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L’ALTRA CRISI DEL TRECENTO
II / LA CARESTIA SECONDO I CRONISTI
TOSCANI
di Matteo Buzzurro
«La crisi del Trecento significa la fine di un
lungo, lunghissimo ciclo di crescita di un mondo
come quello medievale che per molti secoli era stato
un mondo in straordinaria crescita, di innovazione,
luce e ottimismo; secoli di crescita avevano fatto
dell’Europa un luogo di concentrazione delle
innovazioni, delle idee e delle ambizioni».
Con queste parole lo storico Alessandro Barbero,
nella lectio magistralis all’inaugurazione
dell’Anno accademico presso l’Università degli Studi
della Repubblica di San Marino, inquadrava con
autentica lucidità la crisi del Trecento e
basterebbero altresì queste parole a inquadrare e a
esaurire il nostro discorso su un secolo così
complesso e in profondo cambiamento.
L’Europa, dall’anno 1000 alla seconda metà del
Duecento era un continente in forte espansione sia
demografica, con un innalzamento deciso della
popolazione ma anche tecnologica e finanziaria; le
nuove metodologie di coltivazione come la rotazione
dei campi e l’espansione del mercato del denaro
avevano diretto l’Europa verso un’esplosione di
ricchezza e di commercio. La ricchezza dei raccolti
rese molti alimenti, un tempo inaccessibili, alla
portata di tutti ma intorno al secondo quarto del
Duecento, con un’espansione demografica
inarrestabile, la disponibilità di alcuni alimenti
divenne sempre più difficile e l’espansione agraria
cominciò ad avere un brusco rallentamento
restringendo l’equilibrio alimentare.
Il precario equilibrio tra aumento della popolazione
e disponibilità degli alimenti portò, insieme al
cambiamento climatico, a un deterioramento della
stabilità che all’inizio del Trecento sfociò in una
profonda quanto inesorabile carestia. In questo
articolo, prendendo come trampolino di lancio
l’elaborato sui cambiamenti climatici del mese
scorso, si cercherà di indagare, attraverso le
cronache medievali, della crisi alimentare e sociale
che colpì il centro Italia nella prima metà del
Trecento, facendo da cassa di risonanza per una
crisi più diffusa che sarebbe stata di lì a poco
universale.
Il primo fenomeno che diede il là alla situazione di
crollo avvenne nel 1316 quando Firenze, insieme a
molte altre città europee, fu colpita da «grande
pestilentia di mortalità & di fame… E ‘l caro fu sì
grande di vino, & di tutte vittuvaglie, che se non
fosse che di Cicilia, e di Puglia per li mercanti vi
si mandò per mare per lo guadagno, tutti moriano di
fame». La situazione apparve chiara, il fenomeno
del rincaro partì dalle regioni più a nord dove si
fece sentire in maniera pesante il cambiamento
climatico che impoverì prima il raccolto e poi ogni
genere alimentare conseguente.
Passato un trentennio, dall’attestazione del 1316 la
situazione degenerò in una serie di sciagurati e
alquanto catastrofici eventi; tra il 1346 e il 1347
a causa di una serie di raccolti andati a male,
dell’eccessiva piovosità e a un abbassamento
improvviso delle temperature si arrivò al disastro.
La cattiva resa del
grano portò il pane, elemento accessibile ai più, a
scarseggiare facendo rimanere una grande fetta di
popolazione senza cibo: «nel detto anno 1346,
cominciandosi la cagione del mese di ottobre, e di
novembre 1345, al tempo delle sementa, furono
soverchie piove, sì che corruppono la sementa…»
con queste parole il cronista Giovanni Villlani
illustrò una crisi alimentare di immense proporzioni
che portò «molta
gente morio di fame, e a mangiavansi l’herbi
salvatiche come se fosse stato pane. E per questa
cagione nessuno re, né Signore facea guerra a nessun
altro».
La scarsità del bene
primario portò il pane, alimento alla portata di
tutti, a essere un bene costoso tanto da valere «cinque
libre il quartengo del grano del mese di marzo e
aprile. E siccome fu caro grano in quest’anno, così
fu cara ogni altra cosa da vivere, cioè vino, e
carne, e foglia, e le guadagnarie tutte perdute».
Il rincaro del grano innescò una reazione a catena;
il mangime di molti animali provenendo dallo stesso
divenne di difficile reperimento costringendo a un
aumento sconsiderato della carne, alimento
accessibile per pochi, e del vino che risultò
profondamente rincarato tanto da costringere la
Toscana, regione trainante, a imporre prezzi che ne
rendevano difficile la vendita. Il rincaro dei
prezzi portò anche a un impoverimento del tessuto
sociale che scaturì in indebitamenti sempre più
frequenti tanto da costringere i comuni italiani a
intervenire in maniera massiccia sul fatto: «… il
Comune provide e fece dicreto adì 13 di Marzo, che
niuno potesse essere preso per niuno debito di
fiorini cento d’oro, o da indi in giuso infino a
calende di agosto vegnente, salvo all’ufficiale
della mercanzia da 25 lire in su».
Oltre all’indebitamento il comune di Firenze
intervenne anche per evitare la speculazione nella
vendita imponendo ai commercianti che «niuno
potesse vendere lo stajo [recipiente di 24,36
litri] di grano più di soldi quaranta».
Secondo la cronaca del Villani, preziosissima fonte
per leggere questa crisi, la carestia ebbe risvolti
importanti anche per la politica carceraria; la
scarsità di vettovagliamento implicò anche un taglio
repentino del cibo per i detenuti, infatti il «Comune
fece offerta di tutti i prigioni, ch’erano nelle
carcere del Comune, che rihavessono pace da loro
nimici, e stati in prigione da Calende di Febrajo
adietro». La scarsità di cibo divenne un vero
problema per i detenuti e fu stimato che «ogni dì
morivano nelle carcere due o tre prigioni»; nel
Medioevo il carcere non era, come oggi, un luogo di
detenzione permanente ma doveva servire come luogo
di transito per il rilascio dietro riscatto, come
accadde a San Francesco dopo la battaglia tra
Perugia e Assisi, o verso soluzioni più drastiche
come punizioni corporali o condanne capitali.
La scarsità di grano
portò anche a sconfinamenti e tafferugli come nella
storia delle ruberie sul Monte Albano a opera del
Signore di Volterra messer Ottaviano Belforti che
causò lunghi tafferugli che culminarono con il
saccheggio di Radicondoli. A Pisa, invece, per la
mancanza di cibo i forestieri e i poveri furono
costretti a mangiare l’erba incolta tanto che
«non rimase in Pisa erba viva, che tutta si mangiò
all’ortica».
La crisi alimentare come anche quella climatica,
vista il mese scorso, e quella epidemiologica che di
lì a poco avrebbe sconvolto l’intero continente
europeo, portarono la popolazione a dover
fronteggiare un nuovo “mostro”, il cambiamento, un
genere di mostro che non lascia moltissime chance se
non quelle di soccombere o resistere.
Riferimenti bibliografici:
Annales Senenses di Nerio Donati filio
in Rerum Italicarum Scriptores, tomo XVI, a cura di
Ludovico Antonio Muratori, Forni, Bologna 1978.
Chronicon Senense di Andrea Dei e Angelo Tura
in Rerum Italicarum Scriptores, tomo XVI, a cura di
Ludovico Antonio Muratori, Forni, Bologna 1978.
Historie Fiorentine
di Giovanni Villani in Rerum Italicarum Scriptores,
tomo XIII, a cura di Ludovico Antonio Muratori,
Forni, Bologna 1978.
M. Montanari, Alimentazione e cultura nel
Medioevo, Laterza, Roma 2019.
M. Montanari, L’Europa a tavola: storia
dell’alimentazione dal Medievo ad oggi, Laterza,
Roma 2019.
G. Piccinni, Il Medioevo, Mondadori, Milano
2004.
M. Buzzurro, L’altra crisi del Trecento: il
cambiamento climatico secondo i cronisti toscani
– Parte I, in “InStoria”, n. 187, (CCXVIII)
luglio 2023. |