contemporanea
I MARTIRI DI BELFIORE
MORIRE PER UN IDEALE
di Raffaele Pisani
Undici persone, diverse per carattere
professione e estrazione socialema unite
nella difesa dei loro ideali fino al
martirio, costituiscono un caso di
coscienza che porta a una doverosa
riflessione.
Appare strano che dei cittadini ben
inseriti nel contesto economico-sociale
siano disposti a sacrificare la vita per
la libertà. Ancor più problematica è la
presenza di sacerdoti fedeli al loro
credo cristiano, oltre ai tre condannati
ce n’erano degli altri, associati
nell’azione proposta dal Mazzini, che
pur aveva una concezione
mistico-religiosa inconciliabile con il
cristianesimo.
Sopportare lunghi mesi di dura
carcerazione rimanendo saldi nella
propria posizione richiede una forza
d’animo ancora maggiore che combattere
sulle barricate o sugli spalti, come
alcuni di questi avevano fatto qualche
anno prima, possiamo ricordare Speri,
Zambelli, Frattini, Scarsellini e Calvi.
Se l’attuale storiografia risorgimentale
tende a ridimensionare e a revisionare
questo periodo, che per alcuni neanche
si dovrebbe chiamare Risorgimento,
l’episodio mantovano rimane un punto
fermo di segno opposto. L’unificazione
nazionale è stata certo un fenomeno
complesso, con tanti soggetti che hanno
operato talvolta alleandosi e talvolta
contrapponendosi. La narrazione per così
dire agiografica dei primi decenni
post-unitari ha lasciato il posto ad
analisi e critiche più solidamente
fondate; ora si corre il rischio di
esagerare nel senso opposto, vale a
dire: destituire di ogni valore ideale
gran parte del Risorgimento.
Le coordinate spazio temporali
dell’evento sono riferibili al Regno
Lombardo-Veneto, in particolare la città
di Mantova ma anche Verona, Brescia,
Milano e Venezia negli anni che vanno
dal 50 al 55 dell’Ottocento. Dal 1818
fin alle soglie del Quarantotto, sotto
la guida del viceré Ranieri d’Asburgo
l’Austria aveva dato prova di
moderazione, il vicereame e i
parlamenti: senato politico e senato
camerale, davano una vernice di
indipendenza rispetto Vienna.
I moti rivoluzionari generarono
disappunto nelle autorità austriache,
che credevano i loro sudditi
lombardo-veneti sufficientemente
contenti della situazione. Vedendo
minacciata la sovrana assoluta autorità
in varie parti dell’impero, anche nella
stessa Vienna, si cercò di porre rimedio
con una più incisiva azione di controllo
sulla popolazione.
La situazione si fece molto tesa, con
un’oppressione fiscale e una repressione
poliziesca di carattere punitivo. I
danni materiali delle insurrezioni
dovevano essere risarciti e i colpevoli
puniti. Il generale Radetzky, che già
prima si era dimostrato risoluto nel
reprimere ogni segno di rivolta,
vittorioso a Custoza e a Novara su Carlo
Alberto di Savoia, espugnatore della
Repubblica di Venezia, aveva assunto già
dal 1848 la carica di governatore
militare e civile del Lombardo-Veneto.
È
un periodo che gli Italiani hanno sempre
considerato come molto oppressivo.
Dal suo esilio di Londra Giuseppe
Mazzini proseguiva nella sua opera tesa
a educare a uno spirito nazionale e
anche ad agire concretamente
nell’organizzazione di insurrezioni
popolari. Nel 1850 aveva reso noto il
suo “Programma per la futura
insurrezione italiana”, alla guerra
regia si doveva sostituire la guerra dei
popoli per la libertà. Per far questo
c’era bisogno di finanziamenti; l’idea
di un prestito nazionale garantito da
una patria futura ci fa capire l’audacia
e anche una certa visione ingenua della
realtà sociale italiana.
Sulle prime la cosa sembrò funzionare:
cedole di taglio diverso, per consentire
a tutte le classi sociali di poter
partecipare, furono vendute
clandestinamente in varie città del
Lombardo-Veneto e cominciarono affluire
cospicue somme di denaro. Il compito di
tenere la cassa e il registro delle
entrate e delle spese con i nomi dei
vari sottoscrittori venne affidato a don
Enrico Tazzoli, riconosciuto da tutti
come leader di questo comitato
clandestinofondato il 2 novembre del
1850.
Accettato non senza qualche riluttanza
iniziale, il Tazzoli affrontò il
delicato compito approntando un sistema
cifrato. Da buon prete quale era associò
le 245 lettere posizionate nel Pater
Noster a dei numeri progressivi così da
poter comporre dei nomi e delle
operazioni contabili; si preoccupò pure,
al fine di evitare ogni ambiguità, di
stabilire una regola per i dittonghi
latini. Un ipotetico ispettore che
avesse controllato questi schedari si
sarebbe trovato di fronte a tante cifre
che nulla potevano dire.
Il primo a cadere nella rete fu don
Giovanni Grioli, curato nella parrocchia
di Cerese; aveva dato qualche spicciolo
a due soldati ungheresi, tanto bastò per
essere accusato di corruzione. Memore
della rivolta capeggiata da Kossuth
qualche anno prima, la polizia austriaca
era particolarmente attenta al
comportamento dei soldati magiari. Una
successiva perquisizione portò a
scoprire alcune cedole mazziniane fra le
carte del parroco. Cercando ingenuamente
di difendersi dicendo che le riteneva
delle forme caritative per gli Italiani
all’estero, ma evitando ogni riferimento
a persone, affrontò la fucilazione il 7
dicembre del 1852.
Chi sperava che la questione fosse
chiusa rimase deluso, era solo
all’inizio. Il caso volle che da una
perquisizione alla ricerca di banconote
false nella casa di Luigi Pesci,
esattore comunale a Castiglione delle
Stiviere, venissero alla luce alcune
cedole mazziniane. La polizia non ebbe
difficoltà a far confessare al Pesci la
loro provenienza, e venne fuori il nome
di don Ferdinando Bosio, professore al
seminario di Mantova. Quest’ultimo, dopo
aver resistito a lungo in carcere a
privazioni e minacce, fece il nome di
don Enrico Tazzoli e anche di due
seminaristi suoi allievi: Arrighi e
Fantolini.
Ben più determinante fu la confessione
di Luigi Castellazzo, figlio di Giuseppe
commissario di polizia al servizio
dell’Austria. Per salvare se stesso
dalla forca e il padre dalla radiazione
parlò del codice usato dal Tazzoli.
Da quel momento come una valanga
l’inchiesta travolse tutto e tutti.
Qualcuno avvertito in tempo ebbe modo di
mettersi in salvo espatriando, qualche
altro confessò e rivelò dei nomi e delle
circostanze ottenendo in tal modo la
clemenza della corte, ma il gruppo dei
puri affrontò con coraggio e
determinazione le sofferenze del
carcere, il distacco dai parenti e dagli
amici e la tragica e gloriosa fine.
Tradotto il Tazzoli nelle carceri
mantovane, venne a sapere che la sua
scrittura cifrata era stata scoperta.
Pater Noster, gli disse ironicamente il
carceriere, a cui Tazzoli rispose fiat
voluntas tua, capendo perfettamente la
situazione.
Seguirono altri arresti, a Venezia
caddero nella rete Giovanni Zambelli,
nel 1849 difensore fino all’ultimo della
Repubblica Veneta, Angelo Scarsellini,
volontario nella prima guerra
d’indipendenza, e Bernardo De Canàl,
pittore. A Mantova, prelevandolo
dall’ospedale dove stava prestando
servizio, venne arrestato il giovane
medico Carlo Poma. Tutti cinque verranno
impiccati il 7 dicembre del 1852, alla
Valletta di Belfiore, poco fuori le mura
di Mantova. Seguirono altre accuse e
altre condanne, il conte veronese Carlo
Montanari; l’indomito difensore di
Brescia nelle famose dieci giornate di
eroica resistenza, Tito Speri, e don
Bartolomeo Grazioli, parroco di Revere.
Tutti e tre impiccati il 3 marzo 1853.
Il 19 dello stesso mese subì la medesima
sorte Pietro Frattini, un semplice
fruttivendolo, che aveva accolto per
qualche tempo dei cospiratori in una
casa di sua proprietà. L’ultimo dei
Martiri di Belfiore che la storia
ricorda è Pier Fortunato Calvi,
combattente per l’Italia nel biennio
1848-49, prima in Cadore poi a Venezia,
fu catturato nel Trentino dalla polizia
austriaca; rinchiuso nelle carceri che
già avevano visto gli altri patrioti,
venne impiccato nel luglio del 1855. Si
narra che il proclama per la sua
esecuzione venisse stampato
contemporaneamente a quello
dell’amnistia, che appena dopo fu resa
pubblica; di questa beneficiarono coloro
che avevano collaborato rivelando nomi
di cospiratori.
Il vescovo di Mantova mons. Giovanni
Corti, che invano aveva cercato almeno
di evitare la sconsacrazione di Tazzoli
e Grazioli, non fu ascoltato neanche
nella sua richiesta di porre le loro
salme in terra consacrata; sperava in
una decisa presa di posizione da parte
del pontefice Pio IX, che non venne.
Tutte le salme dei condannati, sacerdoti
o laici che fossero, vennero seppellite
senza un segno. Alcune donne che avevano
deposto fiori furono aspramente riprese
dalle autorità. Solo nel 1872, a sei
anni di distanza dall’annessione
all’Italia venne edificato in Piazza
Sordello il primo sacrario a loro
dedicato, ora trasportato e ricomposto,
si trova alla Valletta nel luogo del
martirio.
L’intento del governo austriaco era
stato quello di eliminare ogni traccia
che potesse richiamare alla memoria.
Anche la ricostruzione storica fu
difficile e gli storici italiani, in
primis Alessandro Luzio, trovarono
spesso sbarrato l’accesso ai documenti
ufficiali.
Dagli anni Ottanta dell’Ottocento, il
riconoscimento reciproco tra Regno
d’Italia e Impero Austro-Ungarico e i
trattati di alleanza mutarono un poco la
situazione, si poterono intervistare
alcuni degli ufficiali che avevano avuto
un ruolo nei processi; l’età avanzata
consentiva loro molti “non so, non
ricordo”. Presso gli archivi qualche
funzionario si dimostrò collaborativo
nella ricerca della verità storica, ma
non fu possibile accedere agli atti
ufficiali del processo all’Archivio
centrale di Vienna prima del 1919.
Ora i martiri sono ricordati in un
percorso della memoria: le case in cui
si riunivano per attuare il loro piano,
le carceri che li hanno accolti e il
infine al luogo nel quale hanno reso la
loro suprema testimonianza.
Riferimenti bibliografici:
Giorgio Candeloro, Dalla rivoluzione
nazionale all’unità 1849-1860,
Feltrinelli, Milano 1966.
Martin Clark, Il Risorgimento
italiano. Una storia ancora controversa,
Rizzoli, Milano 2001.
Alessandro Luzio, I Martiri di
Belfiore e il loro processo, Casa
Editrice L.F. Cogliati, Milano
1905-1924. |