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N. 65 - Maggio 2013 (XCVI)

MARGARET THATCHER
LA LADY DI FERRO AL GIUDIZIO DELLA STORIA - PARTE I

di Massimo Manzo

 

Margaret Thatcher ha incarnato agli occhi del mondo l’immagine vivente del  Regno Unito. Il legame così stretto tra la biografia della Lady di ferro e la storia inglese recente è il sintomo palese di come la sua figura, nel bene o nel male, abbia segnato un’epoca. Se pensiamo alle profonde trasformazioni sociali, politiche ed economiche vissute dall’Inghilterra nel periodo di passaggio dalla guerra fredda agli anni novanta, la Thatcher ha infatti rappresentato uno spartiacque, riuscendo a tirar fuori il suo paese da un profondo declino fino a renderlo nuovamente protagonista sulla scena internazionale, seppur attraverso politiche molto contestate.

 

La fortissima determinazione con la quale giudò la politica britannica l’ha resa un personaggio capace di attirare su di sé sentimenti contrastanti, che vanno dall’ammirazione sfrenata all’avversione totale. A quasi un mese dalla sua scomparsa e a più di vent’anni da quando lasciò l’incarico di Primo Ministro, il giudizio degli storici sul decennio thatcheriano è ancora oggetto di aspre discussioni. In molti casi, esso è dettato dall’orientamento ideologico dal quale si parte.

 

A seconda di chi ne dipinga il ritratto la Thatcher cambia volto in modo repentino. Alcuni la vedono come la smantellatrice dello stato sociale, emblema di un liberismo sfrenato e artefice di una irreversibile spaccatura all’interno della società inglese; altri come la paladina delle virtù patriottiche britanniche, la donna che coraggiosamente ha rinnovato l’economia del paese, percorrendo una via difficile ma necessaria.

 

Di certo nessuno, amico o nemico, detrattore o fan, può rimanere indifferente di fronte allo stile inconfondibile e all’eccezionale carisma della Lady di ferro. Grazie alle sue innate doti di leader Margaret Thatcher riuscì infatti a diventare una delle donne più potenti del novecento, scalando prima i vertici del partito conservatore e arrivando poi ad essere l’unico Primo Ministro donna della storia del Regno Unito, nonché uno dei più longevi.

 

Eppure le sue origini non lasciavano prefigurare un destino così fulgido. Nata nel 1925 a Grantham, piccola cittadina di provincia della contea di Lincolnshire, Margaret Hilda Roberts - questo il suo nome prima del matrimonio - era la figlia di un semplice droghiere. Laureatasi in chimica ad Oxford, fin dagli anni universitari dimostrò una naturale passione per la politica, che la portò ad avvicinarsi agli ambienti del partito conservatore.

 

Eletta nel 1959 alla Camera dei Comuni, nel 1970 fu nominata ministro dell’Istruzione nel governo presieduto da Edward Heath. Intuendo la necessità di rinnovare il fronte conservatore attraverso una saldatura con gli interessi della middle Class inglese, cinque anni dopo la Thatcher otteneva il comando del partito, guidandolo alla vittoria alle elezioni del 1979. Da quel momento si insediava al numero dieci di Downing Street, che occuperà senza interruzioni per ben undici anni e mezzo. Margaret allora aveva 54 anni e le idee chiarissime su cosa fare per rimettere in moto il paese, prostrato da una grave emergenza economica e deluso dalla recente esperienza di governo laburista.

 

Il periodo in cui esordì al timone del governo era particolarmente difficile per il Regno Unito. L’alta  disoccupazione ed in genere la debolezza dell’economia avevano ridotto notevolmente l’influenza dell’Inghilterra in ambito europeo e mondiale. Dopo aver perduto l’impero all’indomani della seconda guerra mondiale, il paese non era nemmeno capace di occupare il primo posto tra le potenze del vecchio continente. 

 

Rileggendo uno dei primissimi discorsi della Thatcher, pronunciato nel 1979, la sua percezione del declino inglese è lucidissima: “a meno che non cambiamo i nostri percorsi e la nostra direzione, la grandezza della nostra nazione presto diverrà una semplice nota nei libri di storia, la memoria lontana di un’isola sperduta nelle nebbie del tempo come Camelot, ricordata giusto per il suo nobile passato”.

 

In politica economica la necessità di cambiare rotta fu attuata attraverso una serie di forti dismissioni statali, in ossequio alle teorie liberiste di  Friedrich von Hayek e Milton Friedman, veri ispiratori della sua linea economica. Nel corso del decennio thatcheriano, lo Stato privatizzava così gran parte dei suoi tradizionali monopoli, come quello dell’acciaio, del gas, delle telecomunicazioni e del trasporto aereo, aprendo anche questi delicati settori alla concorrenza e al libero mercato. 

 

In parallelo iniziava la cosiddetta “deindustrializzazione” della Gran Bretagna, compensata da una predilezione per i mercati finanziari, sui quali venivano eliminate molte delle restrizioni legislative. Questa propensione ad abbandonare l’industria in favore di una finanziarizzazione dell’economia è un argomento dibattuto, perché considerato da alcuni una delle radici storiche delle “bolle speculative” scoppiate in anni recenti, foriero di una crisi profonda del capitalismo occidentale.

 

Gli undici anni di governi Thatcher non furono privi di tensioni sociali, che raggiunsero l’apice nel lungo braccio di ferro con i sindacati dei minatori, costretti, dopo mesi di durissimi scontri, ad arrendersi di fronte all’irremovibilità del Primo Ministro. La protesta contro la chiusura di molte miniere ormai improduttive si concluse dunque con una sconfitta disastrosa delle Trade Unions, che da quel momento persero la grande influenza di cui godevano in precedenza nella definizione delle politiche del lavoro.



 

 

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