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N. 126 - Giugno 2018 (CLVII)

masaniello

il giovane eroe e la reale repubblica napoletana
di Umberto Vitiello

 

Tommaso Aniello d’Amalfi, detto Masaniello, è tornato in auge con le Quattro Giornate di Napoli del 27-30 settembre 1943, insurrezione popolare con la quale durante la Seconda Guerra Mondiale i napoletani fiancheggiati da militari fedeli al Regno del Sud riuscirono a liberare la loro città dall’occupazione delle forze armate nazi-tedesche e dai fascisti italiani loro collaboratori.

 

«Le Quattro Giornate di Napoli, espressione di antifascismo morale e politico, il cui ricordo è vivido ancora oggi – scrive anni dopo Marina Azzinnari – rappresentano un evento della storia nazionale non isolato: un filo rosso lega il popolo napoletano delle Quattro Giornate, attraverso l’esperienza risorgimentale, ai patrioti della Repubblica napoletana del 1799, eredi del popolo di Masaniello. Nel 1943, come assunto dalla storiografia, dal meridione parte la prima resistenza, in cui Napoli gioca il ruolo di laboratorio della transizione dal fascismo alla repubblica».

 

Il periodo storico durante il quale in Italia Masaniello fu maggiormente denigrato fu il ventennio di dittatura fascista. A quell’epoca nei testi scolastici o non se ne parlava affatto o veniva descritto come un popolano che conquistato il potere s’era dato esclusivamente al proprio arricchimento illecito.

 

La propulsione promozionale di rievocazione e rivalutazione dell’eroe popolare napoletano del ‘600 nel celebrare le Quattro Giornate di Napoli indusse i padri carmelitani a collocare nel 1961, anno del Centenario dell’Unità d’Italia, una lapide in suo ricordo nella Chiesa del Carmine di Napoli e un’altra nel loro adiacente convento.

 

La prima, posta dov’era un tempo la sua sepoltura, porta incise queste parole: “Mendace riparazione/ di un delitto preordinato/ il sepolcro di/ MASANIELLO/ qui era/ fu tolto/ per mire politiche/ di un dispotico sovrano/ nel 1799/ durante/ la Rivoluzione Partenopea”.

 

La seconda, collocata nel corridoio principale del monastero dove Masaniello fu ammazzato, porta incise queste parole: “Umile pescivendolo/ nativo di Piazza Mercato/ e sguattero di questo convento/ MASANIELLO DI CICCO D’AMALFI/ capitano generale del popolo napoletano/ dopo aver inutilmente / levato la voce e le armi/ contro l’oppressore straniero/ per trame ordite dalla spergiuri viceré/ il duca d’Arcos/ QUI CADDE/ il 16 luglio 1647. / I Padri Carmelitani/ nel Centenario dell’Unità d’Italia”.

 

Le due lapidi restituiscono dignità e onore a un personaggio ch’era stato col tempo degradato fino a divenire il suo nome, Masaniello, sinonimo di demagogo populista.

Da allora, da quando cioè nel 1961 sono state poste dai padri carmelitani queste due lapidi, una nella Chiesa del Carmine e l’altra nel convento, egli è tornato ad essere considerato un rivoluzionario riverito, ritenuto addirittura “nostro contemporaneo”, stando a quanto teorizza Benedetto Croce.

 

Secondo il filosofo: «Il bisogno pratico, che è nel fondo di ogni giudizio storico, conferisce a ogni storia il carattere di ‘storia contemporanea’, perché, per remoti e remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale quei fatti propagano le loro vibrazioni».

 

Un giudizio storico che deve ovviamente essere il risultato di una interpretazione corretta degli eventi e non finalizzato a indebiti scopi speculativi.

 

Le due lapidi volute e poste dai padri carmelitani ci tramandano il ricordo d’un ventisettenne di nome Tommaso Aniello, detto Masaniello, che l’11 luglio 1647 fu nominato Capitano Generale del Fedelissimo Popolo Napoletano in seguito alla rivolta da lui capeggiata contro le gabelle, rivolta andata a buon fine.

 

Purtroppo appena cinque giorni dopo, esattamente il 16 luglio di quello stesso 1647, festa della Madonna del Carmine, egli cercò con tutte le sue forze di difendersi dalle accuse di tradimento e di follia che l’avevano travolto. Ma non ottenne che minacce e, vistosi perso, si rifugiò nella Chiesa del Carmine, dove strappandosi i propri abiti fece il suo ultimo discorso al popolo che gli aveva voltato le spalle da quando si erano diffuse le infamanti calunnie su di lui.

 

I padri carmelitani riuscirono a calmarlo e Masaniello, per consentire la ripresa della Messa da lui interrotta, se ne andò nel convento, dove percorrendo il corridoio principale fu raggiunto da uomini armati che lo ammazzarono con alcuni colpi di archibugio.

 

Decapitato, mentre il corpo fu gettato in un fosso non lontano dalla Chiesa del Carmine, la sua testa fu portata in giro per la città dopo essere stata mostrata al viceré Rodrigo Ponce de Leòn, duca d’Arcos.

 

Bastò tuttavia un brevissimo lasso di tempo perché diversi popolani si rendessero conto che con la morte di Masaniello le gabelle avevano immediatamente ripreso a salire e che la palata di pane, pur conservando lo stesso prezzo, era diminuita di peso. E non furono pochi quelli che compresero d’aver fatto un grande errore a credere veritiere le calunnie di tradimento e di follia ch’erano state diffuse per togliere a Masaniello il consenso del popolo ed eliminarlo fisicamente senza provocare una nuova rivolta.

 

Per l’acquisita consapevolezza di ciò ch’era davvero accaduto i più coscienziosi di loro si sentirono in dovere di andare a ripescare il suo cadavere nel fossato in cui era stato buttato, lo lavarono, gli congiunsero la testa che altri avevano recuperato, e a meno di due giorni dalla sua morte portarono il suo cadavere in giro per la città: una processione che ebbe fine in piena notte nella Chiesa del Carmine, dove il cadavere fu sepolto col consenso delle autorità per la “mendace riparazione di un delitto preordinato”, com’è scritto all’inizio della prima lapide.

 

E là rimase fino alla repressione della Repubblica Napoletana del 1799, quando Ferdinando IV tornato sul trono ne ordinò la rimozione.

 

Tommaso Aniello d’Amalfi, detto Masaniello, era nato a Napoli il 29 giugno 1620 in Vico Rotto al Mercato da Francesco d’Amalfi e Antonia Gargano. D’Amalfi è il suo cognome e non la città di provenienza, come ricercatori poco attenti avevano creduto e fatto credere. Ne fa testo il registro della Chiesa parrocchiale di Santa Caterina in Foro Magno, dove fu battezzato il giorno stesso della sua nascita. Ed è in questa chiesa che nel 1641, quando aveva 21 anni, Masaniello sposò la sedicenne Bernardina Pisa.

 

Pescatore e pescivendolo come suo padre, Masaniello quando vendeva il pesce ai nobili, come il duca di Maddaloni Diomede Carafa e la marchesa di Brienza, glielo portava personalmente, cercando in tal modo di evitare di pagare le gabelle. Ma non sempre gli riusciva, per cui fu più d’una volta multato e addirittura arrestato.

 

Ed è nel carcere del Grande Ammiraglio che ebbe modo di fare amicizia con il giovane dottor Marco Vitale di Cava dei Tirreni, figlio illegittimo del ben noto avvocato Matteo Vitale. Anche lui laureato in legge, diventò poi il suo segretario. E fu lui a fargli conoscere don Giulio Genoino, un vecchio sacerdote ultraottantenne da anni difensore del popolo, e alcuni borghesi, noti per essersi da tempo schierati contro i soprusi dei gabellieri e i privilegi dei nobili. Marco Vitale morì anche lui nel 1647. Uscito da Castel Nuovo dove aveva dormito, fu ucciso per strada a Porta Chiaia da un capitano della milizie spagnole.

 

Don Giulio Genonio, insigne giurista oltre che sacerdote, nel 1620 fu destituito dal Consiglio Collaterale, in cui durante il vicereame di Pedro Téllez-Giròn, terzo duca di Osuna, era entrato a far parte ben due volte come rappresentante dei diritti del popolo.

 

Messo in galera lontano dalla città per aver tentato una sollevazione contro le gabelle eccessive e per ottenere di equiparare i diritti del popolo a quelli dei nobili, riottenne la libertà solo nel 1639, quando tornato a Napoli organizzò un gruppo di agitatori, tra cui si distinsero il padre carmelitano Savino Boccardo, il dottor Marco Vitale, Francesco Antonio Arpaia, non pochi popolani detti lazzari e i capitani delle ottine, i seggi minori dei Sedili del Popolo della Città di Napoli. Fu insieme a Masaniello, di cui era mentore e consigliere, l’artefice della rivolta popolare del luglio 1647.

 

I soprusi si attenuarono e le gabelle si abbassarono seppure lievemente solo dal 1644 al febbraio 1646, periodo in cui era viceré Juan Alfonso Enriquez de Cabrera, che chiese al re di Spagna Filippo IV di essere sostituito quando da Madrid fu sollecitato a reperire con l’innalzamento delle gabelle un milione di ducati per finanziare la guerra della Spagna contro la Francia.

 

Al suo posto fu nominato Rodrigo Ponce de Leòn, duca d’Arcos, che non tardò a mettere in atto la richiesta del governo spagnolo di aumentare le tasse, reintroducendo una pesante gabella sulla frutta, colpendo in tal modo i ceti sociali più umili. Ciò che indusse don Giulio Genoino a preparare i suoi collaboratori a una rivolta, come quella da lui organizzata nel 1620 per la stessa gravosa gabella.

 

Il 7 luglio 1647, domenica, mentre ci si preparava ai festeggiamenti per la Madonna del Carmine, la cui chiesa e il suo convento erano divenuti luoghi di comizi popolari, Masaniello divenne il braccio armato di don Giulio Genoino e a capo di un’ampia schiera di rivoltosi da lui addestrati insorse contro il viceré distruggendo tutto ciò che apparteneva ai nobili e facendo alcune vittime al grido di: “Viva il Re di Spagna e mora il malgoverno”.

 

Quattro giorni dopo, l’11 luglio, giovedì, Masaniello al fianco del Cardinale Filomarino, di don Giulio Genonio e del nuovo eletto del popolo Francesco Antonio Arpaia, nipote di Genonio, percorse a cavallo tra la folla di popolani in festa le strade principali della città di Napoli fino al Palazzo Reale, dove incontrò lo sconfitto viceré Rodrigo Ponce de Leòn, duca d’Arcos, che dopo aver tentato invano di corrompere il giovane pescatore divenuto condottiero offrendogli ben duecento ducati al mese per tutta la vita, fu costretto suo malgrado a nominarlo “Capitano Generale del Fedelissimo Popolo Napoletano”. Titolo che Masaniello conservò solo per cinque giorni.

 

Dopo la morte e la sepoltura di Masaniello, il popolo napoletano riprese la sua agitazione in maniera spontanea e via via sempre più accanita. Tanto da costringere il viceré ad abbandonare la reggia e a rifugiarsi in Castel Nuovo, il Maschio Angioino, che venne munito di artiglieria. I successi ottenuti dai ribelli sfociarono presto nell’anarchia, per cui “tutti comandavano e nessuno obbediva”, come si legge in una cronaca dell’epoca. Si decise allora di ricorrere a un capo, come ai tempi di Masaniello. E la scelta cadde prima su Carlo della Gatta, principe di Monastarace, che si rifiutò dicendosi ammalato, e poi su Francesco Toraldo, principe di Massa, che non poté rifiutarsi anche lui, perché sua moglie era nelle mani dei ribelli come ostaggio.

 

Valendosi della sua autorità, Francesco Toraldo riuscì ad ottenere dalle due parti una tregua di cinquantatré ore. Nel frattempo il viceré duca d’Arcos cercò di proteggere il vecchio don Giulio Genonio, strumento prezioso per tenere a bada la plebe, ma anche perché il prete aveva capito ch’era importante distinguere la lotta per le riforme da azioni contro la Spagna. Ed è questa la ragione per cui don Giulio Genoino fu accusato dal popolo napoletano di fare gli interessi del viceré e di tradire le aspirazioni dei suoi concittadini.

 

Alla fine della tregua prevalse tuttavia il buonsenso e fu firmato un accordo di 58 punti tra il re di Spagna e il popolo napoletano, in cui era previsto anche l’esilio di don Giulio Genonio. Il sacerdote e giurista ultraottantenne su ordine del viceré duca d’Arcos fu imbarcato su un vascello diretto a Cagliari e da questa città, sempre sotto scorta, fu inviato a Malaga. Dove non giunse mai, perché per l’età avanzata, i malanni del corpo e quelli dell’anima morì durante il lungo viaggio e il suo cadavere fu sbarcato nel 1648 a Porto Mahòn, sull’isola di Minorca.

 

Il 1° ottobre 1647 apparve nel golfo la flotta spagnola comandata da don Giovanni d’Austria, figlio illegittimo del re Filippo IV. Tre giorni dopo dalle navi e dai castelli gli Spagnoli cominciarono a cannoneggiare la città. Gli insorti dal loro unico forte del Carmine risposero coi loro cannoni e le navi spagnole furono costrette a mettersi fuori tiro.  

 

Francesco Toraldo ritenne opportuno trattare segretamente con gli Spagnoli, ma fu scoperto e decapitato per ordine del quarantatreenne Gennaro Annese, che si fece eleggere generalissimo al posto dell’ucciso.

 

Il 22 ottobre 1647 il nuovo generalissimo annunciò pubblicamente la morte del Toraldo, proclamò la nascita della Repubblica e la rivolta assunse un marcato carattere antispagnolo. Gli scontri divennero sempre più violenti e durarono fino alla cacciata da Napoli delle truppe spagnole.

 

Da Roma, ove risiedeva in quel lasso di tempo, fu chiamato il francese Enrico II di Lorena, duca di Guisa, discendente degli Angioini, che sperava di insediarsi sul trono degli avi, sovrani di Napoli fino al 1442, anno in cui Alfonso d’Aragona conquistò Napoli e diede inizio alla nuova dinastia.

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Il 17 dicembre 1647 Enrico II di Lorena fu accolto dall’entusiasmo degli insorti e il loro capo Gennaro Annese gli affidò il comando dell’intero vicereame divenuto Stato indipendente col nome di Reale Repubblica Napoletana, detta anche “Serenissima Monarchia Repubblicana di Napoli” e “Serenissima Repubblica di questo Regno di Napoli”.

 

A quell’epoca il termine repubblica aveva il significato di “governo inteso al bene pubblico”, in contrapposizione a tirannia. Interessante ricordare che neppure la Grande Rivoluzione Francese del 14 luglio 1789 era contro la monarchia, e lo divenne solo quando, dopo aver aderito alla Rivoluzione e trasferitosi a Parigi, il Re Luigi XVI non rispettò il suo giuramento e il 20 giugno 1791, a circa due anni dalla Rivoluzione, cercò di scappare segretamente all’estero, dove chiedere aiuto ai vari sovrani europei per annientare i rivoluzionari con i loro principi di “Liberté, Egalité e Fraternité”.

 

 

Scaltro com’era, il duca di Guisa non tardò a capire le insidie dei nobili messi da parte e l’impossibilità di potere raggiungere i suoi scopi col solo appoggio del popolo. Pensò dunque di attirare a sé almeno alcuni esponenti dell’aristocrazia, promettendo loro un intervento della flotta francese. Presto in provincia con lui si schierarono anche numerosi capibanda che conducevano una fortunata guerriglia contro i baroni e le sorti della loro lotta si volsero a suo favore.  

 

Il 1° marzo 1648 al posto del duca d’Arcos la Spagna nominò viceré il conte d’Ognatte, un abile uomo politico. Il quale in poco più di un mese con l’aiuto di ex rivoltosi riuscì a far condannare di tradimento e a catturare il duca di Guisa che, impaurito dal malcontento generale, aveva dato ordini crudeli, facendo lavorare il boia sempre più assiduamente. E il 5 aprile 1648, il giorno dopo la sua cattura, con l’arrivo degli Spagnoli venne proclamata solennemente la fine della Reale Repubblica Napoletana.

 

Due mesi e mezzo dopo, ed esattamente il 22 giugno 1648, il generalissimo Gennaro Annese fu decapitato



 

 

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