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N. 79 - Luglio 2014 (CX)

la memoria non va gettata nel buio
Il dramma delle foibe

di Timothy Dissegna

 

Ci sono molte storie, in questo paese, che dormono sotto una spessa coltre di polvere. Abbandonate nel dimenticatoio dalla gran parte delle persone, pronte a scacciarne il ricordo con un veloce “Ma sì, lo sanno tutti...”.

 

Però, alla fine, nessuno sa bene di cosa si sta parlando. E tutto cade di nuovo il silenzio.

 

Di solito, di fronte a molte di queste storie, ci sono due tipi di persone: i titubanti e gli indignati, e la storia delle foibe non fa eccezione.

 

Le origini di questo capitolo atroce del nostro Paese si trovano nel ventennio di sangue e repressione che il fascismo portò con sé per imporre “l’orgoglio italiano” verso gli stranieri che vivevano in Italia, soprattutto nelle zone di confine.

 

Se poi quelli erano “slavs” (come si dice in friulano), ossia provenienti dalla penisola balcanica, il loro destino era segnato.

 

O si piegavano sotto il manganello dei squadristi, diventato italiani e rifiutando la loro identità precedente, oppure le torture proseguivano in veri e propri campi di sterminio destinati a far “tabula rasa” di uomini, donne e bambini.

 

Se venivano trovati dentro i nostri confini, gli ordini erano chiari: o sei italiano o sei morto.

 

Paesi vicino al confine sloveno, come Gonars, portano ancora i segni di quei rastrellamenti abominevoli e non è quindi dal nulla che, dall’altra parte del confine, le truppe di Tito avessero un vero e proprio odio per i nostri connazionali rimasti nelle regioni della Dalmazia e dell’Istria, diventate jugoslave dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.

 

Sangue su sangue, versato come bestie al macello per ideologie astruse e irreali.

 

Per anni, motivi d'interesse politico hanno strumentalizzato questa drammatica vicenda, dove da una parte il partito comunista negava le atrocità che avvenivano sul nostro Carso, mentre i gruppi neo-fascisti le usavano come “contropartita” per bilanciare l'orribile scempio dei campi di concentramento nella Seconda guerra mondiale.

 

Come se dire “quei brutti e sporchi di slavi comunisti erano peggio di Hitler, in fondo” servisse come “deterrente” per la coscienza.

 

Ma il sangue, da un parte e dall'altra, non si smacchia così facilmente.

 

La realtà è che migliaia di persone furono rastrellate dalle loro case, in questa terra di confine abitata da popoli diversissimi tra loro, e gettati barbaramente nelle profonde cavità del Carso, uccisi prima o addirittura lasciati marcire lì, in preda agli stenti.

 

La loro colpa: essere italiani o non appoggiare semplicemente il partito comunista jugoslavo.

 

Oggi molti italiani, ma soprattutto friulani, isontini, triestini, conoscono solo marginalmente quel massacro che le truppe del dittatore Tito compirono (anche contro i loro stessi connazionali che si opponevano alla dittatura) nella Venezia Giulia, nell'Istria e nella Dalmazia, sullo sfondo di una Trieste divisa in due tra jugoslavi e americani e liberata solo anni dopo.

 

Per questo devono essere i giovani a tener vivo il ricordo di quei tragici momenti. Non per puntare il dito contro i nostri “vicini di casa” né per dire che sono migliori di loro. Sono discorsi che non significano né portano a niente.

 

La memoria va mantenuta per non ricadere in sbagli simili, come purtroppo è successo vent'anni fa, sempre in Jugoslavia.

 

Bisogna conoscere il passato dei nostri nonni, per poter comprendere il presente e disegnare un nuovo futuro, senza macchiarlo di nuovo di sangue innocente.



 

 

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