arte
Matthew Barney
Tra il provocatorio e il sublime
di Francesco Antinolfi
Matthew Barney, considerato uno dei personaggi più
visionari del panorama artistico contemporaneo, tra
gli artisti più rappresentativi dell’ultimo decennio
del Novecento, nasce a San Francisco,
in California,
il 25 marzo 1967.
La sua produzione artistica è composta
principalmente da performance documentate attraverso
video e fotografie, ma anche da disegni, sculture,
collage e appunti. La sua arte è volutamente ambigua
e provocatoria, incentrata sulla fluidità di genere
e soprattutto sul corpo: un corpo ibrido in
mutazione nel tempo, vulnerabile, conflittuale,
coinvolto in modo totale all’interno delle sue
opere.
Diplomato nel 1985 alla Capital High School di Boise,
nell’estate di quell’anno cerca lavoro per
iscriversi nella prestigiosa Università di Yale alla
Facoltà di Medicina, intraprendendo inizialmente la
carriera di fotomodello; ma solo dopo due semestri
inizia a seguire i corsi del dipartimento di
Arte per dedicarsi alle Arti Visive. Nel 1989
conclude i suoi studi con una Tesi dal titolo
Field Dressing (“Superficie Fasciata”),
costituita da un video realizzato in due stanze del
Payne Whitney Gymnasium di Yale. Dopo la laurea si
trasferisce a New York.
.
Mattew Barney
Nella Grande Mela, Barney si inserisce in un
contesto di grande fermento e mutazione: sono gli
anni di Keith Haring, Cyndy Sherman, Barbara Kruger,
sono gli anni dove vengono cancellate le ultime
reminiscenze delle gerarchie culturali tradizionali,
caratterizzati da un interesse sempre più crescente
per l’arte contemporanea e dalla grande
globalizzazione culturale.
Nel 1990 espone la sua Tesi Field Dressing
nella mostra collettiva all’Althea Viafora Gallery
di New York, e fu notato da Clarissa Dalrymple,
gallerista della Petersburg Gallery, la quale
propone a Barney una personale, purtroppo con esito
negativo poiché soli due giorni dopo la galleria
chiuse.
La svolta giunge nel 1991 grazie alla Gladstone
Gallery di New York dove la gallerista Barbara
Gladstone puntò tutto su Barney, dimostrando una
grande capacità imprenditoriale e riuscendo a
cogliere con largo anticipo i mutamenti in senso
industriale dell’arte. Un’intuizione azzeccata visto
che i suoi film sono ritenuti un elemento di
produzione nevralgico nel panorama più recente
dell’arte contemporanea.
Tra il 1992 e il 1993
partecipa a Documenta
IX a
Kassel, in Germania, in cui espone OTTOshaft,
un’opera composta da una varietà di
materiali organici, cibo, oggetti di plastica e da
filmati video che vengono trasmessi
ininterrottamente su monitor montati sul soffitto.
Nei video viene registrata una sequenza di azioni
sconcertanti, a volte frenetiche. Sempre nel corso
dello stesso anno partecipa alla Whitney Biennial e
alla Biennale di Venezia
dove vince il premio “Premio Europa 2000 per miglior
videoartista esordiente”.
.
Otto Shaft
(1992)
Nel 1994 Barney inizia la produzione di quella che
diverrà una delle sue opere più importanti: il
Cremaster Cycle, ciclo composto da cinque
lungometraggi, usciti non rispettando la
progressione
numerica ma l’ordine di seguito elencato: Cremaster
4 (1994), Cremaster 1 (1995), Cremaster 5 (1997),
Cremaster 2 (1999), Cremaster 3 (2002).
I film esplorano i processi di creazione, e in
ognuno di essi Barney si presenta in ruoli diversi:
nelle vesti di un satiro, di un mago, di un ariete,
di Harry Houdini o del killer Gary Gilmore.
Attraverso l’uso di immagini sfarzose, a tratti
barocche, l’artista esprime una personalissima
meditazione sulla realtà dell’individuo che si muove
all’interno di una società in cui il concetto di
identità appare ambiguo, fluido e in continuo
cambiamento. L’opera fa riferimento ai miti e ai
modelli della cultura americana a cui si aggiungono
riferimenti culturali di diverso tipo, dalla
mitologia greca alla massoneria, allo shintoismo,
dove il corpo dell’artista è rappresentato in
continua evoluzione. Quest’opera riflette a pieno la
concezione artistica di Barney dove il corpo è
inteso come “materia grezza”, da modellare, una
tappa iniziale del processo di creazione
dell’individuo che progressivamente prenderà forma.
.
The Cremaster Cycle
(1996-2002)
Successivamente al Cremaster Cycle, nel 2005,
Barney realizza il suo film/progetto Drawing
Restraint 9. Anche quest’opera è
composta da una serie di lungometraggi, sculture su
larga scala, fotografie, disegni e libri. Il tema è
sempre quello
dell’esplorazione del corpo maschile attraverso
l’estremo sforzo fisico, visto come una sottile
metafora della creazione artistica.
Il film è ambientato principalmente a bordo della
nave baleniera
giapponese Nisshin Maru nel
Mar del Giappone, durante il suo viaggio annuale
verso l’Antartide,
dove
Barney insieme alla moglie Bjork, la quale ha
co-scritto ed eseguito la maggior parte delle
musiche, compaiono come visitatori,
sviluppando temi complessi che ruotano attorno alla
caccia alle balene, alla cerimonia del tè
giapponese, allo shintoismo, all’utilizzo delle
risorse della Terra (petrolio).
.
Drawing Restraint 9
(2005)
Matthew Barney attualmente vive tra New York e
Reykjavík, nella città americana ha il suo studio al
13th Street in Manhattan’s Meatpacking
District.
Seppur ispirandosi al purismo di Joseph Beuys, Vito
Acconci, Bruce Nauman, Barney non è mai assoluto,
sempre eclettico e per questo riesce a essere
un’artista polivalente inglobando più forme d’arte,
scultura, fotografia, videoarte, riuscendo a entrare
perfettamente in sintonia con le nuove priorità di
una generazione più giovane.
Riferimenti bibliografici:
Nicola Dusi, Cosetta G. Saba,
Matthew Barney, polimorfismo, multi modalità,
neobraocco,
Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Mi) 2012. |