N. 1 - Gennaio 2008
(XXXII)
MEDIORIENTE
UNA PACE E’ POSSIBILE?
di Giulia Pegoraro
Il 13 novembre
dell’anno appena passato, si è conclusa, a Verona,
“Inchiostro”, fiera dei libri e della piccola
editoria, tenutasi alla Gran Guardia. L’ultimo
giorno della rassegna ha attirato la mia attenzione
un incontro riguardante la pace in Medioriente con
relatori, il giornalista del Tg5 Toni Capuozzo e
Marco Pavanoni, docente di Storia e Istituzioni di
Israele all’università di Trieste.
Di certo non potevo
mancare all’appuntamento e il pomeriggio mi sono recata
all’auditorium con i miei strumenti di battaglia, pronta
ad annotare i concetti salienti!
Il dibattito, ha assunto
un’ottica pro-israeliana, ma nel complesso è stato
corretto e utile nell’ampliare alcuni aspetti della
questione.
I due relatori, seppur con
sfumature diverse, sono giunti alla medesima
conclusione, assai realistica. Al momento la pace
risulta essere un concetto astratto ed estremamente
utopico. Di fatto oggi la pace a cui si può puntare è un
momentaneo cessate il fuoco, che dovrebbe porsi come
trampolino di lancio per una sorta di Guerra Fredda.
Ossia uno stato di tensione in cui l’eventuale
predominio di un Paese sull’altro si esplicherebbe in
forme non violente. “Ogni giorno che passa”, spiega
Capuozzo, “la prospettiva di una pace vera si
assottiglia sempre di più. Ci si deve accontentare di
raggiungere i suoi surrogati”.
Sono parole durissime, che
provengono da uno dei più noti inviati di guerra
italiani. Parole durissime rivolte all’amministrazione
Bush che, dopo l’11 settembre non è stato in grado di
affrontare la questione con un minimo di progettualità
che potesse contenere l’impatto mondiale dell’attentato
terroristico, con una conseguente radicalizzazione
religiosa in quello che era lo stato più laico dell’area
mediorientale; rivolte contro Israele per i gravissimi
errori (anche se il termine mi è sembrato eccessivamente
leggero) di cui si è macchiato; contro l’Europa,
tacciata di immobilismo e di scarsa pragmaticità nella
gestione dei sussidi, soprattutto a livello di
erogazione, in quanto sono offerte poche garanzie su chi
ne usufruisce; contro i governi palestinesi che, per
ricevere aiuti umanitari, hanno interesse a mantenere
stabile il numero di persone all’interno dei campi
profughi.
E, in questa trincea, due
popoli che lottano per accaparrarsi il proprio spazio
vitale. Le offerte di compromesso sono e sono state
svariate. Secondo il giornalista il problema non sta
tanto nella soluzione, quanto nell’interlocutore
palestinese, il quale, secondo la sua opinione, persegue
obiettivi diversi da quelli israeliani.
Nella Conferenza di
Ginevra, tenutasi nel 2003, la ridefinizione dei confini
e i meccanismi di ricongiungimento familiare sono stati
studiati fin nei minimi dettagli. Ma la dirigenza
palestinese respinge quest’ipotesi, pretendendo il
ritorno in patria anche delle successive generazioni
palestinesi. Una richiesta a mio avviso non del tutto
insensata dal momento che, all’atto della nascita di
Israele, le porte furono lasciate aperte, mentre più di
700.00 palestinesi (ma le stime potrebbero essere più
alte) furono costretti all’esodo. “E’ un doloroso
compromesso”, afferma di nuovo, “ma a quest’ora la
Palestina potrebbe essere uno stato indipendente se non
avesse fatto scelte autolesioniste e non avesse avanzato
richieste improponibili”. Un doloroso compromesso.
Sarebbe stato infatti quello che in Italia è stata
definita una “vittoria mutilata”.
Non era stato previsto,
purtroppo, il contraddittorio, e quando una donna, che
ha collaborato sul campo con una Ong palestinese, si è
permessa di controbattere e porre domande, è stata
tacciata, dalla platea, di razzismo, le è stato dato
della deficiente, le è stato detto di informarsi e di
fronte alla descrizione delle sofferenze del popolo
palestinese si sono levati risolini…E’ stato uno
spettacolo orribile, di un’ignoranza e volgarità che mi
hanno lasciata di stucco, mentre i due relatori
cercavano di riprendere in mano la situazione e
rispondere alle domande poste.
Se gli elementi
imprescindibili della pace dovrebbero essere “il
doloroso compromesso” e il “reciproco ascolto delle
ragioni dell’altro” quest’episodio si tinge di amarezza,
dal momento che nemmeno in una cultura democratica si
riesce ad intavolare una discussione degna di essere
chiamata tale.
Ho avuto però la fortuna
di assistere ad un altro illuminante incontro avvenuto
al Festival della Letteratura di Mantova, il 6
settembre, con relatori Robert Fisk, inviato del
giornale inglese The Indipendent e Amira Hass,
giornalista israeliana di Ha’Aretz, la quale considera
la questione mediorientale attraverso una diversa
prospettiva. Ritiene infatti che l’autorità israeliana
consideri la guerra come una soluzione definitiva, dal
momento che la paura del nemico comune, tiene unita una
società che rischia da un momento all’altro di
disgregarsi.
Se si arrivasse ad una
pace degna di essere chiamata col suo nome, gli
israeliani dovrebbero concedere ai palestinesi i
medesimi diritti politici e civili e, soprattutto
verrebbe a meno la supremazia militare di Israele nei
confronti del mondo arabo. Si ricordi come Israele,
tutt’oggi, sia l’unico stato a non essere monitorato
riguardo la proliferazione delle armi nucleari, con il
beneplacito statunitense.
Persino dell’accordo di
Ginevra, dà una lettura diversa. Il fallimento, a suo
avviso, è stato dovuto al fatto che le allora classi
dirigenti, avevano ormai perso il sostegno della base.
In secondo luogo, le misure adottate di fatto sarebbero
andate a sostenere precisi settori della società
israeliana. Nonostante il coraggio dimostrato dalle due
parti, nel tentativo di trovare un compromesso, la
mancanza di una definizione precisa degli obiettivi, ha
portato ad interpretazioni elastiche del contenuto
stesso dell’accordo e soprattutto non si è tenuto conto
del fatto che Israele e Palestina non sono parti
equivalenti a livello di potere e stabilità politica,
perché qui si tratta di porre fine ad una subdola
colonizzazione che avviene nelle forme più diverse.
Questa è una breve
sintesi, una goccia di un tema che riempie le pagine di
interi libri.
Non sono credente o,
perlomeno, non nell’accezione comune, ma non ho potuto
fare a meno di riprendere la famosa frase del Vangelo
“pace in terra agli uomini di buona volontà”...
Io ho voluto soffermarmi
su quella che potrebbe essere la sua attualizzazione, in
un contesto così lacerato. La pace come un cuore
pulsante che rischia di affogare in un mare di sangue.
La pace come qualcosa di
concreto che scotta a tenerla in mano.
è un
eufemismo dire che il cammino verso la pace è in salita.
In questo cammino, in questa trincea si è attorniati da
rabbia, dolore, odio, risentimento covati da
generazioni, che ustionano oltre la pelle, fin nelle
ossa. È un’umanità lacerata, quella trafitta dalla
guerra. E chi nasce nella violenza e nella precarietà, è
difficile che veda altre prospettive, se non la violenza
e la precarietà stesse.
E questi uomini di buona
volontà? Dove stanno? Chi sono? Come sempre sono coloro
di cui si parla meno. Sono le operaie del formicaio.
Quelle che cercano, anche oltre eventuali barriere
culturali, di costruire prospettive diverse. Perché
purtroppo non sono sufficienti gli aiuti contingenti,
relativi alla sopravvivenza delle persone. È ricostruire
il concetto di futuro e riuscire a darne un senso, la
vera sfida per la pace. Fosse anche solo un’iniziativa
di quartiere.
La pace non è
un’astrazione: è una forma mentis, un modo di
pensare, un modo di agire, un modo di essere, incarnato
da chi è deciso ad ampliare le proprie e altrui
prospettive di vita, incarnato da chi, in ogni contesto,
cerca un senso per se stesso e per gli altri. |