[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

189 / SETTEMBRE 2023 (CCXX)


arte

Matthew Barney
Tra il provocatorio e il sublime
di Francesco Antinolfi

 

Matthew Barney, considerato uno dei personaggi più visionari del panorama artistico contemporaneo, tra gli artisti più rappresentativi dell’ultimo decennio del Novecento, nasce a San Francisco, in California, il 25 marzo 1967. 

 

La sua produzione artistica è composta principalmente da performance documentate attraverso video e fotografie, ma anche da disegni, sculture, collage e appunti. La sua arte è volutamente ambigua e provocatoria, incentrata sulla fluidità di genere e soprattutto sul corpo: un corpo ibrido in mutazione nel tempo, vulnerabile, conflittuale, coinvolto in modo totale all’interno delle sue opere.

 

Diplomato nel 1985 alla Capital High School di Boise, nell’estate di quell’anno cerca lavoro per iscriversi nella prestigiosa Università di Yale alla Facoltà di Medicina, intraprendendo inizialmente la carriera di fotomodello; ma solo dopo due semestri inizia a seguire i corsi del dipartimento di Arte per dedicarsi alle Arti Visive. Nel 1989 conclude i suoi studi con una Tesi dal titolo Field Dressing (“Superficie Fasciata”), costituita da un video realizzato in due stanze del Payne Whitney Gymnasium di Yale. Dopo la laurea si trasferisce a New York.

 

 

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Mattew Barney

 

Nella Grande Mela, Barney si inserisce in un contesto di grande fermento e mutazione: sono gli anni di Keith Haring, Cyndy Sherman, Barbara Kruger, sono gli anni dove vengono cancellate le ultime reminiscenze delle gerarchie culturali tradizionali, caratterizzati da un interesse sempre più crescente per l’arte contemporanea e dalla grande globalizzazione culturale.

 

Nel 1990 espone la sua Tesi Field Dressing nella mostra collettiva all’Althea Viafora Gallery di New York, e fu notato da Clarissa Dalrymple, gallerista della Petersburg Gallery, la quale propone a Barney una personale, purtroppo con esito negativo poiché soli due giorni dopo la galleria chiuse.

 

La svolta giunge nel 1991 grazie alla Gladstone Gallery di New York dove la gallerista Barbara Gladstone puntò tutto su Barney, dimostrando una grande capacità imprenditoriale e riuscendo a cogliere con largo anticipo i mutamenti in senso industriale dell’arte. Un’intuizione azzeccata visto che i suoi film sono ritenuti un elemento di produzione nevralgico nel panorama più recente dell’arte contemporanea.

 

Tra il 1992 e il 1993 partecipa a Documenta IX a Kassel, in Germania, in cui espone OTTOshaft, un’opera composta da una varietà di materiali organici, cibo, oggetti di plastica e da filmati video che vengono trasmessi ininterrottamente su monitor montati sul soffitto. Nei video viene registrata una sequenza di azioni sconcertanti, a volte frenetiche. Sempre nel corso dello stesso anno partecipa alla Whitney Biennial e alla Biennale di Venezia dove vince il premio “Premio Europa 2000 per miglior videoartista esordiente”.

 

 

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Otto Shaft (1992)

 

Nel 1994 Barney inizia la produzione di quella che diverrà una delle sue opere più importanti: il Cremaster Cycle, ciclo composto da cinque lungometraggi, usciti non rispettando la progressione numerica ma l’ordine di seguito elencato: Cremaster 4 (1994), Cremaster 1 (1995), Cremaster 5 (1997), Cremaster 2 (1999), Cremaster 3 (2002). I film esplorano i processi di creazione, e in ognuno di essi Barney si presenta in ruoli diversi: nelle vesti di un satiro, di un mago, di un ariete, di Harry Houdini o del killer Gary Gilmore.

 

Attraverso l’uso di immagini sfarzose, a tratti barocche, l’artista esprime una personalissima meditazione sulla realtà dell’individuo che si muove all’interno di una società in cui il concetto di identità appare ambiguo, fluido e in continuo cambiamento. L’opera fa riferimento ai miti e ai modelli della cultura americana a cui si aggiungono riferimenti culturali di diverso tipo, dalla mitologia greca alla massoneria, allo shintoismo, dove il corpo dell’artista è rappresentato in continua evoluzione. Quest’opera riflette a pieno la concezione artistica di Barney dove il corpo è inteso come “materia grezza”, da modellare, una tappa iniziale del processo di creazione dell’individuo che progressivamente prenderà forma. 

 

 

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The Cremaster Cycle (1996-2002)

 

Successivamente al Cremaster Cycle, nel 2005, Barney realizza il suo film/progetto Drawing Restraint 9. Anche quest’opera è composta da una serie di lungometraggi, sculture su larga scala, fotografie, disegni e libri. Il tema è sempre quello dell’esplorazione del corpo maschile attraverso l’estremo sforzo fisico, visto come una sottile metafora della creazione artistica. Il film è ambientato principalmente a bordo della nave baleniera giapponese Nisshin Maru nel Mar del Giappone, durante il suo viaggio annuale verso l’Antartide, dove Barney insieme alla moglie Bjork, la quale ha co-scritto ed eseguito la maggior parte delle musiche, compaiono come visitatori, sviluppando temi complessi che ruotano attorno alla caccia alle balene, alla cerimonia del tè giapponese, allo shintoismo, all’utilizzo delle risorse della Terra (petrolio). 

 

  

 

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Drawing Restraint 9 (2005)

 

Matthew Barney attualmente vive tra New York e Reykjavík, nella città americana ha il suo studio al 13th Street in Manhattan’s Meatpacking District.

 

Seppur ispirandosi al purismo di Joseph Beuys, Vito Acconci, Bruce Nauman, Barney non è mai assoluto, sempre eclettico e per questo riesce a essere un’artista polivalente inglobando più forme d’arte, scultura, fotografia, videoarte, riuscendo a entrare perfettamente in sintonia con le nuove priorità di una generazione più giovane.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Nicola Dusi, Cosetta G. Saba, Matthew Barney, polimorfismo, multi modalità, neobraocco, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Mi) 2012.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]