N. 17 - Maggio 2009
(XLVIII)
Così
parlò Zarathustra…
La fine dei tempi
nell’ottica
mazdeista
di Lawrence M.F.
Sudbury
A
differenza di quanto molti ritengono, la grande
divaricazione tra Induismo e Zoroastrismo o, più
correttamente, Mazdeismo, non si gioca sul piano del
passaggio dal politeismo al monoteismo (dal momento che,
come risulta da un’analisi più approfondita del Mazdismo,
entrambe sono piuttosto religioni enoteistiche) quanto
sul piano della concezione escatologica e della sua
correlazione tra essa e una visione del tempo che, da
ciclico, si trasforma per la prima volta in lineare.
Per rendersi conto di ciò è necessario dare una pur
rapida scorsa agli elementi basilari di questa fede
antichissima ma, con i suoi 100.000 fedeli “Parsi” in
India e i suoi circa 30.000 fedeli “Darihan” in Iran,
ormai sempre più vicina all’estinzione dopo l’avvento
dell’Islam che l’ha sostitutita come “religione di
stato” nelle aree persiane.
Il
primo concetto di cui tener conto è che, in origine,
intorno al 1500 a.C., gli Ariani, di origine
indoeuropee, erano divisi nei due sottogruppi degli
Indiani e degli Irani, caratterizzati da una lingua
comune e da una medesima religione, di ceppo induista.
Dopo il 1300 a.C., comunque, i due gruppi, per ragioni
di politica migratoria e di separazione geografica,
iniziarono a delinearsi come nettamente separati e a
sviluppare, a partire da un substrato comune, sistemi
religiosi divaricati, con gli Indiani che diedero vita
ad una concezione più ascetico-filosofica del divino e
gli Irani che, invece, abbracciarono una concezione
molto più pragmatica, legata al destino dell’uomo come
singolo e non più visto, come nell’Induismo, come
“grannello di sabbia” nell’eterno ciclo del divenire,
lasciando, conseguentemente, grande spazio alle
ispirazioni profetiche.
Sostanzialmente, nel suo insistere sulla centralità
della persona umana in contrapposizione alla tradizione
vedica, questo sviluppo ha molti punti in comune con il
buddhismo, nato in India nello stesso periodo, ma mentre
il buddhismo è espressione del popolo, lo sviluppo
ariano-iranico è manifestazione della classe
aristocratica ed è probabilmente per questo che il primo
ebbe maggior diffusione del secondo.
È,
comunque, su questo substrato che si sviluppa la
predicazione di Zarathustra, del quale, al di là della
successiva mitologizzazione della sua figura (che dai
fedeli è posta intorno all’8000 a.C, a lungo è stata
ritenuta collocabile intorno al 600 a.C. e oggi, in base
a studi linguistico-filologici sui suoi testi, viene
quasi universalmente considerata databile all’incirca
verso il 1200 a.C.), sappiamo davvero pochissimo.
Secondo le leggende, Zarathustra era di stirpe reale e
si racconta che quando nacque (ridendo), la terrà tremò,
i ruscelli cantarono e i malvagi tentarono di ucciderlo.
Adolescente si ritirò in meditazione nel deserto, dove i
Deva lo tentarono promettendogli potere e ricchezza.
Egli rifiutò dicendo: “No, io non rinnegherò la buona
religione degli adoratori di Mazda, no, anche se vita,
membra ed anima dovessero disgregarsi”.
Dopo questo evento il Dio buono gli apparve e
Zarathustra incominciò a predicare la nuova religione.
Il suo cammino si fece molto difficile e il suo
predicare alimentò incomprensioni e disappunto, finché
nella Battriana il Re Visthaspa lo ascoltò, lo prese
sotto la sua protezione e si convertì al suo
insegnamento, con la popolazione locale, continuamente
esposta al pericolo delle invasioni nomadi, che si
mostrò ben disposta ad accettare una nuova religione
basata sulla salvezza.
Al
di là delle costruzioni posteriori, sembra indubitabile
la storicità della sua figura, sebbene gli studiosi
siano notevolmente discordi sia sul luogo della sua
nascita (da alcuni posta tra Afghanistan e Turkmenistan,
da altri in Azebaijan), sia sulla sua condizione sociale
(secondo alcuni si trattava, dal persiano “Zaotar”, di
un sacerdote, secondo altri, dal turkmeno “zartosht”,
“ricco di cammelli”, di un carovaniere benestante).
Se, però, anche alcuni degli elementi narrati sulla sua
vita avessero un fondo di verità storica (ad esempio,
non esiste ragione di ritenere leggendario che Zoroastro
avrebbe avuto la rivelazione a trent’anni e avrebbe
convertito il suo primo discepolo a quarant’anni), la
successiva tradizione religiosa rivestì Zarathustra di
caratteri sovrumani fino a dar vita a una vera e propria
leggenda ricca di elementi mitici e miracolistici,
cosicché egli divenne l’uomo perfetto con cui ha inizio
l’ultimo ciclo trimillenario della storia del cosmo,
scandita in quattro cicli di tremila anni,
caratterizzato dall’avvento della “buona religione”.
In
ogni caso, chiunque egli fosse, Zoroastro (come venne
conosciuto in occidente dalla grecizzazione del suo
nome) fu l’autore di una delle più grandi rivoluzioni
religiose della storia e il fondatore consapevole di una
fede dualistica basata su un’elaborazione filosofica del
problema del male che, oggettivamente, è ancora oggi un
vero e proprio monumento alla dignità umana.
Come sulla vita del suo fondatore, anche la
documentazione relativa alle origini dello Zoroastrismo
è molto scarsa. L’Avesta, il libro sacro mazdeo,
noto anche come Zend Avesta, venne tramandato per
secoli per via orale e soltanto a partire dal III secolo
d.C. venne messo per iscritto.
Ne
fanno parte le “Gatha”, inni religiosi che la tradizione
(filologicamente forse a ragione) attribuisce allo
stesso Zarathustra, gli “Yasht”, inni posteriori in
onore di divinità minori e i “Videvdat”, testi che
riguardano i demoni.
In
sostanza, ciò che si evince in particolare dalle “Gatha”
è che Zaratustra oppose alla concezione fatalistica
induista la sua religione basata sulla lotta contro il
male tramite pensiero puro, parola pura e azione pura.
Il
tratto originale delle “Gatha” è proprio la loro natura
speculativa e filosofica: il pensiero di Zoroastro
rielabora concetti e nozioni fondamentali della
tradizione indoiranica, dando però loro nuovi
significati marcatamente astratti, trasferendosi da un
piano cosmico e rituale a un piano propriamente etico,
dominato dal concetto di scelta e costituendo una trama
in cui si dispiega un pensiero organico e coerente.
Così, l’’innovazione gathica contrappose a un vecchio
modo di concepire il divino e l’atto cultuale, una nuova
visione dell’uomo e del mondo, dominata dalla lotta tra
Bene e Male e dalla conseguente scelta che a ciascuno si
impone.
Al
fondo di tale rivoluzione c’è una consapevolezza del
male, del dolore, dell’ingiustizia che pervadono
l’esistenza terrena, analoga nelle premesse a quella che
sospinse il Buddha verso l’illuminazione, ma che
perviene a risultati completamente diversi rispetto al
Buddhismo.
Nodo centrale dello Zoroastrismo, dunque, è la costante
lotta tra il bene e il male, che viene sostanziata
attraverso tratti semi-mitologici: agli inizi della
creazione, esiste il dio supremo, “Ahura Mazda” (che
significa Signore Saggio), caratterizzato da luce
infinita, onniscienza e bontà. Egli è accompagnato da
sette esseri, gli “Amesha Spenta”, detti i “santi
immortali”, responsabili delle sette creazioni
dell’antica cosmogonia (e da qui il marcato enoteismo
mazdista).
A
un certo punto, dal dio supremo sono emanati due spiriti
contrapposti, “Spenta Mainyu”, lo spirito del bene e
“Angra Mainyu” (o “Ahriman”), lo spirito del male o
Spirito Distruttore: essi sono come due gemelli
eternamente in lotta tra di loro e il conflitto
interessa l’intero universo, inclusa l’umanità, alla
quale è richiesto di compiere una scelta tra la via del
bene e della giustizia (“Asha”) che porta alla felicità
o la via del male che porta all’infelicità,
all’inimicizia e alla guerra.
Secondo gran parte degli studiosi, il dualismo etico è
il tratto più caratteristico e originale del pensiero di
Zoroastro, che deve completare la sua visione,
tendenzialmente monoteista, attraverso l’inserzione di
un “principio del male”, dal momento che un monoteismo
puro e non dualistico non avrebbe potuto spiegare la
presenza del dolore e di tutto ciò che è negativo
all’interno della creazione di un dio “infinitamente
buono”.
Così, il dualismo di Zoroastro è un dualismo di due
Spiriti (il Bene e il Male), non, come in alcune
derivazioni successive, di spirito e materia ed è
confinato sul piano dell’esistenza mentale, ma con una
presenza di entrambi nel creato, in quanto l’esistenza
mentale o spirituale influisce su quella materiale.
Secondo Eliade, però, la religione di Zarathustra non è,
in fin dei conti, dualistica, perché l’opposizione
avviene a livello degli spiriti emanati dal Dio Supremo:
come il bene origina le figure divine benefiche, così il
male genera quelle malefiche, con il risultato che nello
Zoroastrismo non esiste determinismo: l’uomo è libero di
scegliere, come fece “Angra Mainyu”, emanato dal Dio
Supremo, che scelse il male, e il problema diventa,
dunque, spiegare l’esistenza del male, condizione
preliminare per l’esistenza del libero arbitrio.
In
questo senso, la separazione iniziale tra il Bene il
Male sembra esser stata il frutto della scelta,
introdotta da “Ahura Mazda”, tra la Giustizia e
l’Inganno, abbracciati rispettivamente da “Spenta Mainyu”
e da “Angra Mainyu”.
Il
libero arbitrio diventa, di conseguenza, il nodo
centrale di tutto l’assunto religioso e, quindi,
dell’etica mazdeista, in cui l’amore per la pace, per la
giustizia, per la verità e per la terra sono considerate
le virtù supreme: spetta all’uomo e al suo senso di
responsabilità seguire il principio del bene, nonostante
la dura lotta interiore che inevitabilmente dovrà
affrontare.
Ogni altro dato, di fronte a questi principi
fondamentali, passa in secondo piano. Così, lo
Zoroastrismo è una religione basata sull’uguaglianza
sessuale tra uomini e donne e, anzi, punto fondamentale
del suo credo è l’uguaglianza di tutti gli esseri senza
distinzioni di razza o fede religiosa e rispetto totale
verso ogni cosa.
Questo spiega il fatto che un tratto caratteristico
dello zoroastrismo originale fosse l’accentuato
antiritualismo, che, però, andò un po’ spegnendosi con
il passare del tempo (così come andò perdendosi la sua
marcata tolleranza, tanto da indurre alcuni gruppi a
ritenere un precetto fondamentale quello di “combattere
l’eretico”).
È
probabile che ciò fosse dovuto alla progressiva
commistione con il potere politico.
Lo
Zoroastrismo, infatti, nel tempo diffusosi soprattutto
tra i popoli iranici d’Europa (Sciti e Sarmati, per
esempio) e d’Asia, fu certamente la religione favorita
dalle due grandi dinastie dell’antica Persia, gli
Achemenidi ed i Sasanidi, sebbene, non essendo
sopravvissute fonti scritte persiane contemporanee di
quel periodo, è difficile descrivere la natura
dell’antico Zoroastrismo in dettaglio cosicché, ad
esempio, la descrizione di Erodoto della religione
persiana include in effetti alcune caratteristiche
proprie dello Zoroastrismo (come l’esposizione dei morti
nelle cosiddette “Torri del Silenzio” perché il corpo,
privato dell’anima non “sporchi” la Madre Terra) e, in
alcune iscrizioni, i re achemenidi riconobbero la loro
devozione ad “Ahura Mazda”, ma essi furono anche
partecipi dei rituali religiosi locali a Babilonia e in
Egitto (di fatto, comunque, i Persiani aiutarono
certamente gli Ebrei a ritornare nella loro terra natia,
ricostruendo i loro templi, cosa che sembra escludere
che vi fosse stata da parte loro una imposizione
dell’ortodossia religiosa sui sudditi).
Dopo il trionfo ottenuto sotto la protezione e la
conversione di re achmenidi come Vishtaspa e di Ciro il
Grande (600-518 a.C.), lo zoroastrismo venne, comunque,
oscurato dall’arrivo di Alessandro Magno che fece della
Persia una propaggine del regno macedone. È durante
questo periodo che andò perduta anche gran parte dell’Avesta,
all’infuori dei libri di cui si è detto.
Dopo la morte di Alessandro Magno e la disgregazione
dell’impero, in Persia salì al potere la dinastia dei
Sasanidi (226-651 d.C.) che riportò lo zoroastrismo
all’antico vigore e, probabilmente, è a questo periodo
che si deve un certo irrigidimento nell’ortodossia
religiosa, tanto che molte fonti cristiane del periodo
in questione informano che i re sasanidi perseguitarono
i Cristiani in Persia, e un certo grado di maggior
sincretismo, che portò anche alla credenza popolare che
“Ahura Mazda” e “Angra Mainyu” fossero figli del dio del
tempo Zurvan.
Nel VII secolo la dinastia sasanide fu abbattuta dagli
Arabi musulmani e gli Zoroastriani ottennero lo status
di “Popolo del Libro” (“Ahl al-Kitāb”) da parte del
califfo
’Umar bin al-Khattāb, ma l’uso dell’Avesta
antico (quello che ne rimaneva) e delle lingue persiane
fu proibito, dal momento che i conquistatori islamici
considerarono gli insegnamenti di Zarathustra come un
culto politeistico. Così, lentamente ma inesorabilmente,
il Mazdismo perse la sua influenza, fino a ridursi ai
minimi termini nel periodo contemporaneo (comunque anche
dovuti all’abitudine all’endogamia).
Al
di là delle vicende storiche, che certamente
influenzarono la purezza filosofico-dottrinale
originaria (si pensi alle cinque preghiere giornaliere
del fedele, che rappresentano piuttosto evidentemente un
elemento spurio derivato dall’Islam), resa ancora oggi
la centralità spirituale del concetto etico di “purezza”
che caratterizza tutto il sistema religioso
zoroastriano, tanto che l’iconografia del divino si
riduce in realtà ad una sorta di “culto del fuoco”,
visto come “la più pura delle cose create” e
tenuto continuamente acceso e custodito in appositi
templi.
Va
ribadito, comunque, che quella della purezza non è una
pura ossessione devozionale, ma il frutto desiderato di
un processo etico-filosofico alla cui base sta la libera
scelta, il libero arbitrio del singolo che decide di
porsi nel campo del bene (puro) contro le forze (impure)
del male.
Ed
è proprio sul concetto di scelta, dettata dal libero
arbitrio, della purezza che si fonda l’intera
escatologia, sia personale che cosmica, dello
zoroastrismo.
Dal punto di vista dell’escatologia personale, tutto si
gioca, infatti, sul classico (classico per noi, dal
momento che proprio nel Mazdeismo abbiamo una prima
chiara e inequivocabile formulazione etica in questo
senso) meccanismo di azione-ricompensa.
Secondo la struttura escatologica zoroastriana, infatti,
che, dal punto di vista della simbologizzazione e
leggendarizzazione popolare riprende una precedente
tradizione indo-iranica del viaggio dei morti e
sottolinea l’importanza del giudizio post-mortem, quando
un uomo muore, la sua anima, dopo aver soggiornato tre
giorni sopra il corpo, si dirige al “Ponte Chinvat” (il
“Ponte del Cernitore”) guidata da Sraosa (una divinità
che funge da figura di psicopompo) dove la aspetta il
suo “Daéna”.
Tale “Daéna” (o “visione mentale”), esprime il concetto
di una sorta di “io interiore” di cui l’anima diviene
cosciente dopo il decesso. Di fatto, in questo senso, lo
zoroastriano stabilisce un rapporto privato e intimo con
la fede, in molte circostanze fuori da ogni mediazione
ecclesiastica, quasi con una religione interiore il cui
interlocutore è, appunto, il “Daena”, il doppio celeste
dell’io interiore.
Di
natura divina, esso rappresenta lo specchio con cui
Mazda vede in segreto le azioni degli uomini, stabilisce
se sono buone o malvagie. Dall’esito di questa sorta di
“presa di coscienza” tramite rispecchiamento del
singolo, Mithra, Sraosa e Rashnu, i tre dei-giudici
stabiliscono l’esito dell’anima, che si sostanzia nella
sua capacità, durante il quarto giorno, di
attraversamento del ponte, il cui passaggio risulterà
facile per i buoni e terribilmente difficile per i
malvagi.
Ai
primi Mazda darà il regno della salvezza, il “Garodman”
(il paradiso, in cui dimorano Ahura Mazda e i suoi
angeli), o, se il peso delle azioni buone e quello delle
cattive si equiparano, l’”Haméstagan” (qualcosa di
equiparabile al purgatorio o al limbo, in cui si vegeta
in uno stato di perfetto equilibrio tra bene e male e
che, in effetti, non è una concezione propria dell’Avesta,
ma sviluppata solo in seguito nella letteratura
patristica), mentre i secondi verranno cacciati nel
“Duzh Auhu” (il “Luogo dei Menzogneri”, descritto
nell’opera religioso-letteraria di Palahavi Visione
dell’Arda Viraf, con toni molto simili a quelli
usati da Dante).
Come risulta evidente, i testi avestici danno un quadro
coerente delle concezioni relative al paradiso e
all’inferno, così come del viaggio celeste dell’anima,
sia come percorso post-mortem che come esperienza di
tipo sciamanico o piuttosto estatico che suggerisce un
parallelismo tra morte e iniziazione.
Soprattutto, però, rispetto alle altre religioni coeve,
quello che emerge è un senso dell’impegno del singolo a
modellare la sua vita personale secondo criteri morali,
la conformità o meno ai quali determina una retribuzione
assoluta, unica, senza possibilità di scampo (e in
questo senso è molto significativo che anche la
concezione purgatoriale sia, in fin dei conti, un
elemento spurio e posteriore) né di ritorno (data
l’unicità dell’esistenza singolare e la sua non
ciclicità).
Tutto ciò ci parla di una società in cui non esiste
alcun livello di intromissione politica nella sfera
religiosa ma in cui, nel tentativo di una eticizzazione
assoluta, ogni aspetto deve forzatamente risultare,
almeno teoricamente, subordinato alla linea morale
stabilità dalla fede, che, di conseguenza, diviene
omninglobante.
Tale dato è riscontrabile anche passando dal piano
dell’escatologia personale a quello più generale
dell’escatologia cosmica, che, però, aggiunge due
elementi fondamentali a questo quadro: la sconfitta del
male e il tema del “grande perdono”.
Innanzitutto, nella descrizione dell’eschaton mazdeista,
abbiamo quella che potrebbe sembrare una piccola
concessione all’originale concezione ciclica indiana del
tempo (in realtà è solo una concessione apparente e una
sorta di retaggio storico all’interno di una sostanziale
linearità temporale che abbiamo detto essere tipica di
questa religione) e alle tradizioni religiose iraniche
pre-zoroastriane, allorché, nelle “Gatha”, si introduce
il concetto delle “fravasi”: nella religione
pre-zoroastriana esso designava lo spirito degli
antenati, geni protettori, ma presto con gli
zoroastriani diviene, parimenti ai Daéna,
rappresentazione degli “Io superiori” delle anime, che
scelgono di scendere sulla terra e contribuire alla
trasfigurazione cosmica.
Così, la prima “fravasi” a farlo fu quella di “Gavomart”,
il primo uomo, che avrebbe preceduto di 3000 anni la
venuta di Zoroastro, e l’ultima sarà quella di “Saosyant”,
il Redentore escatologico, giunto 3000 anni dopo la
morte di Zoroastro.
Il
risultato di tale concetto di para-ciclicità
dell’entrata del sacro nel mondo terrestre è la visione
di una storia cosmica di 12.000 anni, divisa in quattro
eoni di 3.000 anni ciascuno.
Il
primo è il periodo di esistenza spirituale in cui Ahura
Mazda, conscio della coesistenza di Ahriman, crea il
mondo in forma spirituale prima che in forma fisica,
utilizzando le “fravasi” come modello per ogni entità
futura e Ahriman, che prima ignorava l’esistenza del suo
grande rivale, di rimando crea le schiere demoniache.
Nel secondo periodo Ahriman viene sottomesso da Ahura
Mazda, che crea il mondo nella sua forma materiale, ma,
in seguito, Ahriman invade tale mondo con le sue
schiere.
Il
terzo eone vede il conflitto tra i due rivali per il
possesso dell’animo umano, fino al momento in cui
Zarathustra viene al mondo, inaugurando la quarta età,
guidata da Zarathustra stesso e dai suoi tre figli
postumi, che nasceranno in forma miracolosa (concepiti
da vergini che si fanno il bagno in un lago e assorbono
il seme di Zarathustra, miracolosamente preservato) nel
corso degli ultimi tre millenni. L’ultimo di tali figli,
dopo Hushedar e Hushedarmahnel, sarà, come accennato, il
Messia chiamato “Saosyant” (letteralmente “colui che
darà beneficio e salvezza al mondo”), a cui spetterà il
compito di liberare la terra, ormai in decadenza, da
Ahriman.
Alla fine del quarto eone, infatti, secondo gli “Yast”,
“il sole è quasi scomparso dalla viste ed è sempre
velato da macchie, i giorni, i mesi e gli anni sono più
corti e la terra è più sterile; e il raccolto non
corrisponde alla semina; e gli uomini […]
diventano sempre più ingannatori e dediti a pratiche
vili. Essi non sanno più cosa sia la gratitudine. Solo
coloro che seguono una fede perversa [cioè solo gli
adoratori di Ahriman] si arricchiscono e ricevono
onori [...] e una nuvola oscura copre il cielo
rendendo il giorno notte [...] e dal cielo
pioveranno creaturo più devastanti del peggiore inverno.”
A
questo punto apparità Saosyant a condurre l’umanità
nella lotta contro la menzogna. La sua figura, già
abbozzata negli “Yasht”, viene sviluppata soprattutto
tra IX e XI secolo, ottenendo la sua massima definizione
in quella grande “enciclopedia della religione
zoroastriana” che è il Denkard, in cui si narra
che, trent’anni prima della battaglia finale, la vergine
Eredat-fedhri (“Aiutante Vittoriosa”) concepirà senza
peccato, mentre immersa nel lago Kansava, un figlio dal
corpo lucente che, fino al momento in cui si ergerà
contro Ahriman, si nutrirà prima solo di vegetali, poi
solo di acqua, infine, solo di puro spirito.
All’età di trent’anni, infine, attorniato dai suoi
fedeli, Saosyant ingaggerà una terribile battaglia
contro tutti gli spiriti del male, che verranno
distrutti per sempre: un fiume di metallo incandescente
scioglierà ogni cosa e mentre i giusti vi passeranno in
mezzo “come in un fiume di latte”, i malvagi
saranno imprigionati nel gorgo del metallo.
A
questo punto, tutte le anime risorgeranno per il
Giudizio Finale e i giusti vivranno nella pace, mentre i
peccatori saranno puniti per tre giorni ma poi verranno
perdonati. Da quel momento in poi il mondo raggiungerà
la perfezione: la povertà, la vecchiaia, la malattia, la
fame e la sete e la morte stessa scompariranno, mentre
si instaurerà il “Buon Regno” (“Vohu Khshathra”) eterno.
Il
senso simbolico di tutto questo è piuttosto evidente:
ritorna, come in molte altre escatologie, il tema della
palingenesi edenica, questa volta, in linea con tutta
l’etica mazdeista, chiaramente ancora legato al senso di
responsabilità personale del fedele.
Si
diceva, però, che la caratteristica connotativa di
questa visione escatologica è data dall’introduzione
della linearità temporale e, d’altra parte, non poteva
essere diversamente: proprio il libero arbitrio implica
questa visione, dal momento che la scelta di campo del
singolo deve essere definitiva, addirittura ontologica
e, in questo senso, non può ammettere “prove d’appello”
legate ad una visione ciclica dei tempi e della vita.
Si
tratta, comunque, di una scelta che, oltre che
etico-morale, si prospetta come razionale: la vittoria
finale del principio del bene sulla malvagità è non solo
una speranza, ma è l’elemento portante di tutta la
teologia zoroastriana, così come è l’elemento di spinta
non solo inconscio, ma anche conscio e consapevole per
la scelta di campo del fedele che ha così tutti i motivi
per conformarsi ai dettami religiosi e unirsi da subito
a quel grande movimento di anime che porterà
ineluttabilmente alla palingenesi universale
post-escatologica.
Se, però, il giudizio è ineludibile, definitivo e
vincolato ad una sola esistenza, resta il problema di
come fare convivere l’idea di un “deus iudicans” con
quella di un “deus amoris” che pervade tutta la
religiosità mazdeista. Come visto, l’escatologia
zoroastriana supera abilmente l’impaccio con
l’escamotage dei tre giorni di punizione (ovviamente
tremenda) seguiti da un perdono generalizzato che riesce
a far sintesi delle due figure, riducendo all’unità una
dicotomia che, invece, resterà tale nel Cristianesimo.
Al
di là di questa differenza, è, comunque, impossibile non
vedere in tutti i racconti dell’eschaton (e non solo
dell’eschaton) zoroastriano, delle notevoli analogie con
la future religione Cristiana, dalla concezione
messianica alle specificazioni sull’ultimo Messia, a, in
ultima analisi, tutta la raffigurazione apocalittica.
Riferimenti bibliografici:
P.
riwaczek,
In Search of Zarathustra: The First Prophet and the
Ideas That Changed the World, Knopf 2003
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