MARÍA ZAMBRANo
STORIA DI UNA FILOSOFA, PER UNA
FILOSOFIA DELL’ANIMA
di Raffaele Pisani
Da una serie di articoli che vanno
dagli anni Trenta agli anni Sessanta
del Novecento, ora raccolti in due
libri: Verso un sapere dell’anima
e Per l’amore e per la libertà,
abbiamo cercato di ricavare qualche
spunto di riflessione sulla figura
di María Zambrano.
Allieva di José Ortega y Gasset e di
Xavier Zubiri, opera come saggista e
come docente nella Spagna a partire
dagli anni Trenta; l’avvento della
dittatura franchista la porta a
scegliere l’esilio, a Portorico e
anche in Italia e in altri paesi
europei, e solo nel 1984 rientrerà
in patria.
La sua visione del mondo, che
affonda le radici nella saggezza
prefilosofica e si nutre della
classicità letteraria, unisce
intimamente il pensare con l’azione
educativa. Tale unione a suo dire è
essenziale perché il sapere che non
si propone di raggiungere il cuore
della persona resta arido
razionalismo, d’altra parte
un’educazione basata sulla sola
spontaneità non è adeguata a far
apprendere all’educando “il mestiere
di uomo”.
Lo studio, i rapporti personali, la
pedagogia, la politica: è su questi
aspetti che si pone la riflessione
dell’autrice, con una nutrita serie
di scritti composti durante l’intero
arco della sua lunga vita.
La rigidità del concetto
contrapposta alla dinamicità
dell’immagine e la razionalità che
non riesce a comunicare con il
sentimento generano mostri, la
Zambrano si riferisce al Novecento
ma il discorso vale pure per il
presente. Per affrontare questo si
rende necessaria una mediazione che
passi attraverso l’anima, intesa in
un senso globale tale da comprendere
i vari aspetti dell’esistenza. Alla
scelta unilaterale tra la luce della
ragione e l’oscurità della caverna
la Zambrano risponde con
l’atteggiamento mediano di chi non
rinuncia alla propria visceralità,
al cuore, pur aprendosi al raggio di
luce.
Viene raccontato che mentre
all’Università stava seguendo una
lezione sulle categorie
aristoteliche, un raggio di sole sia
penetrato attraverso la tenda
determinando un chiarore che non ha
eliminato la tenebra ma ha prodotto
una penombra: metafora di un
filosofare intimamente legato alla
vita.
Così ebbe a scrivere lei stessa nel
1986 nella nota per una nuova
edizione di Hacia un saber sobre el
alma,in italiano Verso un sapere
dell’anima: «In un attimo mi
ritrovai, non tanto presa da
un’illuminazione folgorante, quanto
pervasa da qualcosa che si è sempre
rivelato più adatto al mio pensiero:
la penombra toccata dall’allegria. E
allora, in silenzio – nella
penombra, più che nella mente direi
dell’animo, del cuore –, si
dischiuse a poco a poco, come un
fiore, la netta sensazione che non
avevo forse alcun motivo per
abbandonare la filosofia» (Zambrano
1996, p. 4). Così Maria Zambrano ha
saputo congiungere ragione e
passione, intelletto e cuore.
L’anima a cui l’autrice si riferisce
non è descritta concettualmente ma
richiamata con rapidi riferimenti
alla storia della filosofia, della
letteratura e il generale della
cultura. Si esprime con
un’essenzialità che presume un
lettore abbastanza preparato e
intuitivo: «“Tutto scorre”: scorre
l’acqua del fiume, però il fiume
stesso e il suo letto rimangono.È
necessario che ci sia un percorso, e
il percorso della vita è la verità.
È indispensabile che un fiume abbia
un letto, altrimenti non si avrebbe
un fiume ma un pantano» (Zambrano
1996, p. 12). Questo per significare
che la filosofia, come lei la
intende, è argine alle passioni
della vita, limita un disordinato
espandersi ma proprio per questo ne
guida il cammino.
Nel capitolo intitolato Una vita in
crisi descrive con viva originalità
la situazione novecentesca.
Inquietudine, solitudine,
oppressione speranza, ma pure
credenze e idee vengono esaminate da
un’angolazione particolare, che
porta talvolta a conclusioni che
hanno il sapore del paradosso. Lo fa
ad esempio quando parla della
schiavitù, da un lato vista come
condizione dovuta a un potere
oppressivo e dall’altro vista invece
nella sublimità dell’amore.
La creatura umana, a differenza
delle altre che abitano la terra,
nasce incompleta, non pienamente
inserita nel mondo e perciò anelante
di trascendenza. Le religioni e le
filosofie possono essere una
risposta, ma bisogna porre molta
attenzione.«La filosofia è stata
tradizionalmente ragione, tentativo
di rendere abitabile il mondo,
sottraendo alle speranze umane il
loro delirio per ottenere in cambio
ciò che è possibile “la possibilità”
di cui parla tanto la Filosofia e in
cui ha forse il suo intimo
significato» (Zambrano 1996, p. 98).
Quanto alla religione in generale,
dice: «È vero, la Religione è stata
depositaria tradizionalmente delle
speranze umane, delle più
imprescindibili, cioè delle più vere
e viscerali» (Zambrano 1996, p. 98).
In ogni caso, guardando la storia
del pensiero si constata come la
separazione tra filosofia e
religione non sia così netta, anzi
in qualche caso i rispettivi compiti
sembrano invertirsi. Il discorso
della Zambrano è comunque volto alla
filosofia ed è di questa che propone
una riforma al fine di evitarne
pericolose derive; se «entrare nella
ragione (entrar en razòn)» è stato
il compito iniziale della filosofia,
ora che ci sono filosofie che hanno
prodotto il delirio attraverso la
ragione, «il risveglio è un entrare
nella realtà (entrar in realidad)» (Zambrano
1996, p. 99).
Per la Zambrano il reale non
coincide con il razionale; la
constatazione del limite della
ragione umana, l’accettazione del
mistero e l’affascinamento per il
bello che sfugge a ogni
concettualizzazione ne fanno la
differenza.
Nel secondo saggio Per l’amore e per
la libertà, notiamo l’interesse che
la Zambrano nutre per il discorso
prefilosofico, per gli antichi saggi
che si esprimevano con enigmi, per
l’atteggiamento meravigliato di si
trova fronte a una natura che genera
tensione e muove gli animi. Leggendo
questa seconda serie di articoli si
coglie il suo intento di analizzare
proprio questo dinamismo spirituale.
Lontani dal voler essere sistematici
e risolutivi, appaiono piuttosto
volutamente incompleti, mettono in
comunicazione con vari aspetti della
realtà lasciando a chi li legge il
piacere e il compito di
approfondire. Nella sua prosa,
indubbiamente rispettosa della
razionalità, trova spazio anche un
dire che di tanto in tanto si fa
poetico.
Nel suo procedere parte da
situazioni molto concrete che
riguardano la società, in
particolare i problemi dei giovani,
nel suo divenire storico o anche il
piccolo mondo dell’aula scolastica
alle prese con i fenomeni della
percezione, dell’attenzione e
dell’apprendimento. Questa pluralità
di prese di posizione lascia
piuttosto spiazzato il lettore, che
si chiede dove la filosofa voglia
arrivare; alcune pagine più di altre
risultano a tale scopo
chiarificatrici.
Nella trattazione sulla “Vocazione
del Maestro” tiene a precisare il
suo punto di vista riguardo la
filosofia moderna, dicendo che «a
partire dal razionalismo moderno
inaugurato da Cartesio, possiamo
dire che la condizione umana è stata
parecchio abbandonata dalla ragione»
(Zambrano 2021, p. 100). Chiama in
causa Hegel e Husserl come esempi di
razionalismi che ignorano la realtà
umana della persona, parla invece di
Comte, Nietzsche e Kierkegaard come
passaggi essenziali verso quella
concezione, propria del suo maestro
Ortega y Gasset, di Ragione Vitale.
Afferma di trovarsi d’accordo su
quello che lei considera comunque
solo un punto di partenza «giacché
la maggior fedeltà al maestro
consiste nel continuare a pensare» (Zambrano
2021, p. 160).
Partendo dal maestro come figura per
così dire universale, la Zambrano
usa il medesimo termine per indicare
colui che più degli altri l’ha
aiutata nel suo cammino, il suo
pensiero è il frutto di una
conoscenza scaturita da un’intimità
spirituale, destinata a scorrere con
il passare delle generazioni da
educatori a educandi.
Tornando al maestro in generale lei
dice che il suo discorso, a
differenza di quello del ricercatore
che scrive saggi e trattati, che
vivono una loro autonomia e sono
destinati a una pluralità generica,
interagisce con persone concrete in
una determinata situazione della
loro vita. Si può dire che non ha
che fare con l’essere cristallizzato
e pensato come ente ma piuttosto,
come lo intendevano i primi filosofi
della natura, come un venire alla
luce e un differenziarsi.
La Vocazione è una chiamata alla
quale è già seguita una risposta di
assenso; un passivo: essere
chiamato, essere vocato, che si
trasforma in attività. La vocazione
infatti è un addensarsi del soggetto
nel sé più profondo per poi
espandersi nell’azione a cui si
sente chiamato. Quella principale
del maestro è la mediazione. Intende
Maestro nella sua accezione
etimologica che lo fa derivare da
magister, da magis, ciò che è di più
che è maggiormente e che ha la
funzione di mediare di liberare
dall’ignoranza; questa, senza
l’aiuto del maestro, rischia di
trasformarsi in sorda aggressività.
Lo dice mentre è a Roma negli anni
che precedono il Sessantotto e che
già vedono nell’ambiente
universitario una messa in
discussione del ruolo mediatore
dell’insegnante.
Nel rapporto docente-discente, non
limitato al campo strettamente
scolastico, pare avere una visione
tutto sommato piuttosto tradizionale
riguardo i rispettivi ruoli, anche
se questo non va inteso in modo
rigidamente unilaterale. Dice
infatti che l’educando è oggetto ma
soprattutto soggetto della propria
formazione. L’analogia che usa è
quella del matrimonio cattolico,
questo richiede la presenza del
sacerdote che benedice l’unione, ma
i ministri del sacramento sono gli
sposi stessi: «Nel “sacramento”
dell’educazione capita lo stesso che
nel matrimonio:in verità, sono i
contraenti ad amministrarlo, anche
se sono guidati, benedetti e
testimoniati. Se esiste solo
l’educatore non c’è educazione
possibile, se il primo educatore non
è l’educando stesso» (Zambrano 2021,
p. 159).
Durante ogni crisi, come quella che
il mondo occidentale viveva nella
metà del Novecento, emergono in
tutta la loro evidenza quegli
elementi della condizione umana che
sempre erano stati presenti allo
stato di latenza. Afferma la
Zambrano che: «Speranza e necessità
si configurano in modi differenti,
creando la peculiare struttura di
ogni cultura e di ogni epoca in ogni
cultura» (Zambrano 2021, p. 126). Si
tratta di due punti imprescindibili
che si rapportano tra di loro
dinamicamente potendo conseguire
un’armonia oppure degenerare verso
soluzioni estreme e fatali.
Le élites sono guidate nel loro
agire dalla speranza, le masse dalla
necessità; al grido di «libertà!»
delle prime corrisponde quello di
«pane!» per le seconde. Ma la realtà
è più complessa e dinamica di questo
schema dualistico: l’ideale elitario
rimane sterile se non riesce a
incarnarsi nella concretezza di una
determinata situazione
storico-sociale, d’altra parte anche
l’azione scaturente dalla necessità
si accompagna a una speranza che
diventa ideale.
Educare per l’amore e per la libertà
è fin dall’inizio anche un educare
nell’amore e nella libertà, il
sapere trasmesso senza amore chiude
al vero dialogo, ancor più il sapere
che pretende di imporsi sopprimendo
in tal modo la libertà. L’uomo è
l’unica creatura che abita la terra
a cui la natura da sola non basta,
se biologicamente è sottoposto alle
sue leggi, c’è sempre un qualcosa
che va oltre. Compito dell’uomo è
questo continuo autotrascendimento;
se nell’animale la costruzione di
nidi e di tane si ripete in un
ritorno circolare, l’homo faber,
ancor prima dell’homo sapiens,
edifica per i posteri e idealmente
per l’eterno. «La vita umana è un
viaggio verso la realtà, ma questo
esige una morale che sostenga
l’anima e indirizzi la volontà verso
di essa, che tempri il cuore e la
sensibilità come accade per ogni
vocazione» (Zambrano 2021, p. 153).
Intravvista qua e là in alcuni dei
suoi scritti, la venatura mistica
del suo linguaggio è ben presente
nella esposizione e interpretazione
della Parabola Araba Sufi, dove
descrive come sottili sensazioni
siano veicolo che innalza la mente
verso una sublime spiritualità. Due
opere pittoriche vennero
commissionate da un sultano a due
gruppi, uno cinese l’altro
bizantino, che dovevano operare
senza contatti fra di loro; alla
meravigliosa rappresentazione
figurativa del primo corrispose
un’azione di pulizia capace di
mutare la parete prospiciente «in
uno specchio di un biancore
misterioso che rifletteva come in un
mezzo più puro le forme sulla parete
cinese» (Zambrano 2021, p.139).
Questo racconto, alla pari delle
narrazioni bibliche e dei miti
classici apre a molteplici
interpretazioni, che l’autrice
spiega lasciando tutto lo spazio per
poter continuare autonomamente
«poiché ogni capolavoro dello
spirito – piccolo o grande che sia –
è un racconto senza fine» (Zambrano
2021, p. 140).
Nell’impegnativo cammino verso una
piena umanizzazione, si parte
talvolta da situazioni di piatta
banalità, che solo con una grande
forza spirituale si può sperare di
poter elevare.
Maria Zambrano è più affascinata dal
biancore dell’una che dal dipinto
dell’altra parete; in questa
situazione anche un’opera mediocre
resterebbe sublimata da questo
mistico biancore: «Nulla è brutto se
si guarda attraverso un altro mezzo
più puro e più intellegibile» (Zambrano
2021, p. 139).
Riferimenti bibliografici:
Zambrano M., Verso un sapere
dell’anima, Raffaello Cortina
Editore, Milano 1996.
Zambrano M., Per l’amore e per la
libertà, Centro editoriale dehoniano,
Bologna 2021.
Latouche S., La sfida di Minerva.
Razionalità occidentale e ragione
mediterranea, Bollati Boringhieri,
Torino 2000.