N. 38 - Febbraio 2011
(LXIX)
Armenia
La cultura del libro e il Matenadaran di Yerevan
di Michele Lenti
L’Armenia,
sin
dall’antichità,
ha
sempre
intessuto
profondi
legami
con
l’Europa;
legami
di
tipo
storico
ma
anche,
e
soprattutto,
culturali,
spirituali
in
particolar
modo.
Per
questo
motivo
e
per
la
determinazione
ed
il
coraggio
mostrati
nella
difesa
della
propria
identità,
in
secoli
di
dominazione
straniera,
significativamente
ammirevole
e
suggestivo
appare,
agli
occhi
del
visitatore
occidentale,
il
forte
senso
di
appartenenza
alle
radici
cristiane,
che
ha
trovato
perfetta
espressione
nella
scrittura,
codificatasi
nell’intensa
attività
di
traduzione
dei
testi
biblici
e
delle
opere
di
autori
classici
da
un
lato,
e
nella
fioritura,
dall’altro,
del
periodo
“aureo”
della
letteratura
armena
(secoli
V –
VII).
L’armeno,
appartenente
al
ceppo
indoeuropeo,
vanta
una
lunga
tradizione
orale,
una
gestazione
caratterizzata
dal
contatto
con
altre
lingue
che
circolavano
nel
Paese,
come
il
greco,
il
siriaco
e
l’aramaico,
parlate
fluentemente
presso
la
corte
degli
Arsacidi.
In
questo
contesto,
particolarmente
vivace
dal
punto
di
vista
culturale,
si
inserisce
la
figura
di
Mesrop
Maštoc’
(360
–
441)
che
ritroviamo,
sin
dalla
sua
giovinezza,
come
legato
presso
la
cancelleria
regale.
Deciso
ad
abbandonare
il
mondo,
si
consacrò
a
Dio
e,
nella
prima
decade
del
V
secolo,
partì
come
evangelizzatore
presso
le
regioni
periferiche
del
regno
armeno.
Durante
il
suo
apostolato
si
rese
conto
che,
pur
essendo
passato
più
di
un
secolo
dalla
conversione,
i
suoi
connazionali
erano
ignoranti
e
dediti
alle
superstizioni
pagane,
anche
perché
il
culto
cristiano
si
svolgeva
prevalentemente
in
greco
o in
siriaco,
lingue
riservate
ai
colti,
per
cui
inintelligibili
al
resto
della
popolazione.
Mesrop
avvertì,
pertanto,
l’urgente
necessità
di
una
versione
nazionale
della
Bibbia,
per
la
quale,
però,
mancava
un
alfabeto
adeguato
a
renderne
la
ricca
fonetica.
Finalmente,
dopo
una
intensa
elaborazione
interiore
(Koriwn,
autore
di
una
Vita
di
Maštoc’,
parla
di
una
illuminazione
divina,
una
visione
trascendente)
l’alfabeto
vide
la
luce
e
Mesrop,
insieme
a
discepoli
Yovhannes
e
Yovsep,
cominciò
a
tradurre
il
testo
biblico
partendo
dal
Libro
dei
Proverbi.
L’incipit
del
quale
racchiude,
certamente,
uno
dei
tratti
fondamentali
della
civiltà
armena,
vale
a
dire
il
privilegio
dato
all’intelligenza
ed
al
sapere:
«Proverbi
di
Salomone,
figlio
di
Davide,
re
d’Israele,
per
conoscere
la
sapienza
e
l’istruzione,
per
capire
i
detti
intelligenti,
per
acquisire
una
saggia
educazione,
equità,
giustizia
e
rettitudine,
per
rendere
accorti
gli
inesperti,
e
dare
ai
giovani
conoscenza
e
riflessione».
Secondo
Koriwn
ed
altre
fonti,
inoltre,
Mesrop
Maštoc’
si
preoccupò
di
iniziare
immediatamente
un
gruppo
di
discepoli
all’«arte
della
scrittura»
la
quale,
nel
tempo,
ha
dato
vita
ad
una
delle
più
alte
espressioni
artistiche
coltivate
all’ombra
dell’Ararat,
quella,
cioè,
della
miniatura.
I
luoghi
deputati
alla
scrittura
e
alla
preparazione
dei
codici
furono,
in
origine,
i
vardapetaran,
o
scuole
delle
chiese,
prima
nella
sede
patriarcale
di
Etchmiazin,
poi
in
quella
di
Dwin.
Dall’XI
secolo
in
poi,
invece,
furono
i
monasteri
ad
organizzare
scriptoria
per
poter
soddisfare
esigenze
sempre
più
complesse.
Ricche
e
variegate
le
figure
che
gravitavano
attorno
a
questo
mondo:
copisti,
miniatori,
rilegatori,
orafi
e,
ancor
prima,
addetti
alla
preparazione
e
alla
levigatura
delle
pergamene,
alla
squadratura
dei
fogli,
alla
cura
degli
inchiostri
e
dei
colori
e
alla
manutenzione
degli
strumenti
di
lavoro.
Oggi
sopravvivono
trenta
mila
codici,
distribuiti
nelle
comunità
di
Gerusalemme
(Patriarcato
armeno),
a
san
Lazzaro
di
Venezia
e a
Vienna
(monastero
dei
Padri
Mechitaristi),
a
Nuova
Giulfa,
a
Bzoummar,
oltre
che
in
biblioteche
pubbliche
in
Europa
ed
in
America
e
presso
collezionisti.
In
questo
quadro
il
ruolo
centrale
di
faro
della
memoria
e
dell’identità
del
popolo
armeno
è,
invece,
rappresentato
dal
Matenadaran,
la
“Biblioteca”
per
eccellenza
di
Yerevan,
un
imponente
edificio,
risalente
alla
fine
degli
Anni
΄50,
dove
sono
custoditi
circa
17.000
matian,
o
manoscritti,
e
30.000
documenti
medievali
e
moderni.
Questo
centro
ha
come
modello
ispiratore
l’opera
infaticabile
di
Mesrop
Maštoc’,
il
quale
edificò
il
primo
Matenadaran
a
Vagarshapat
(Etchmiazin)
nel
V
secolo,
ed
al
quale
è
dedicata
una
imponente
statua
posta
nel
cortile
d’ingresso,
che
lo
raffigura
mentre
istruisce
uno
dei
suoi
discepoli.
Il
Matenadaran
accoglie,
nelle
sue
eleganti
sale,
ricercatori
da
ogni
parte
del
mondo,
stabilendo
un
forte
legame
con
gli
specialisti
di
armenistica
che,
in
tal
modo,
possono
attingere
alle
radici
più
profonde
e
suggestive
della
memoria
del
popolo
armeno.
All’interno,
infatti,
la
collezione
comprende
opere
scientifiche
e
filosofiche
di
autori
greci
e
romani,
manoscritti
arabi,
persiani
ed
ebraici
oltre
a
pergamene
raffiguranti
i
confini
storico-politici
dell’Asia,
dell’Europa
e
dell’Armenia
storica.
L’importanza
e,
in
alcuni
casi,
l’unicità
di
questa
collezione
è
data
dal
fatto
che
alcune
opere
del
periodo
classico,
così
come
di
quello
cristiano
antico,
sono
pervenute
a
noi
solamente
in
lingua
armena.
È il
caso
di
alcuni
scritti
di
Filone
di
Alessandria,
così
come
una
parte
del
Chronicon
di
Eusebio
di
Cesarea.
Per
quanto
riguarda
le
traduzioni
dei
classici,
insieme
ai
Dialoghi
di
Platone,
profondamente
studiato
come
filosofo,
è
possibile
trovare,
tra
l’altro,
una
importante
versione
della
Grammatica
Greca
di
Dionisio
Trace
che
è
rimasta
a
fondamento
delle
grammatiche
greche
fino
a
tempi
relativamente
moderni.
Accanto
a
questi
tesori
troviamo
i
Vangeli,
come
quello
di
Etchmiazin
(VI
secolo)
con
copertina
in
rilievo
finemente
lavorata
in
avorio
e
raffigurante,
da
un
lato,
il
Cristo
Pantocratore
e
dall’altro
Maria
Theotokos
(madre
di
Dio),
i
Salteri
e le
opere
degli
storici,
sacerdoti,
teologi,
filosofi,
medici,
matematici,
geografi,
cosmografi
e
compositori
che
hanno
contribuito
alla
creazione
del
patrimonio
culturale
armeno.
Un
vero
e
proprio
monumento
è
costituito
da
una
raccolta
di
sermoni
terminata
a
Mush,
nel
Taron,
nel
1205
dallo
scriba
Vardan.
Nonostante
i
suoi
32
kg,
(è
costituito,
infatti,
di
607
pelli
d’agnello)
l’opera
fu
salvata,
a
seguito
del
Genocidio
del
1915,
da
due
donne
le
quali,
per
trasportarlo,
lo
divisero
in
due.
Solo
in
anni
recenti
il
libro
è
stato
restaurato,
anche
perché
una
delle
due
donne
emigrò
in
America,
allungando
i
tempi
del
recupero
e
della
ricomposizione,
ed
esposto,
finalmente,
al
pubblico.
Accanto
alla
ricchezza
e
mirabile
elaborazione
delle
figure,
una
delle
caratteristiche
particolari
dei
codici
armeni
è
l’abbondanza
delle
annotazioni
dei
copisti
e
dell’equipe
che
ha
permesso
la
realizzazione
del
libro.
Infatti
il
colofone
dei
manoscritti,
vale
e
dire
l’annotazione
finale
in
cui
si
segnalano
la
data
ed
il
luogo
di
stesura
dell’opera,
il
nome
del
copista
e,
talvolta,
del
committente
è,
nella
tradizione
armena,
un
vero
e
proprio
genere
letterario.
Il
modello
standard
prevede
una
dossologia
trinitaria
ed
il
ringraziamento
a
Dio
per
l’assistenza
avuta
durante
il
lavoro;
in
alcuni
casi
ad
esso
seguono
la
lode
per
il
committente,
l’invocazione
alla
pietà
divina
per
il
copista
che
si
dichiara
peccatore
ed
indegno,
e la
menzione
dei
suoi
familiari,
sia
vivi
che
defunti,
ricordati
tutti
per
nome.
Da
rilevare
che,
spesso,
nei
codici
sono
registrati
avvenimenti
di
cronaca
come
guerre,
invasioni,
saccheggi
oppure
eventi,
per
lo
più
tragici,
come
terremoti,
carestie,
epidemie;
fonti,
queste,
tuttavia
preziose
per
ricostruire
il
contesto
storico
in
cui
nasce
il
manoscritto.
Talmente
importante
era
poi
il
codice
da
essere
considerato
come
un’entità
viva,
destinata
a
sopravvivere
e a
mantenere
il
ricordo
di
chi
scrive.
Per
tale
motivo
il
libro,
talvolta,
è
chiamato
“prole”
vivente
di
chi
non
ha
figli.
La
miniatura
armena
copre
un
periodo
che
va
dal
VII
fino
al
XVII-XVIII
secolo
e
presenta,
oltre
al
diverso
tipo
di
materiale
usato
per
la
composizione
dei
codici
(pergamena,
in
larga
parte,
ma
anche
carta),
anche
e
soprattutto
esiti
stilistici
diversi
nell’ambito
della
produzione
iconografica
a
seconda
dell’area
geografica
in
cui
prende
vita
il
testo.
Pertanto
se
nell’Armenia
orientale
le
figure,
in
generale,
sono
più
sobrie,
essenziali,
particolarmente
ricca,
invece,
è la
miniatura
della
scuola
ciliciana,
vivace
nei
colori,
nelle
figure
in
movimento,
nell’espressività
dei
volti
e
nell’uso
dell’oro
che
quasi
sempre
costituisce
lo
sfondo
delle
scene
raffigurate.