Dapprima
nelle
grandi
capitali
del
mercato,
che
erano
soprattutto
Beirut,
Il
Cairo,
Istambul,
la
grande
plaga
del
Medioriente,
Marsiglia,
New
York,
e
ora
definitivamente
anche
in
Sicilia.
L’isola
è
nel
cuore
del
Mediterraneo
e
quindi
passaggio
obbligato
per
il
cinquanta
per
cento
dei
traffici
dall’area
afroasiatica
verso
le
grandi
nazioni
dell’occidente.
Per
qualche
tempo
la
Sicilia
si è
limitata
a
controllare
questo
passaggio,
garantendo
punti
di
approdo
e
reimbarco,
sicurezza
e
rapidità
in
qualsiasi
operazione
ed
esigendo
in
cambio
una
tangente.
La
Fiat
fabbrica
automobili
e le
affida
ai
concessionari:
ebbene
la
mafia
pretende
una
tangente
dai
concessionari
perché
possano
svolgere
il
lavoro
senza
rischi,
ma
la
mafia
non
si
sogna
di
sostituirsi
alla
Fiat
per
fabbricare
automobili.
Per
anni,
incredibilmente,
la
mafia
si
comportò
allo
stesso
modo
per
la
droga.
(…)
Alla
fine
i
calcoli
furono
perfetti
e
abbaglianti,
e
l’ultima
ripugnanza
venne
vinta.
La
mafia
assunse
in
proprio
il
traffico,
anche
in
Sicilia,
e lo
fece
alla
sua
maniera,
eliminando
qualsiasi
concorrente
e
aggiudicandosi
tutto
il
ciclo
completo
del
mercato.”
Ora
questi
soldi
sporchi
vanno
riciclati
in
qualche
modo,
altrimenti
a
che
servono,
a
che
servono
tutti
gli
sforzi,
i
lavorii,
gli
omicidi?
E
per
riciclare
i
denari
della
droga
servono
uomini
pronti,
caparbi,
esperti
negli
affari.
Magari
capaci
di
mettere
su
qualche
banca,
come
Sindona
o il
senatore
Graziano
Verzotto,
l’uomo
di
Castelfranco
Veneto:
“Quante
di
queste
banche
furono
inventate
da
Sindona,
con
i
capitali
di
Sindona
e
che
Sindona
riceveva
da
imperscrutabili
fonti?
Un
incauto
giudice
milanese
dette
incarico
a un
famoso
commercialista,
l’avvocato
Ambrosoli,
di
venire
a
Palermo
per
indagare,
capire.
Era
un
professionista
principe
ma
molto
ingenuo.
Praticamente
lo
condannarono
a
morte.
Prima
ancora
che
potesse
venire
in
Sicilia
gli
fecero
la
pelle.”
Ma
le
banche
non
bastano.
Il
denaro
non
può
essere
nascosto,
ripulito
e
nascosto
in
eterno.
Deve
essere
reinvestito,
deve
produrre
altro
denaro.
Pulito
fin
dall’origine,
questa
volta:
“Accanto
alle
banche
ecco
dunque
le
grandi
imprese
industriali
e
commerciali
che,
opportunamente,
saggiamente,
prudentemente,
garbatamente,
silenziosamente,
amabilmente
finanziate,
possono
riuscire
ad
impiegare
quei
capitali,
trasformandoli
in
opere
di
sicuro
valore
economico.
E
non
è
detto
che
non
siano
opere
di
mirabile
importanza
e
perfezione
civile:
un
moderno
ospedale,
un
carcere
modello,
una
città-giardino,
un
complesso
sportivo,
persino
una
nuova
chiesa.
E
qui
sul
palcoscenico
avanzano,
quasi
a
passo
di
danza,
i
quattro
cavalieri
catanesi.
Dopo
quello
che
è
accaduto,
vien
facile
perfino
la
citazione:
‘I
quattro
cavalieri
dell’Apocalisse’.”
Nell’aprile
dello
stesso
anno,
veniva
pubblicato
un
altro
articolo
diventato
famosissimo:
Sindrome
Catania,
in
cui
la
città
etnea
era
inquadrata
ed
anatomizzata
nei
suoi
apporti
culturali,
nelle
sue
capacità
rappresentative
e
nei
suoi
rapporti
con
i
potentati
mafiosi:
“Per
sindrome
Catania
intendo
quello
stato
d’animo
per
il
quale
da
qualche
anno
a
questa
parte,
ovunque
in
Italia,
il
siciliano
viene
innanzitutto
ritenuto
catanese.
Ciò
perché
qualunque
cosa
sia
accaduta
in
questi
ultimi
tempi
in
Sicilia,
essa
è
accaduta
a
Catania
o
l’hanno
fatta
i
catanesi.
Sono
catanesi
i
cavalieri
del
lavoro
che
hanno
fatto
impazzire
mafiologhi
ed
economisti
di
mezza
Europa,
che
costruiscono
ognuno
in
ogni
parte
della
Sicilia
e
dell’Europa,
dell’Africa,
dell’America
del
Sud,
autostrade,
dighe,
ponti,
grattacieli,
chiese,
centrali
nucleari,
chiodi
e
locomotive.
E’
catanese
l’uomo
che
viene
braccato
sotto
l’accusa
di
avere
organizzato
e
personalmente
eseguito
con
un
kalashnikoff
l’assassinio
del
generale
dalla
Chiesa.
è
catanese
la
Procura
Generale
sottoposta
a
inchiesta
dal
Consiglio
Superiore
della
Magistratura
per
accertare
le
clamorose
indagini
su
evasioni
fiscali
e
collusioni
mafiose…
è
catanese
l’unico
Teatro
Stabile
del
Sud:
nemmeno
Napoli
e
Palermo,
che
hanno
maestà
e
presupponenza
di
autentiche
capitali,
ci
sono
riuscite.
E’
catanese
altresì
quel
tipo
di
siciliano
che
altri
italiani
ritengono
il
più
perfettamente
siciliano,
che
non
rassomiglia
ad
alcun
altro
siciliano,
che
non
è
triste,
né
superbo,
né
tragico,
né
lamentoso,
ma
sempre
allegro,
sempre
sprezzante,
sfottente,
ridente.
Catanese
è
infine
il
dialetto
siciliano
che
gli
altri
italiani
conoscono,
lingua
parlata
da
Giovanni
Grasso,
Angelo
Musco,
Turi
Ferro,
una
maniera
di
parlare
nella
quale
non
si
capisce
mai
se
il
catanese
stia
parlando
sul
serio
o da
un
momento
all’altro
ti
scoppia
a
ridere
in
faccia…
Dicono
che
Catania,
onde
potersi
confrontare
con
Palermo,
alla
fine
si
sia
inventata
la
mafia.
Per
entrare
da
protagonista
negli
affari
giganteschi
della
droga,
per
proteggere
politicamente
e
giudizialmente
i
crescenti
imperi
finanziari,
e
infine
per
potere
eliminare
chiunque
(leggi
dalla
Chiesa)
avesse
in
animo
di
opporsi.
La
realtà,
probabilmente,
è
un’altra,
la
realtà
è
che
il
catanese
è
diverso
(ecco
la
sindrome)
da
ogni
altro
italiano
anche
nella
criminalità,
anzi
nella
genesi
stessa
della
criminalità.”
Nel
numero
7
del
luglio
1983,
apparve
una
insolita
e
intrigante
inchiesta:
I
dieci
più
potenti
della
Sicilia.
Per
Fava
si
trattava
semplicemente
di
una
“scoperta”
più
che
di
un’indagine.
Era
interessato
ad
indagare,
quasi
antropologicamente,
le
qualità
umane
– di
cui
pochi
uomini
dispongono
–
che
permettono
di
comandare
su
tutti
gli
altri.
Interessante,
ed
attualissimo,
è
quanto
mette
in
bocca
al
giornalista:
“Amo
la
mia
professione
come
si
può
amare
carnalmente
una
donna
splendida
e un
po’
bagascia,
che
ti
tradisce
con
tutti
e di
cui
però
non
riesci
a
farne
a
meno.
In
questa
società
comanda
soprattutto
chi
ha
la
possibilità
di
convincere
le
persone
ad
avere
quei
tali
pensieri
sul
mondo
e
quelle
tali
idee
sulla
vita.
In
questa
società
il
padrone
è
colui
il
quale
ha
nelle
mani
i
mass-media,
chi
possiede
o
può
utilizzare
gli
strumenti
dell’informazione,
la
televisione,
la
radio,
i
giornali,
poiché
tu
racconti
una
cosa
e
cinquantamila,
cinquecentomila
o
cinque
milioni
di
persone
ti
ascoltano
e
alla
fine
tu
avrai
cominciato
a
modificare
i
pensieri
di
costoro.
(…)
Voglio
dire
che
la
vera
forza
consiste
nel
numero
di
persone
che
ti
sono
devote,
e
quindi
si
fonda
sull’amicizia,
la
riconoscenza,
la
gentilezza.”
Questi
brevissimi
stralci
di
articoli
danno
il
senso
della
sua
attività.
Ma
Fava
era
tanto
altro
ancora.
A
tutto
questo,
infatti,
va
aggiunta
una
padronanza
eclettica
degli
strumenti
comunicativi
decisamente
non
comuni.
Sicché
tutto
il
repertorio
del
Fava
drammaturgo,
romanziere,
saggista,
giornalista
e
cronista
trovava
modo
di
manifestarsi
nella
sua
attività
di
direzione.
Senza
paure,
senza
pause.
Tutte
le
armi
a
sua
disposizione,
dal
punto
di
vista
tecnico-letterario,
venivano
impiegate
con
vivacità
ed
estroversione,
ma
soprattutto
con
libertà.
Tra
il
1967
e il
1969
pubblicò
sulla
“terza
pagina”
de
La
Sicilia
una
serie
di
racconti,
che
colpirono
“per
la
violenza
e la
bellezza
moderna
dello
stile
e
dei
temi”
e
che
poi
verranno
raccolti
in
un
volume
dal
titolo
Pagine
(1969).
Fu
nel
periodo
di
impegno
ad
Espresso
sera
che
cominciò
a
scrivere
di
teatro.
Dapprima
con
Cronaca
di
un
uomo
(1966),
opera
vincitrice
del
premio
Vallecorsi,
portata
in
scena
da
Romano
Bernardi
con
Leo
Gullotta,
Aldo
Puglisi,
Tuccio
Musumeci
e
Fioretta
Mari.
Del
1970
è
La
violenza,
che
ottenne
il
Premio
IDI
e
venne
portata
in
tournée
in
tutta
Italia,
dopo
la
prima
al
Teatro
Stabile
di
Catania.
Da
quest’opera
–
com’è
noto
–
due
anni
dopo
venne
tratta
una
trasposizione
cinematografica
per
la
regia
di
Florestano
Vancini
e la
partecipazioni
di
grandissimi
attori
come
Michele
Abruzzo,
Riccardo
Cucciola,
Turi
Ferro,
Aldo
Giuffrè,
Ciccio
Ingrassia,
Mariangela
Melato,
Gastone
Moschin,
Enrico
Maria
Salerno.
L’anno
successivo,
lo
Stabile
mise
in
scena
un
nuovo
testo
di
Fava:
Il
Proboviro,
un
apologo
grottesco
ed
amaro
sul
degrado
civile,
morale
e
politico
di
una
città
meridionale.
Il
testo
fu
il
frutto
di
quelle
inchieste
giornalistiche
che
avevano
prodotto,
nel
1970,
il
libro-denuncia
Processo
alla
Sicilia.
Interprete
della
pièce
fu
un
grandissimo
Turi
Ferro,
affiancato
dalla
validissima
maschera
di
Tuccio
Musumeci.
Nella
stagione
1974-75
il
Teatro
Stabile
etneo
presentò
un
altro
testo
di
Fava,
contenente
accuse
e
riferimenti
ancor
più
polemici
contro
la
‘casta’
dei
giornalisti:
Bello
bellissimo.
E’
un
atto
d’accusa
implacabile
contro
il
consumismo
cieco,
l’egoismo
spicciolo
che
corrode
animi
e
sentimenti,
che
sostituisce
alla
comprensione,
alla
solidarietà
l’ambiguo
e
vacuo
desiderio
di
emergere,
arrivare,
scavalcando
il
prossimo,
schiacciandolo,
usandolo
come
infimo
strumento
per
la
realizzazione
delle
proprie
brame.
L’anno
1975
è
anche
quello
della
pubblicazione,
da
Bompiani,
del
romanzo
Gente
di
rispetto,
da
cui
verrà
tratto
un
film
per
la
regia
di
Luigi
Zampa,
con
Franco
Nero,
James
Mason
e
Jennifer
O’
Neil.
La
stagione
1976-77
vide
il
remake,
nell’inconsueto
palcoscenico
del
Teatro
Greco
di
Taormina,
de
Il
Proboviro,
ribattezzata
Opera
buffa,
mentre
nello
stesso
anno
1977,
la
casa
editrice
Cappelli
pubblicava
il
suo
secondo
romanzo,
Prima
che
vi
uccidano.
Nella
stagione
1979-80
venne
rappresentata
l’opera
Delirio,
un
lavoro
dove
si
sente
il
soffio
della
Sicilia
pirandelliana.
Ma
fu
il
1980
l’anno
delle
svolte.
Ad
Espresso
sera
sarebbe
dovuto
arrivare
un
nuovo
direttore.
Ci
si
aspettava
che
fosse
lui
il
nuovo
direttore
della
seconda
testata
catanese.
Ma
non
fu
così.
Troppo
indipendente,
troppo
poco
riverente
ed
acquiescente
verso
i
potenti.
L’editore
Mario
Ciancio
Sanfilippo
gli
preferì
qualcun
altro.
Qualcuno
che
non
rompeva
le
uova
nel
paniere
delle
intricate
e
remunerative
relazioni
tra
mondo
degli
affari
(puliti
o
sporchi),
mass
media
e
politica.
Fava
andò
via.
Si
trasferì
temporaneamente
a
Roma,
dove
condusse
Voi
e io,
una
trasmissione
radiofonica
su
Radiorai.
Da
qui
continuò
a
scrivere
collaborando
con
Il
Tempo
ed
Il
Corriere
della
sera,
e
soprattutto
impegnandosi
nella
sceneggiatura
del
film
Palermo
oder
Wolfsburg,
regista
Werner
Schroeter,
tratto
dal
suo
romanzo,
pubblicato
nello
stesso
1980,
Passione
di
Michele.
Il
film
vinse
l’Orso
d’Oro
a
Berlino,
ma
in
Italia
non
verrà
mai
proiettato.
Nel
marzo
del
1981
fu
rappresentata
l’opera
Foemina
ridens,
spettacolo
che
riscosse
un
inatteso
successo...
Di
questa
pièce
Fava
fu,
per
la
prima
volta,
anche
il
regista.
Il 9
novembre
1983
(due
mesi
prima
della
morte),
il
Teatro
Stabile
di
Catania
inaugurò
la
stagione
teatrale
con
la
messa
in
scena
dell’
Ultima
violenza,
un
dramma
intricato,
“dove
sono
chiamati
a
comparire
i
vari
cavalieri
del
lavoro,
gli
imprenditori,
i
politici,
i
procuratori,
i
saccheggiatori
della
città
e i
monopolizzatori
degli
appalti
regionali,
tutti
personaggi
invulnerabili
e
compromessi".
L’opera
venne
messa
in
scena
grazie
alla
regia
di
Lamberto
Puggelli,
con
Turi
Ferro
ed
Ennio
Balbo
nella
parte
dei
due
protagonisti-antagonisti,
rispettivamente
nel
ruolo
del
potente,
ambiguo
e
inquietante
avvocato
Bellolampo
e
del
procuratore,
suo
avversario.
Gli
altri
attori
furono
Vincenzo
Ferro,
presidente
del
tribunale
speciale,
Ida
Carrara,
nei
panni
della
moglie
del
commissario,
Maria
Tolu,
madre
del
carabiniere
ucciso.
E
poi,
Miko
Magistro,
Giacomo
Furia,
Marcello
Perracchio,
Leonardo
Marino
ed
altri
ancora.
Lo
spettacolo
fu
applauditissimo.
Dopo
l’omicidio,
verrà
portato
in
tournée,
da
gennaio
a
maggio
1985,
in
tutta
Italia.
Nell’anno
dell’uccisione,
il
1984,
la
cooperativa
Alfa
propose
Mafia-parole
e
suoni,
un’opera
già
messa
in
scena
nel
1983,
ma
ripresa
dopo
la
morte
dell’autore.
Nello
stesso
anno,
la
casa
editrice
Editori
Riuniti
ripubblicò
il
libro-inchiesta
Mafia.
Da
Giuliano
a
Dalla
Chiesa,
già
dato
alle
stampe
nel
1982.
Questo
volumetto,
nella
seconda
edizione
del
1987
sarà
arricchito
di
una
postfazione,
a
cura
della
redazione
de
I
Siciliani,
dal
titolo
Cronaca
di
16
mesi
(3
settembre
1982-5
gennaio
1984).
Nel
maggio
1988
venne
presentata,
a
Palazzo
Bruca
a
Catania,
l’edizione
in
quattro
volumi
del
Teatro
di
Fava,
contenente
anche
le
opere
inedite
o
mai
rappresentate:
La
rivoluzione
(incompiuta),
Sinfonie
d’amore,
America
America,
Dialoghi
futuri
imminenti,
Il
Vangelo
secondo
Giuda,
Paradigma,
L’uomo
del
Nord.
Tra
questi,
Dialoghi
futuri
imminenti
contiene
molti
punti
di
contatto
con
Ultima
violenza.
E’
la
fase
di
istruttoria
di
un
processo,
durante
gli
anni
del
terrorismo.
E’
l’affannosa
ricerca
del
perché
di
tanta
violenza,
della
violenza
sull’uomo
da
parte
dell’uomo,
dell’accusato
e
dell’accusatore.
Sinfonie
d’amore,
invece,
testo
scritto
da
Fava
nel
1979,
venne
portato
sulle
scene
dalla
Cooperativa
Alfa.
La
‘prima’
si
tenne
il
28
febbraio
1987
e
riproposta
nella
stagione
1988-89.
Si
tratta
di
due
stravaganti
‘sinfonie’,
d’amore
e
farsa,
due
atti
unici:
Andante
e
Allegretto.
Una
sorta
di
Beckett
siciliano,
con
tanto
di
mugugni,
risate,
odori,
deliri
e
suoni
più
o
meno
frastornanti.
La
regia
fu
di
Orazio
Torrisi,
tra
gli
interpreti
Pippo
Pattavina,
Guia
Jelo
e
Miko
Magistro.
Per
concludere,
ricordiamo
che
il
28
dicembre
1983
rilasciò
l’ultima
intervista
a
Enzo
Biagi
per
il
programma
Film-story,
trasmessa
l’indomani
da
Retequattro.
E’
un’intervista
di
un’attualità
disarmante,
che
permette,
semmai
ce
fosse
bosgno,
di
mettere
a
fuoco
ancora
una
volta
lo
straordinario
spessore
intellettuale
e il
grande
fiuto
giornalistico
di
Fava.
Dunque
siamo
a
sette
giorni
dal
suo
assassinio
e
negli
studi
di
Retequattro,
ad
una
precisa
domanda
di
Biagi
su
cosa
debba
intendersi
con
il
termine
mafia,
su
cosa
sia
effettivamente
la
mafia,
il
giornalista
catanese
rispose:
“Mi
rendo
conto
che
c’è
un’enorme
confusione
sul
problema
della
mafia.
Questo
signore
(Fava
si
riferiva
ad
un
precedente
intervento,
nda)
ha
avuto
a
che
fare
con
scassapagghiara,
delinquenti
da
tre
soldi.
I
mafiosi
veri
stanno
in
ben
altri
luoghi,
in
ben
altre
assemblee;
i
mafiosi
stanno
in
Parlamento,
a
volte
sono
ministri,
a
volte
sono
banchieri,
sono
quelli
ai
vertici
della
Nazione.
Se
non
si
chiarisce
questo
equivoco
di
fondo…
Insomma,
non
si
può
definire
mafioso
il
piccolo
delinquente
che
ti
impone
la
piccola
taglia
sulla
tua
piccola
attività:
questa
è
roba
da
piccola
criminalità
che
ormai
abita
in
tutte
le
città
italiane
ed
europee.
Il
problema
della
mafia
è
molto
più
tragico
ed
importante,
è un
problema
di
vertice
nella
gestione
della
Nazione
che
rischia
di
portare
alla
rovina
e al
decadimento
culturale
l’Italia.”
E
alla
successiva
questione
posta
dal
conduttore
se
la
mafia
attuale
fosse
uguale
o
diversa
rispetto
alla
mafia
del
passato,
Fava
argomentò
lucidamente
così:
“Oggi
i
mafiosi
sono…
non
sono
quelli
che
ammazzano,
quelli
sono
esecutori.
Anche
al
massimo
livello.
Non
so,
si
fanno
i
nomi
– io
non
li
conosco
– i
nomi
dei
fratelli
Greco.
Si
dice
che
siano
i
padroni
della
mafia,
quelli
delle
cosche
vincenti,
i
vicerè.
Non
è
vero,
loro
sono
degli
esecutori,
sono
nell’organizzazione
e
fanno
quello
che
gli
altri…
Non
lo
so,
io
adesso
parlo
di
persone
incensurate,
quindi
per
quello
che
si
presume,
secondo
l’accusa…
Ci
sono
degli
altri
a
fianco
di
loro,
ci
sono
degli
altri
che
contano
infinitamente
di
più.
Cioè,
i
fratelli
greco,
lasciando
stare
se
siano
grandi
malviventi
o
grandi
innocenti,
perché
questo
lo
stabilirà
il
magistrato,
non
potrebbero
essere
dei
mafiosi
se
non
ci
fosse
dietro
qualcun
altro
che
consentisse
loro
di
esserlo.”
Questo,
ventisette
anni
fa.