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L’ALTRA CRISI DEL TRECENTO
I /
IL CAMBIAMENTO CLIMATICO SECONDO I
CRONISTI TOSCANI
di Matteo Buzzurro
Quando parliamo della fine del Medioevo di solito ci
soffermiamo su macro avvenimenti che portarono alla
fine di quest’epoca come ad esempio la caduta
dell’Impero Romano d’Oriente (1453) o la scoperta
dell’America (1492) e siamo altrettanto soliti
etichettare il Trecento come un momento di crisi
dovuto esclusivamente alla peste, alle guerre o alle
rivolte sociali come se questi avvenimenti fossero
l’emblema del periodo. In questo articolo e nei
successivi analizzeremo tre avvenimenti che
contemporaneamente alla peste uccisero e devastarono
l’Italia trecentesca attraverso l’analisi che fecero
i più importanti cronisti dell’area tosco-emiliana,
area molto attiva nella cronachistica medievale.
Nel presente articolo, in particolare, tratteremo
del cambiamento climatico che nel Trecento colpì e
stravolse l’Europa trecentesca portando, come in una
reazione a catena, una crisi commerciale e
strutturale del modello economico medievale che
portò a una mortalità senza precedenti. Il primo
fenomeno che andremo a trattare sarà, dunque, il
cambiamento climatico.
All’inizio del Trecento vi fu un improvviso
peggioramento delle condizioni climatiche dovuto per
lo più a una fine al quanto drastica del “periodo di
caldo medievale”, il quale aveva permesso non solo
un clima costante, ma anche lo scioglimento dei
ghiacci favorendo la coltivazione della vite e
abbondanti raccolti grazie a una regolarità delle
precipitazioni. Proprio perciò urge soffermarsi
sulla variazione climatica in atto nel Trecento:
dopo i secoli d’oro dell’agricoltura, a cavallo tra
l’XI e il XIII secolo, favoriti da una temperatura e
da un clima che aiutarono l’incremento di colture
abbondanti, nel Trecento si ebbe un drastico e
repentino cambio di temperatura e un aumento
improvviso dell’umidità che portò nella prima ondata
ovvero tra 1313 e il 1315 a innumerevoli
precipitazioni e venti sproporzionati che rovinarono
irrimediabilmente il raccolto: «E al dì 20
d’agosto (1313) fu la maggior tempesta di
vento che mai ricordi, e fece molto danno di case,
d’arboli per lo Contado».
L’impatto di questa sciagura fu causato da un
peggioramento della situazione climatica: le
primavere del 1314 e soprattutto del 1315 furono
molto umide e resero il lavoro dei campi molto
difficoltoso, provocando non solo temporali ma anche
alluvioni, come nel caso del 1314 quando piogge
torrentizie si abbatterono violentemente in Emilia,
in Romagna e nel Mugello, infatti in quell’anno «la
primavera , e tutta la state fu sì piovosa, e ‘l
paese basso molto, sì che l’acqua soperchiò il
terreno, et guastò ogni sementa». Questa
alluvione causò danni talmente ampi che gli alberi «non
fruttarono più, et corruppe l’aria molto». La
situazione non andò migliorando anzi, secondo alcuni
studi odierni, i fenomeni del 1313-1315 furono
l’inizio di una situazione in via di peggioramento.
Nel dicembre del 1334, nell’area di Firenze, il
cronista Giovanni Villani, che come ogni scrittore
di cronache era molto attento a descrivere
situazioni sensazionali e mai viste inerenti alla
vita comunitaria, analizzò un altro fenomeno che lui
chiamò in maniera biblica diluvio; la parola,
che oggi utilizziamo in senso religioso o per
definire in maniera quasi ironica una pioggia
intensa, fu già essa stessa una testimonianza
dell’evento: la parola diluĕre che in latino
vuol dire ‘lavare’ dà il senso dell’evento con tutta
la sua tragicità e straordinarietà. Giovanni Villani
rimase allibito di «tanta piova, che il fiume
d’Arno crebbe sfoggiatamente, per modo che se le
pescaje, ch’erano nel fiume innanzi il gran diluvio,
fossono state in piede, grande parte della città
sarebbe allagata»; ma comunque le piogge ebbero
il loro effetto distruttivo anche sulle strutture
cittadine tanto che «mennone un ponte di legname
il quale era tra ‘l ponte vecchio, e quello di Santa
Trinità». L’alluvione di Firenze non fu un caso
a sé stante, ma fu un l’origine di un fronte
temporalesco che si spostò in altre parti d’Europa:
«In Fiandra, e in Olanda, e in Silanda in questo
tempo furono soperchie piove».
La situazione come già detto in precedenza non
migliorò, anzi ebbe il suo culmine in uno dei
trienni più tragici della storia dell’uomo 1347,
1348 e 1349. Nel 1347 nel mese d’aprile vi «furono
in Firenze, e d’intorno grandi turbichi di piove, e
tuoni, e baleni oltre all’usato modo»; questa
descrizione appare ai nostri occhi come diversa
rispetto alle altre descrizioni. Giovanni Villani
continuò a descrivere una situazione a lui irreale
ma autentica: «E caddono nella Città et di fuori
più folgori e alcuna n’abbattè certi merli delle
mura»; questa devastazione dunque aumentò il
grado di distruzione come fosse un terremoto.
Dopo le devastazioni dell’aprile del 1347 la
situazione peggiorò durante l’estate che in
quell’anno fu molto calda e umida addirittura di più
di quella del 1313 che fece ammalare l’imperatore
Enrico VII: «E a dì 16 d’Agosto […] e fece grande
arsura, e danno e infermò l’Omperadore a dì 22
Agosto in Mezedima». La devastazione
temporalesca, non si limitò ad allagare le città
poco strutturate alla ricezione di tanta acqua ma
causò all’interno delle città incendi di vaste
dimensioni dovuti alla presenza di costruzioni in
legno che presero fuoco a causa dello scarico a
terra dei fulmini.
La straordinarietà
della situazione, che oggi possiamo leggere come un
temporale di vaste dimensioni, crebbe nella
popolazione la certezza della punizione divina tanto
che «il Vescovo di Firenze col chiericato e
grande popolo per la terra a processione per tre dì
pregando Iddio la cessasse». I fenomeni del 1347
oltrepassarono la Toscana e si manifestarono a Roma,
dove l’Anonimo romano descrisse, nel capitolo XV,
così la piena del Tevere:
«Currevano anni Domini
MCCC[...], de pontificato de papa Chimento sesto.
Nella citate de Roma crebbe lo fiume lo quale se
dice Tevere, e fu per sio crescere de acqua uno
diluvio mortifero e maraviglioso in tale muodo, che
pochi, anche nulli, se recordassino essere stato lo
simile. Tutta la state passata operze Dio le
cataratte dello cielo e mannao acqua spessa e foita,
non granne. Ma puoi nello autunno, recoite le uve,
comenzanno dalla festa de Onniasanti, parze che·lle
fontane dello abisso fussino operte per vomacare
acqua. Allora cogenza lo Tevere a crescere e non
descresceva niente. Innelli dìe fra Onniasanti e
Natale, forza da dìe otto, durao lo crescere
dell’acqua la quale terribilemente iessiva li usati
tiermini dello lietto dello sio canale. Allora empìo
tutta la pianura la quale iace intorno alla citate
de Roma, puoi la maiure parte drento e de fore.
Maraviglia ène e cosa mai non odita da Romano».
La narrazione dell’Anonimo romano proseguì
dettagliatamente in maniera agghiacciante facendo un
catalogo dei quartieri di Roma sotto l’acqua. La
narrazione, incerta nella datazione, fu invece
esaustiva nell’effetto che portò il cambiamento
climatico nelle varie città del centro Italia. Lo
stupore di tali eventi gettò l’uomo medievale
nell’incapacità a gestire tali fenomeni, questo
stupore e questa impossibilità nell’agire saranno il
tema costante del nostro viaggio.
Riferimenti bibliografici:
Anonimo romano, Cronica, Adelphi,
Milano 1981.
Annales Senenses
di Nerio Donati
filio in
Rerum Italicarum
Scriptores, tomo XVI, a cura di Ludovico
Antonio Muratori, Forni, Bologna 1978.
Chronicon Senense
di Andrea Dei e
Angelo Tura in
Rerum Italicarum
Scriptores, tomo XVI, a cura di Ludovico Antonio
Muratori,
Forni, Bologna 1978.
Historie Fiorentine
di Giovanni
Villani in
Rerum Italicarum
Scriptores, tomo XIII, a cura di Ludovico Antonio
Muratori,
Forni, Bologna 1978.
Acot Pascal, Storia del clima: dal Big
Bang alle catastrofi climatiche, Donzelli, Roma
2003.
Piccinni Gabriella, Il Medioevo, Mondadori,
Milano 2004. |