Pola, 10 febbraio 1947, il brigadiere generale inglese
Robert W. De Winton sta passando in rassegna i militari
della guarnigione schierati davanti alla sede del
comando: l’occasione è particolare, infatti è la
giornata del passaggio dei poteri sulla città. Una
piccola folla contrariata e preoccupata per l’imminente
presa del potere da parte degli slavi titini presenzia
all’evento, quando improvvisamente una donna staccatasi
dal gruppo si avvicina al generale, estrae una pistola
dalla borsetta e spara. Quattro colpi, tre di questi
colpiscono a morte De Winton, il quarto ferisce un
militare che probabilmente era intervenuto per prestare
aiuto.
Subito dopo aver portato a termine il suo proposito la
giovane donna si fa arrestare senza opporre resistenza,
lasciando che fosse un biglietto - altre due lettere
furono consegnate a uno sconosciuto che doveva spedirle:
una per i Volontari Giuliani, l’altra per il Gruppo
Esuli Istriani - a spiegare le ragioni del folle gesto:
« Seguendo l’esempio dei 600.000 Caduti nella guerra di
redenzione 1915-18, sensibili come siamo all’appello di
Oberdan, cui si aggiungono le invocazioni strazianti di
migliaia di Giuliani infoibati dagli Jugoslavi, dal
settembre 1943 a tutt’oggi, solo perché rei
d’italianità, a Pola irrorata dal sangue di Sauro,
capitale dell’Istria martire, riconfermo
l’indissolubilità del vincolo che lega la Madre-Patria
alle italianissime terre di Zara, di Fiume, della
Venezia Giulia, eroici nostri baluardi contro il
panslavismo minacciante tutta la civiltà occidentale. Mi
ribello con il proposito fermo di colpire a morte chi ha
la sventura di rappresentarli - ai Quattro Grandi, i
quali, alla Conferenza di Parigi, in oltraggio ai sensi
di giustizia, di umanità e di saggezza politica, hanno
deciso di strappare una volta ancora dal grembo materno
le terre più sacre all’Italia, condannandole o agli
esperimenti di una novella Danzica o - con la più fredda
consapevolezza, che è correità - al giogo jugoslavo,
oggi sinonimo per le nostre genti, indomabilmente
italiane, di morte in foiba, di deportazione, di esilio
».
Maria Pasquinelli era nata nel 1913 a Firenze da madre
bergamasca e padre jesino, e, sebbene all’epoca dei
fatti fosse piuttosto giovane, aveva vissuto una vita
molto intensa. Dopo essersi diplomata maestra elementare
a diciassette anni, aveva intrapreso la carriera
dell’insegnamento e contemporaneamente aveva conseguito
la laurea in Pedagogia.
Fu iscritta al Partito Nazionale Fascista dal 1933 al 25
luglio 1943 (non aderì alla R.S.I.) e dal 1939 frequentò
la Scuola di Mistica Fascista. Allo scoppio della
guerra, spinta dal desiderio di essere vicino ai nostri
soldati, parte volontaria come crocerossina per il
fronte dell’Africa settentrionale.
Nel 1941, a causa dell’andamento non favorevole del
conflitto e della voglia di condividere le sofferenze
dei combattenti, decide di tagliarsi i capelli e
travestirsi da soldato per tentare di raggiungere la
prima linea. Scoperta dopo 600 km fu rimpatriata e
espulsa dalla Croce Rossa Italiana per indisciplina.
Su sua richiesta nel 1942 fu inviata come insegnante in
Dalmazia, una zona molto calda soprattutto in questi
anni in cui la comunità italiana deve subire le minacce
jugoslave, sia dei rossi sia dei neri.
Dopo l’8 settembre ovviamente la situazione degenera, la
lotta è un tutti contro tutti per diversi giorni. Ora i
nemici erano diventati almeno tre: Titini, Ustascia e
Tedeschi, con gli Alleati a guardare. Maria si impegnò
nel documentare le violenze degli slavi, ma anche nel
recupero delle salme dei militari uccisi e degli
infoibati, e per questo fu prelevata dai partigiani di
Tito.
La sua attività di denuncia fu ancor più forte dopo che
si stabilì a Trieste, dove addirittura cercò di mettere
in contatto la «Decima Mas» coi partigiani della
«Franchi» (legati al Governo del Sud) e della «Osoppo»
al solo scopo di mantenere intatti i confini italiani.
Proprio per il suo ruolo di collante tra opposte fazioni
fu arrestata dai tedeschi e minacciata di deportazione,
ma si salvò grazie all’intervento personale di Junio
Valerio Borghese, il quale si era dimostrato molto
interessato a raggiungere accordi per salvare
l’italianità di quei territori. Questa intricata
ragnatela di contatti è una delle cause che porterà alla
tragedia di Porzus.
Nonostante la fine della guerra la situazione ai confini
con la Jugloslavia non migliora, la politica si dimostra
ancora una volta lontana dalla realtà e poco rispettosa
della vita, le terre e le persone che vi abitano vengono
usate come merce di scambio.
Ma torniamo al 10 febbraio 1947 e alle reazioni che
destò quel fatto di sangue. Come sempre accade i fatti
vennero interpretati in maniera molto diversa, mentre la
stampa comunista parlò di «rigurgito fascista», l’Associated
Press, per bocca dell’inviato Michael Goldsmith, preferì
esprimersi in questo modo: «Molti sono i colpevoli, i
polesani italiani non trovano nessuno che comprenda i
loro sentimenti. Il governo di Roma è assente, gli slavi
sono apertamente nemici in attesa di entrare in città
per occupare le loro case, gli Alleati freddi ed
estremamente guardinghi. A questi, specie agli inglesi,
gli abitanti di Pola imputano di non avere mantenuto le
promesse, di averli abbandonati».
Meno di due mesi dopo Maria viene processata dalla Corte
Militare Alleata di Trieste. Alla richiesta di spiegare
il suo atto risponde in modo fermo e sincero, senza
cercare scusanti. Sostiene con forza che la sua idea non
era quella di colpire l’uomo ma ciò che rappresentava, e
cioè colui che in quel momento e in quel posto
simboleggiava i Quattro Grandi che stavano firmando il
Trattato di Pace che mutilava l’Italia.
Leggendo gli atti del processo emerge la figura di una
persona che, sebbene nutra rispetto per gli altri popoli
e per coloro che li rappresentano (soprattutto se si
tratta di uomini in divisa), si sente obbligata a fare
un’azione cruenta, che essa stessa reputa non giusta,
pur di porre in atto un estremo tentativo di protesta.
Di quel mattino tanto sconvolgente Maria non ricorda
alcuni importanti particolari, come quello di aver
sparato quattro colpi e di aver ferito un soldato
accorso in aiuto del generale, ma ricorda di aver voluto
compiere un gesto altamente significativo per dare voce
a un popolo sofferente, impotente e tradito.
La difesa dell’avvocato Luigi Giannini (medaglia
d'argento al valor militare) è un’appassionata
esaltazione dell’italianità e del patriottismo, ma
purtroppo fa presa solo sull’uditorio e non ha successo
con la Corte. Il 10 aprile la sentenza: è una condanna a
morte.
Maria reagisce con lo stesso coraggio che aveva
contraddistinto la sua vita: «Ringrazio la Corte per le
cortesie usatemi; ma sin da ora dichiaro che mai firmerò
la domanda di grazia agli oppressori della mia terra».
Il giorno seguente Trieste fu inondata da una pioggia di
manifestini tricolori sui quali era scritto: «Dal
pantano d'Italia è nato un fiore: Maria Pasquinelli».
Nel 1954 la pena capitale fu commutata in ergastolo, ma
in totale Maria fece tre anni di carcere a Perugia,
sei-sette mesi a Venezia e il resto dei diciassette
anni, sette mesi e venti giorni a Santa Verdiana a
Firenze.
Tornò libera del il 22 settembre del 1964.
Se ci fosse ancora bisogno di conferme sul carattere
forte di questa donna, basti solamente ricordare ciò che
rispondeva pochi anni fa a chi le chiedeva se avrebbe
rifatto tutto: «A volte trovo qualcuno che mi chiede: se
tornasse indietro? Io rispondo: se tornassi indietro
avrei la stessa età, sarei ancora a quei tempi, sarei
ancora quella».
Sono passati più di sessant’anni da quel 10 febbraio
1947 e la storia di Maria Pasquinelli rimane sconosciuta
ai più, come colpita da una damnatio memoriae
causata dal colpevole, vergognoso e interessato silenzio
che avvolge molti fatti della storia italiana recente.
Credo sia giusto portare all’attenzione della “grande
storia” tutte quelle persone comuni che hanno
sacrificato la loro vita per un ideale.
Qui non si vuole giustificare la violenza, tantomeno un
omicidio, si chiede soltanto una maggiore coerenza e
onestà intellettuale al fine di rendere consapevoli del
proprio passato non solo le generazioni future, ma anche
quelle presenti.