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filosofia, religione


N. 17 - Maggio 2009 (XLVIII)

Così parlò Zarathustra…
La fine dei tempi nell’ottica mazdeista

di Lawrence M.F. Sudbury

 

A differenza di quanto molti ritengono, la grande divaricazione tra Induismo e Zoroastrismo o, più correttamente, Mazdeismo, non si gioca sul piano del passaggio dal politeismo al monoteismo (dal momento che, come risulta da un’analisi più approfondita del Mazdismo, entrambe sono piuttosto religioni enoteistiche) quanto sul piano della concezione escatologica e della sua correlazione tra essa e una visione del tempo che, da ciclico, si trasforma per la prima volta in lineare.

 

Per rendersi conto di ciò è necessario dare una pur rapida scorsa agli elementi basilari di questa fede antichissima ma, con i suoi 100.000 fedeli “Parsi” in India e i suoi circa 30.000 fedeli “Darihan” in Iran, ormai sempre più vicina all’estinzione dopo l’avvento dell’Islam che l’ha sostitutita come “religione di stato” nelle aree persiane.

 

Il primo concetto di cui tener conto è che, in origine, intorno al 1500 a.C., gli Ariani, di origine indoeuropee, erano divisi nei due sottogruppi degli Indiani e degli Irani, caratterizzati da una lingua comune e da una medesima religione, di ceppo induista.

 

Dopo il 1300 a.C., comunque, i due gruppi, per ragioni di politica migratoria e di separazione geografica, iniziarono a delinearsi come nettamente separati e a sviluppare, a partire da un substrato comune, sistemi religiosi divaricati, con gli Indiani che diedero vita ad una concezione più ascetico-filosofica del divino e gli Irani che, invece, abbracciarono una concezione molto più pragmatica, legata al destino dell’uomo come singolo e non più visto, come nell’Induismo, come “grannello di sabbia” nell’eterno ciclo del divenire, lasciando, conseguentemente, grande spazio alle ispirazioni profetiche.

 

Sostanzialmente, nel suo insistere sulla centralità della persona umana in contrapposizione alla tradizione vedica, questo sviluppo ha molti punti in comune con il buddhismo, nato in India nello stesso periodo, ma mentre il buddhismo è espressione del popolo, lo sviluppo ariano-iranico è manifestazione della classe aristocratica ed è probabilmente per questo che il primo ebbe maggior diffusione del secondo.

 

È, comunque, su questo substrato che si sviluppa la predicazione di Zarathustra, del quale, al di là della successiva mitologizzazione della sua figura (che dai fedeli è posta intorno all’8000 a.C, a lungo è stata ritenuta collocabile intorno al 600 a.C. e oggi, in base a studi linguistico-filologici sui suoi testi, viene quasi universalmente considerata databile all’incirca verso il 1200 a.C.), sappiamo davvero pochissimo.

 

Secondo le leggende, Zarathustra era di stirpe reale e si racconta che quando nacque (ridendo), la terrà tremò, i ruscelli cantarono e i malvagi tentarono di ucciderlo. Adolescente si ritirò in meditazione nel deserto, dove i Deva lo tentarono promettendogli potere e ricchezza. Egli rifiutò dicendo: “No, io non rinnegherò la buona religione degli adoratori di Mazda, no, anche se vita, membra ed anima dovessero disgregarsi”.

 

Dopo questo evento il Dio buono gli apparve e Zarathustra incominciò a predicare la nuova religione. Il suo cammino si fece molto difficile e il suo predicare alimentò incomprensioni e disappunto, finché nella Battriana il Re Visthaspa lo ascoltò, lo prese sotto la sua protezione e si convertì al suo insegnamento, con la popolazione locale, continuamente esposta al pericolo delle invasioni nomadi, che si mostrò ben disposta ad accettare una nuova religione basata sulla salvezza.

 

Al di là delle costruzioni posteriori, sembra indubitabile la storicità della sua figura, sebbene gli studiosi siano notevolmente discordi sia sul luogo della sua nascita (da alcuni posta tra Afghanistan e Turkmenistan, da altri in Azebaijan), sia sulla sua condizione sociale (secondo alcuni si trattava, dal persiano “Zaotar”, di un sacerdote, secondo altri, dal turkmeno “zartosht”, “ricco di cammelli”, di un carovaniere benestante).

 

Se, però, anche alcuni degli elementi narrati sulla sua vita avessero un fondo di verità storica (ad esempio, non esiste ragione di ritenere leggendario che Zoroastro avrebbe avuto la rivelazione a trent’anni e avrebbe convertito il suo primo discepolo a quarant’anni), la successiva tradizione religiosa rivestì Zarathustra di caratteri sovrumani fino a dar vita a una vera e propria leggenda ricca di elementi mitici e miracolistici, cosicché egli divenne l’uomo perfetto con cui ha inizio l’ultimo ciclo trimillenario della storia del cosmo, scandita in quattro cicli di tremila anni, caratterizzato dall’avvento della “buona religione”.

 

In ogni caso, chiunque egli fosse, Zoroastro (come venne conosciuto in occidente dalla grecizzazione del suo nome) fu l’autore di una delle più grandi rivoluzioni religiose della storia e il fondatore consapevole di una fede dualistica basata su un’elaborazione filosofica del problema del male che, oggettivamente, è ancora oggi un vero e proprio monumento alla dignità umana.

 

Come sulla vita del suo fondatore, anche la documentazione relativa alle origini dello Zoroastrismo è molto scarsa. L’Avesta, il libro sacro mazdeo, noto anche come Zend Avesta, venne tramandato per secoli per via orale e soltanto a partire dal III secolo d.C. venne messo per iscritto.

 

Ne fanno parte le “Gatha”, inni religiosi che la tradizione (filologicamente forse a ragione) attribuisce allo stesso Zarathustra, gli “Yasht”, inni posteriori in onore di divinità minori e i “Videvdat”, testi che riguardano i demoni.

 

In sostanza, ciò che si evince in particolare dalle “Gatha” è che Zaratustra oppose alla concezione fatalistica induista la sua religione basata sulla lotta contro il male tramite pensiero puro, parola pura e azione pura.

 

Il tratto originale delle “Gatha” è proprio la loro natura speculativa e filosofica: il pensiero di Zoroastro rielabora concetti e nozioni fondamentali della tradizione indoiranica, dando però loro nuovi significati marcatamente astratti, trasferendosi da un piano cosmico e rituale a un piano propriamente etico, dominato dal concetto di scelta e costituendo una trama in cui si dispiega un pensiero organico e coerente.

 

Così, l’’innovazione gathica contrappose a un vecchio modo di concepire il divino e l’atto cultuale, una nuova visione dell’uomo e del mondo, dominata dalla lotta tra Bene e Male e dalla conseguente scelta che a ciascuno si impone.  

 

Al fondo di tale rivoluzione c’è una consapevolezza del male, del dolore, dell’ingiustizia che pervadono l’esistenza terrena, analoga nelle premesse a quella che sospinse il Buddha verso l’illuminazione, ma che perviene a risultati completamente diversi rispetto al Buddhismo.

 

Nodo centrale dello Zoroastrismo, dunque, è la costante lotta tra il bene e il male, che viene sostanziata attraverso tratti semi-mitologici: agli inizi della creazione, esiste il dio supremo, “Ahura Mazda” (che significa Signore Saggio), caratterizzato da luce infinita, onniscienza e bontà. Egli è accompagnato da sette esseri, gli “Amesha Spenta”, detti i “santi immortali”, responsabili delle sette creazioni dell’antica cosmogonia (e da qui il marcato enoteismo mazdista).

 

A un certo punto, dal dio supremo sono emanati due spiriti contrapposti, “Spenta Mainyu”, lo spirito del bene e “Angra Mainyu” (o “Ahriman”), lo spirito del male o Spirito Distruttore: essi sono come due gemelli eternamente in lotta tra di loro e il conflitto interessa l’intero universo, inclusa l’umanità, alla quale è richiesto di compiere una scelta tra la via del bene e della giustizia (“Asha”) che porta alla felicità o la via del male che porta all’infelicità, all’inimicizia e alla guerra.

 

Secondo gran parte degli studiosi, il dualismo etico è il tratto più caratteristico e originale del pensiero di Zoroastro, che deve completare la sua visione, tendenzialmente monoteista, attraverso l’inserzione di un “principio del male”, dal momento che un monoteismo puro e non dualistico non avrebbe potuto spiegare la presenza del dolore e di tutto ciò che è negativo all’interno della creazione di un dio “infinitamente buono”.

 

Così, il dualismo di Zoroastro è un dualismo di due Spiriti (il Bene e il Male), non, come in alcune derivazioni successive, di spirito e materia ed è confinato sul piano dell’esistenza mentale, ma con una presenza di entrambi nel creato, in quanto l’esistenza mentale o spirituale influisce su quella materiale.

 

Secondo Eliade, però, la religione di Zarathustra non è, in fin dei conti, dualistica, perché l’opposizione avviene a livello degli spiriti emanati dal Dio Supremo: come il bene origina le figure divine benefiche, così il male genera quelle malefiche, con il risultato che nello Zoroastrismo non esiste determinismo: l’uomo è libero di scegliere, come fece “Angra Mainyu”, emanato dal Dio Supremo, che scelse il male, e il problema diventa, dunque, spiegare l’esistenza del male, condizione preliminare per l’esistenza del libero arbitrio.

 

In questo senso, la separazione iniziale tra il Bene il Male sembra esser stata il frutto della scelta, introdotta da “Ahura Mazda”, tra la Giustizia e l’Inganno, abbracciati rispettivamente da “Spenta Mainyu” e da “Angra Mainyu”.

 

Il libero arbitrio diventa, di conseguenza, il nodo centrale di tutto l’assunto religioso e, quindi, dell’etica mazdeista, in cui l’amore per la pace, per la giustizia, per la verità e per la terra sono considerate le virtù supreme: spetta all’uomo e al suo senso di responsabilità seguire il principio del bene, nonostante la dura lotta interiore che inevitabilmente dovrà affrontare.

 

Ogni altro dato, di fronte a questi principi fondamentali, passa in secondo piano. Così, lo Zoroastrismo è una religione basata sull’uguaglianza sessuale tra uomini e donne e, anzi, punto fondamentale del suo credo è l’uguaglianza di tutti gli esseri senza distinzioni di razza o fede religiosa e rispetto totale verso ogni cosa.

 

Questo spiega il fatto che un tratto caratteristico dello zoroastrismo originale fosse l’accentuato antiritualismo, che, però, andò un po’ spegnendosi con il passare del tempo (così come andò perdendosi la sua marcata tolleranza, tanto da indurre alcuni gruppi a ritenere un precetto fondamentale quello di “combattere l’eretico”).

 

È probabile che ciò fosse dovuto alla progressiva commistione con il potere politico.

 

Lo Zoroastrismo, infatti, nel tempo diffusosi soprattutto tra i popoli iranici d’Europa (Sciti e Sarmati, per esempio) e d’Asia, fu certamente la religione favorita dalle due grandi dinastie dell’antica Persia, gli Achemenidi ed i Sasanidi, sebbene, non essendo sopravvissute fonti scritte persiane contemporanee di quel periodo, è difficile descrivere la natura dell’antico Zoroastrismo in dettaglio cosicché, ad esempio, la descrizione di Erodoto della religione persiana include in effetti alcune caratteristiche proprie dello Zoroastrismo (come l’esposizione dei morti nelle cosiddette “Torri del Silenzio” perché il corpo, privato dell’anima non “sporchi” la Madre Terra) e, in alcune iscrizioni, i re achemenidi riconobbero la loro devozione ad “Ahura Mazda”, ma essi furono anche partecipi dei rituali religiosi locali a Babilonia e in Egitto (di fatto, comunque, i Persiani aiutarono certamente gli Ebrei a ritornare nella loro terra natia, ricostruendo i loro templi, cosa che sembra escludere che vi fosse stata da parte loro una imposizione dell’ortodossia religiosa sui sudditi).

 

Dopo il trionfo ottenuto sotto la protezione e la conversione di re achmenidi come Vishtaspa e di Ciro il Grande (600-518 a.C.), lo zoroastrismo venne, comunque, oscurato dall’arrivo di Alessandro Magno che fece della Persia una propaggine del regno macedone. È durante questo periodo che andò perduta anche gran parte dell’Avesta, all’infuori dei libri di cui si è detto.

 

Dopo la morte di Alessandro Magno e la disgregazione dell’impero, in Persia salì al potere la dinastia dei Sasanidi (226-651 d.C.) che riportò lo zoroastrismo all’antico vigore e, probabilmente, è a questo periodo che si deve un certo irrigidimento nell’ortodossia religiosa, tanto che molte fonti cristiane del periodo in questione informano che i re sasanidi perseguitarono i Cristiani in Persia, e un certo grado di maggior sincretismo, che portò anche alla credenza popolare che “Ahura Mazda” e “Angra Mainyu” fossero figli del dio del tempo Zurvan.

 

Nel VII secolo la dinastia sasanide fu abbattuta dagli Arabi musulmani e gli Zoroastriani ottennero lo status di “Popolo del Libro” (“Ahl al-Kitāb”) da parte del califfo ’Umar bin al-Khattāb, ma l’uso dell’Avesta antico (quello che ne rimaneva) e delle lingue persiane fu proibito, dal momento che i conquistatori islamici considerarono gli insegnamenti di Zarathustra come un culto politeistico. Così, lentamente ma inesorabilmente, il Mazdismo perse la sua influenza, fino a ridursi ai minimi termini nel periodo contemporaneo (comunque anche dovuti all’abitudine all’endogamia).

 

Al di là delle vicende storiche, che certamente influenzarono la purezza filosofico-dottrinale originaria (si pensi alle cinque preghiere giornaliere del fedele, che rappresentano piuttosto evidentemente un elemento spurio derivato dall’Islam), resa ancora oggi la centralità spirituale del concetto etico di “purezza” che caratterizza tutto il sistema religioso zoroastriano, tanto che l’iconografia del divino si riduce in realtà ad una sorta di “culto del fuoco”, visto come “la più pura delle cose create” e tenuto continuamente acceso e custodito in appositi templi.

 

Va ribadito, comunque, che quella della purezza non è una pura ossessione devozionale, ma il frutto desiderato di un processo etico-filosofico alla cui base sta la libera scelta, il libero arbitrio del singolo che decide di porsi nel campo del bene (puro) contro le forze (impure) del male.

 

Ed è proprio sul concetto di scelta, dettata dal libero arbitrio, della purezza che si fonda l’intera escatologia, sia personale che cosmica, dello zoroastrismo.

 

Dal punto di vista dell’escatologia personale, tutto si gioca, infatti, sul classico (classico per noi, dal momento che proprio nel Mazdeismo abbiamo una prima chiara e inequivocabile formulazione etica in questo senso) meccanismo di azione-ricompensa.

 

Secondo la struttura escatologica zoroastriana, infatti, che, dal punto di vista della simbologizzazione e leggendarizzazione popolare riprende una precedente tradizione indo-iranica del viaggio dei morti e sottolinea l’importanza del giudizio post-mortem, quando un uomo muore, la sua anima, dopo aver soggiornato tre giorni sopra il corpo, si dirige al “Ponte Chinvat” (il “Ponte del Cernitore”) guidata da Sraosa (una divinità che funge da figura di psicopompo) dove la aspetta il suo “Daéna”.

 

Tale “Daéna” (o “visione mentale”), esprime il concetto di una sorta di “io interiore” di cui l’anima diviene cosciente dopo il decesso. Di fatto, in questo senso, lo zoroastriano stabilisce un rapporto privato e intimo con la fede, in molte circostanze fuori da ogni mediazione ecclesiastica, quasi con una religione interiore il cui interlocutore è, appunto, il “Daena”, il doppio celeste dell’io interiore.

 

Di natura divina, esso rappresenta lo specchio con cui Mazda vede in segreto le azioni degli uomini, stabilisce se sono buone o malvagie. Dall’esito di questa sorta di “presa di coscienza” tramite rispecchiamento del singolo, Mithra, Sraosa e Rashnu, i tre dei-giudici stabiliscono l’esito dell’anima, che si sostanzia nella sua capacità, durante il quarto giorno, di attraversamento del ponte, il cui passaggio risulterà facile per i buoni e terribilmente difficile per i malvagi.

 

Ai primi Mazda darà il regno della salvezza, il “Garodman” (il paradiso, in cui dimorano Ahura Mazda e i suoi angeli), o, se il peso delle azioni buone e quello delle cattive si equiparano, l’”Haméstagan” (qualcosa di equiparabile al purgatorio o al limbo, in cui si vegeta in uno stato di perfetto equilibrio tra bene e male e che, in effetti, non è una concezione propria dell’Avesta, ma sviluppata solo in seguito nella letteratura patristica), mentre i secondi verranno cacciati nel “Duzh Auhu” (il “Luogo dei Menzogneri”, descritto nell’opera religioso-letteraria di Palahavi Visione dell’Arda Viraf, con toni molto simili a quelli usati da Dante).

 

Come risulta evidente, i testi avestici danno un quadro coerente delle concezioni relative al paradiso e all’inferno, così come del viaggio celeste dell’anima, sia come percorso post-mortem che come esperienza di tipo sciamanico o piuttosto estatico che suggerisce un parallelismo tra morte e iniziazione.

 

Soprattutto, però, rispetto alle altre religioni coeve, quello che emerge è un senso dell’impegno del singolo a modellare la sua vita personale secondo criteri morali, la conformità o meno ai quali determina una retribuzione assoluta, unica, senza possibilità di scampo (e in questo senso è molto significativo che anche la concezione purgatoriale sia, in fin dei conti, un elemento spurio e posteriore) né di ritorno (data l’unicità dell’esistenza singolare e la sua non ciclicità).

 

Tutto ciò ci parla di una società in cui non esiste alcun livello di intromissione politica nella sfera religiosa ma in cui, nel tentativo di una eticizzazione assoluta, ogni aspetto deve forzatamente risultare, almeno teoricamente, subordinato alla linea morale stabilità dalla fede, che, di conseguenza, diviene omninglobante.

 

Tale dato è riscontrabile anche passando dal piano dell’escatologia personale a quello più generale dell’escatologia cosmica, che, però, aggiunge due elementi fondamentali a questo quadro: la sconfitta del male e il tema del “grande perdono”.

 

Innanzitutto, nella descrizione dell’eschaton mazdeista, abbiamo quella che potrebbe sembrare una piccola concessione all’originale concezione ciclica indiana del tempo (in realtà è solo una concessione apparente e una sorta di retaggio storico all’interno di una sostanziale linearità temporale che abbiamo detto essere tipica di questa religione) e alle tradizioni religiose iraniche pre-zoroastriane, allorché, nelle “Gatha”, si introduce il concetto delle “fravasi”: nella religione pre-zoroastriana esso designava lo spirito degli antenati, geni protettori, ma presto con gli zoroastriani diviene, parimenti ai Daéna, rappresentazione degli “Io superiori” delle anime, che scelgono di scendere sulla terra e contribuire alla trasfigurazione cosmica.

 

Così, la prima “fravasi” a farlo fu quella di “Gavomart”, il primo uomo, che avrebbe preceduto di 3000 anni la venuta di Zoroastro, e l’ultima sarà quella di “Saosyant”, il Redentore escatologico, giunto 3000 anni dopo la morte di Zoroastro.

 

Il risultato di tale concetto di para-ciclicità dell’entrata del sacro nel mondo terrestre è la visione di una storia cosmica di 12.000 anni, divisa in quattro eoni di 3.000 anni ciascuno.

 

Il primo è il periodo di esistenza spirituale in cui Ahura Mazda, conscio della coesistenza di Ahriman, crea il mondo in forma spirituale prima che in forma fisica, utilizzando le “fravasi” come modello per ogni entità futura e Ahriman, che prima ignorava l’esistenza del suo grande rivale, di rimando crea le schiere demoniache.

 

Nel secondo periodo Ahriman viene sottomesso da Ahura Mazda, che crea il mondo nella sua forma materiale, ma, in seguito, Ahriman invade tale mondo con le sue schiere.

 

Il terzo eone vede il conflitto tra i due rivali per il possesso dell’animo umano, fino al momento in cui Zarathustra viene al mondo, inaugurando la quarta età, guidata da Zarathustra stesso e dai suoi tre figli postumi, che nasceranno in forma miracolosa (concepiti da vergini che si fanno il bagno in un lago e assorbono il seme di Zarathustra, miracolosamente preservato) nel corso degli ultimi tre millenni. L’ultimo di tali figli, dopo Hushedar e Hushedarmahnel, sarà, come accennato, il Messia chiamato “Saosyant” (letteralmente “colui che darà beneficio e salvezza al mondo”), a cui spetterà il compito di liberare la terra, ormai in decadenza, da Ahriman.

 

Alla fine del quarto eone, infatti, secondo gli “Yast”, “il sole è quasi scomparso dalla viste ed è sempre velato da macchie, i giorni, i mesi e gli anni sono più corti e la terra è più sterile; e il raccolto non corrisponde alla semina; e gli uomini […] diventano sempre più ingannatori e dediti a pratiche vili. Essi non sanno più cosa sia la gratitudine. Solo coloro che seguono una fede perversa [cioè solo gli adoratori di Ahriman] si arricchiscono e ricevono onori [...] e una nuvola oscura copre il cielo rendendo il giorno notte [...] e dal cielo pioveranno creaturo più devastanti del peggiore inverno.

 

A questo punto apparità Saosyant a condurre l’umanità nella lotta contro la menzogna. La sua figura, già abbozzata negli “Yasht”, viene sviluppata soprattutto tra IX e XI secolo, ottenendo la sua massima definizione in quella grande “enciclopedia della religione zoroastriana” che è il Denkard, in cui si narra che, trent’anni prima della battaglia finale, la vergine Eredat-fedhri (“Aiutante Vittoriosa”) concepirà senza peccato, mentre immersa nel lago Kansava, un figlio dal corpo lucente che, fino al momento in cui si ergerà contro Ahriman, si nutrirà prima solo di vegetali, poi solo di acqua, infine, solo di puro spirito.

 

All’età di trent’anni, infine, attorniato dai suoi fedeli, Saosyant ingaggerà una terribile battaglia contro tutti gli spiriti del male, che verranno distrutti per sempre: un fiume di metallo incandescente scioglierà ogni cosa e mentre i giusti vi passeranno in mezzo “come in un fiume di latte”, i malvagi saranno imprigionati nel gorgo del metallo.

 

A questo punto, tutte le anime risorgeranno per il Giudizio Finale e i giusti vivranno nella pace, mentre i peccatori saranno puniti per tre giorni ma poi verranno perdonati. Da quel momento in poi il mondo raggiungerà la perfezione: la povertà, la vecchiaia, la malattia, la fame e la sete e la morte stessa scompariranno, mentre si instaurerà il “Buon Regno” (“Vohu Khshathra”) eterno.

 

Il senso simbolico di tutto questo è piuttosto evidente: ritorna, come in molte altre escatologie, il tema della palingenesi edenica, questa volta, in linea con tutta l’etica mazdeista, chiaramente ancora legato al senso di responsabilità personale del fedele.

 

Si diceva, però, che la caratteristica connotativa di questa visione escatologica è data dall’introduzione della linearità temporale e, d’altra parte, non poteva essere diversamente: proprio il libero arbitrio implica questa visione, dal momento che la scelta di campo del singolo deve essere definitiva, addirittura ontologica e, in questo senso, non può ammettere “prove d’appello” legate ad una visione ciclica dei tempi e della vita.

 

Si tratta, comunque, di una scelta che, oltre che etico-morale, si prospetta come razionale: la vittoria finale del principio del bene sulla malvagità è non solo una speranza, ma è l’elemento portante di tutta la teologia zoroastriana, così come è l’elemento di spinta non solo inconscio, ma anche conscio e consapevole per la scelta di campo del fedele che ha così tutti i motivi per conformarsi ai dettami religiosi e unirsi da subito a quel grande movimento di anime che porterà ineluttabilmente alla palingenesi universale post-escatologica.

 

Se, però, il giudizio è ineludibile, definitivo e vincolato ad una sola esistenza, resta il problema di come fare convivere l’idea di un “deus iudicans” con quella di un “deus amoris” che pervade tutta la religiosità mazdeista. Come visto, l’escatologia zoroastriana supera abilmente l’impaccio con l’escamotage dei tre giorni di punizione (ovviamente tremenda) seguiti da un perdono generalizzato che riesce a far sintesi delle due figure, riducendo all’unità una dicotomia che, invece, resterà tale nel Cristianesimo.

 

Al di là di questa differenza, è, comunque, impossibile non vedere in tutti i racconti dell’eschaton (e non solo dell’eschaton) zoroastriano, delle notevoli analogie con la future religione Cristiana, dalla concezione messianica alle specificazioni sull’ultimo Messia, a, in ultima analisi, tutta la raffigurazione apocalittica.

 

 

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