[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

187 / LUGLIO 2023 (CCXVIII)


ambiente

L’ALTRA CRISI DEL TRECENTO
I / IL CAMBIAMENTO CLIMATICO SECONDO I CRONISTI TOSCANI

di Matteo Buzzurro

 

Quando parliamo della fine del Medioevo di solito ci soffermiamo su macro avvenimenti che portarono alla fine di quest’epoca come ad esempio la caduta dell’Impero Romano d’Oriente (1453) o la scoperta dell’America (1492) e siamo altrettanto soliti etichettare il Trecento come un momento di crisi dovuto esclusivamente alla peste, alle guerre o alle rivolte sociali come se questi avvenimenti fossero l’emblema del periodo. In questo articolo e nei successivi analizzeremo tre avvenimenti che contemporaneamente alla peste uccisero e devastarono l’Italia trecentesca attraverso l’analisi che fecero i più importanti cronisti dell’area tosco-emiliana, area molto attiva nella cronachistica medievale.

 

Nel presente articolo, in particolare, tratteremo del cambiamento climatico che nel Trecento colpì e stravolse l’Europa trecentesca portando, come in una reazione a catena, una crisi commerciale e strutturale del modello economico medievale che portò a una mortalità senza precedenti. Il primo fenomeno che andremo a trattare sarà, dunque, il cambiamento climatico.

 

All’inizio del Trecento vi fu un improvviso peggioramento delle condizioni climatiche dovuto per lo più a una fine al quanto drastica del “periodo di caldo medievale”, il quale aveva permesso non solo un clima costante, ma anche lo scioglimento dei ghiacci favorendo la coltivazione della vite e abbondanti raccolti grazie a una regolarità delle precipitazioni. Proprio perciò urge soffermarsi sulla variazione climatica in atto nel Trecento: dopo i secoli d’oro dell’agricoltura, a cavallo tra l’XI e il XIII secolo, favoriti da una temperatura e da un clima che aiutarono l’incremento di colture abbondanti, nel Trecento si ebbe un drastico e repentino cambio di temperatura e un aumento improvviso dell’umidità che portò nella prima ondata ovvero tra 1313 e il 1315 a innumerevoli precipitazioni e venti sproporzionati che rovinarono irrimediabilmente il raccolto: «E al dì 20 d’agosto (1313) fu la maggior tempesta di vento che mai ricordi, e fece molto danno di case, d’arboli per lo Contado».

 

L’impatto di questa sciagura fu causato da un peggioramento della situazione climatica: le primavere del 1314 e soprattutto del 1315 furono molto umide e resero il lavoro dei campi molto difficoltoso, provocando non solo temporali ma anche alluvioni, come nel caso del 1314 quando piogge torrentizie si abbatterono violentemente in Emilia, in Romagna e nel Mugello, infatti in quell’anno «la primavera , e tutta la state fu sì piovosa, e ‘l paese basso molto, sì che l’acqua soperchiò il terreno, et guastò ogni sementa». Questa alluvione causò danni talmente ampi che gli alberi «non fruttarono più, et corruppe l’aria molto». La situazione non andò migliorando anzi, secondo alcuni studi odierni, i fenomeni del 1313-1315 furono l’inizio di una situazione in via di peggioramento.

 

Nel dicembre del 1334, nell’area di Firenze, il cronista Giovanni Villani, che come ogni scrittore di cronache era molto attento a descrivere situazioni sensazionali e mai viste inerenti alla vita comunitaria, analizzò un altro fenomeno che lui chiamò in maniera biblica diluvio; la parola, che oggi utilizziamo in senso religioso o per definire in maniera quasi ironica una pioggia intensa, fu già essa stessa una testimonianza dell’evento: la parola diluĕre che in latino vuol dire ‘lavare’ dà il senso dell’evento con tutta la sua tragicità e straordinarietà. Giovanni Villani rimase allibito di «tanta piova, che il fiume d’Arno crebbe sfoggiatamente, per modo che se le pescaje, ch’erano nel fiume innanzi il gran diluvio, fossono state in piede, grande parte della città sarebbe allagata»; ma comunque le piogge ebbero il loro effetto distruttivo anche sulle strutture cittadine tanto che «mennone un ponte di legname il quale era tra ‘l ponte vecchio, e quello di Santa Trinità». L’alluvione di Firenze non fu un caso a sé stante, ma fu un l’origine di un fronte temporalesco che si spostò in altre parti d’Europa: «In Fiandra, e in Olanda, e in Silanda in questo tempo furono soperchie piove».

 

La situazione come già detto in precedenza non migliorò, anzi ebbe il suo culmine in uno dei trienni più tragici della storia dell’uomo 1347, 1348 e 1349. Nel 1347 nel mese d’aprile vi «furono in Firenze, e d’intorno grandi turbichi di piove, e tuoni, e baleni oltre all’usato modo»; questa descrizione appare ai nostri occhi come diversa rispetto alle altre descrizioni. Giovanni Villani continuò a descrivere una situazione a lui irreale ma autentica: «E caddono nella Città et di fuori più folgori e alcuna n’abbattè certi merli delle mura»; questa devastazione dunque aumentò il grado di distruzione come fosse un terremoto.

 

Dopo le devastazioni dell’aprile del 1347 la situazione peggiorò durante l’estate che in quell’anno fu molto calda e umida addirittura di più di quella del 1313 che fece ammalare l’imperatore Enrico VII: «E a dì 16 d’Agosto […] e fece grande arsura, e danno e infermò l’Omperadore a dì 22 Agosto in Mezedima». La devastazione temporalesca, non si limitò ad allagare le città poco strutturate alla ricezione di tanta acqua ma causò all’interno delle città incendi di vaste dimensioni dovuti alla presenza di costruzioni in legno che presero fuoco a causa dello scarico a terra dei fulmini.

 

La straordinarietà della situazione, che oggi possiamo leggere come un temporale di vaste dimensioni, crebbe nella popolazione la certezza della punizione divina tanto che «il Vescovo di Firenze col chiericato e grande popolo per la terra a processione per tre dì pregando Iddio la cessasse». I fenomeni del 1347 oltrepassarono la Toscana e si manifestarono a Roma, dove l’Anonimo romano descrisse, nel capitolo XV, così la piena del Tevere: «Currevano anni Domini MCCC[...], de pontificato de papa Chimento sesto. Nella citate de Roma crebbe lo fiume lo quale se dice Tevere, e fu per sio crescere de acqua uno diluvio mortifero e maraviglioso in tale muodo, che pochi, anche nulli, se recordassino essere stato lo simile. Tutta la state passata operze Dio le cataratte dello cielo e mannao acqua spessa e foita, non granne. Ma puoi nello autunno, recoite le uve, comenzanno dalla festa de Onniasanti, parze che·lle fontane dello abisso fussino operte per vomacare acqua. Allora cogenza lo Tevere a crescere e non descresceva niente. Innelli dìe fra Onniasanti e Natale, forza da dìe otto, durao lo crescere dell’acqua la quale terribilemente iessiva li usati tiermini dello lietto dello sio canale. Allora empìo tutta la pianura la quale iace intorno alla citate de Roma, puoi la maiure parte drento e de fore. Maraviglia ène e cosa mai non odita da Romano».

 

La narrazione dell’Anonimo romano proseguì dettagliatamente in maniera agghiacciante facendo un catalogo dei quartieri di Roma sotto l’acqua. La narrazione, incerta nella datazione, fu invece esaustiva nell’effetto che portò il cambiamento climatico nelle varie città del centro Italia. Lo stupore di tali eventi gettò l’uomo medievale nell’incapacità a gestire tali fenomeni, questo stupore e questa impossibilità nell’agire saranno il tema costante del nostro viaggio.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Anonimo romano, Cronica, Adelphi, Milano 1981.

Annales Senenses di Nerio Donati filio in Rerum Italicarum Scriptores, tomo XVI, a cura di Ludovico Antonio Muratori, Forni, Bologna 1978.

Chronicon Senense di Andrea Dei e Angelo Tura in Rerum Italicarum Scriptores, tomo XVI, a cura di Ludovico Antonio Muratori, Forni, Bologna 1978.

Historie Fiorentine di Giovanni Villani in Rerum Italicarum Scriptores, tomo XIII, a cura di Ludovico Antonio Muratori, Forni, Bologna 1978.

Acot Pascal, Storia del clima: dal Big Bang alle catastrofi climatiche, Donzelli, Roma 2003.

Piccinni Gabriella, Il Medioevo, Mondadori, Milano 2004.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]