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ANTICA


N. 63 - Marzo 2013 (XCIV)

Marco Licinio Crasso
tra empietà e philoplutía

di Paola Scollo

 

Nato attorno al 115 a.C. da un’antica famiglia di origini patrizio-plebee, la gens Licinia, Marco Licinio Crasso fu un noto politico e generale della repubblica romana. Nonostante le nobili origini, ricevette un’educazione semplice all’origine di un modus vivendi ispirato a sobrietà e moderazione.

 

Le principali informazioni sulla sua vita si ricavano dal II libro della Guerra civile di Appiano, da alcune sezioni dei libri XXXVII-XL della Storia romana di Cassio Dione, da brevi riferimenti all’interno di opere ciceroniane. Pur non costituendo una vera e propria fonte storica, la Vita di Crasso di Plutarco rappresenta la trattazione più vasta e unitaria a nostra disposizione. Essa può essere suddivisa in due ampie sezioni: la prima, che si estende per quindici capitoli, giunge fino alla narrazione degli eventi del 55; la seconda, che comprende invece diciotto capitoli, è focalizzata sull’esito drammatico della storia personale di Crasso. Leitmotiv è la philoplutía, l’amore per la ricchezza, tratto patologico distintivo dell’ethos del protagonista, che viene poi ulteriormente qualificata come philokérdeia, cupidigia, e microloghía, meschinità.

 

Stando alle affermazioni di Plutarco, Crasso pose come scopo precipuo della propria esistenza la ricerca del potere economico e l’accumulo di sostanze: «L’amore della ricchezza fu in Crasso l’unico difetto che oscurò le sue molte virtù» (Plut., Crass. II 1). Basti pensare – suggerisce il biografo – al modo in cui si arricchì e all’enormità del suo patrimonio, accumulato con il fuoco e la guerra e sfruttando a suo beneficio le sventure pubbliche. Peraltro, tale proverbiale ricchezza riceve per noi ulteriore conferma dalle pagine di Cicerone (Ad Att. I 4. 3) e di Plinio (Nat. Hist. XXXIII 134). Con ogni probabilità Crasso doveva reputare la disponibilità economica una risorsa fondamentale per la conquista del potere politico. Tuttavia, era generoso nei confronti dei forestieri e prestava denaro agli amici senza interessi.

 

In ambito politico ebbe come principale competitor Pompeo che, sebbene fosse più giovane e figlio di un uomo poco stimato a Roma, era riuscito grazie alle proprie imprese a dimostrare la sua magnitudo. Come spiega Plutarco, ciò infiammava e irritava Crasso, che era inferiore sia per esperienza sia per vitia, primi fra tutti l’avidità di guadagno, philokérdeia, e la grettezza, microloghía. Una fama ulteriormente corrotta dal comportamento tenuto all’epoca delle proscrizioni, quando aveva acquistato a poco prezzo grandi proprietà terriere e sollecitato donazioni. In particolare Crasso non tollerava il fatto che “Pompeo avesse successo nelle sue campagne e celebrasse il trionfo ancor prima di entrare in Senato e che i cittadini gli avessero dato il soprannome di Magno, cioè Grande” (Crass. VII 1).

 

Spiega però Plutarco che tra i due si verificava la singolare situazione per cui la fama, onoma, e la forza, kratos, di Pompeo erano maggiori quando era assente per le campagne militari, mentre quando si trovava nell’Urbe veniva spesso superato da Crasso, “perché a causa del suo orgoglio e della pompa con cui viveva, evitava la folla, si teneva lontano dal foro e patrocinava in tribunale solo pochi di quelli che glielo chiedevano -e con scarso zelo- per conservare ai vertici la propria influenza a suo uso personale. Di contro Crasso era continuamente pronto a rendere un servizio, non si appartava, era facile da avvicinare ed era immischiato in tutte le faccende in corso: con la sua amabilità senza distinzioni aveva la meglio sulla maestà del rivale” (Crass. VII 3-4). Va comunque sottolineato che tale rivalità non condusse mai Crasso all’odio e alla malevolenza.

Anzi, col trascorrere del tempo i rapporti tra i due divennero amichevoli.

 

Nella contesa tra Cesare e Pompeo, Crasso si pose in mezzo, intrecciando rapporti con entrambi gli schieramenti senza divenire “né un amico costante né un amico implacabile” (Crass. VII 7).

 

Durante la guerra di Spartaco (73-71 a.C.) riuscì a offrire un valido contributo alla res publica. In tale occasione Plutarco ne celebra le indiscutibili doti tattiche, confermate anche dal racconto di Appiano (I 116-121, 539-565). Il biografo di Cheronea definisce il ribelle condottiero romano come “dotato non solo di grande coraggio e forza fisica, ma anche di intelligenza e di dolcezza superiori alla sua condizione e più greco di quanto non dicesse la sua origine” (Crass. VIII 3). Contrariamente ad Appiano (I 120, 559), non fa alcuna menzione alla drammatica crocifissione dei seimila prigionieri lungo la via Appia in seguito all’ultima battaglia. Ma, d’altra parte, nemmeno Appiano attribuisce a Crasso la responsabilità della strage. La crocifissione costituiva il supplizio destinato agli schiavi.

 

Nonostante il valore militare di Crasso, fu Pompeo a ottenere la gloria dei successi. Scrive a tal proposito Plutarco: “Pompeo celebrò uno splendido trionfo per la vittoria su Sertorio in Spagna, mentre Crasso non tentò nemmeno di chiedere il trionfo solenne; e fu giudicato un comportamento poco nobile e dignitoso da parte sua che celebrasse perfino il trionfo a piedi, ovatio, per una guerra contro degli schiavi” (Crass. XI 12).

 

Eletto console insieme a Pompeo, i rapporti tra i due cominciarono a incrinarsi sino al punto da rendere il consolato privo di direttiva ed efficacia. Anche il periodo della questura fu, nel giudizio di Plutarco, “assolutamente inconcludente e inattivo”, pur avendo come collega il “più mite dei Romani” Lutazio Catulo (Crass. XIII 1).

 

Dalle affermazioni di Plutarco, sembrerebbe poi che Crasso abbia avuto rapporti con Catilina in occasione della prima congiura del 66-65, “che per poco non sovvertì Roma” (Crass. XIII 3). A partire dal 66 strinse un’alleanza con Cesare, che meditava di servirsi delle sostanze di Crasso per arginare il potere di Pompeo e dell’oligarchia senatoria. Tale alleanza culminò nel 60-59 con un accordo segreto, che vide anche la partecipazione di Pompeo, noto come primo triumvirato. In tale occasione Crasso espresse le istanze del ceto equestre e riuscì a ottenere da Cesare una legge che riduceva il canone d’appalto per la riscossione dei tributi provinciali. L’accordo del triumvirato venne poi rinnovato nel 56 con l’incontro di Lucca.

 

Nel 55 fu eletto console per la seconda volta insieme a Pompeo. La sorte gli attribuì il comando provinciale della Siria e la forza militare. In tal modo poteva finalmente porsi sullo stesso piano dei colleghi. Soddisfatto per l’estrazione, con ogni probabilità Crasso doveva ritenere “che non gli fosse mai capitata una fortuna più grande della presente, a tal punto che a fatica riusciva a trattenersi in presenza di estranei o in pubblico, ma con gli intimi usciva in tante vanterie puerili, inadatte alla sua età e al suo carattere, che non era mai stato né fanfarone né smargiasso in tutta la sua vita. Ma, in quell’ora, esaltato al massimo e fuori di sé, non considerava la Siria né i Parti come limiti al suo successo” (Crass. XVI 1-2).

 

In seguito al triumvirato e alla campagna gallica di Cesare, un’altra passione agitava Crasso: la philotimía, il desiderio di trionfi, che non lo abbandonò fino alla spedizione funesta per lui e per lo stato (XIV 5). Scrive infatti Plutarco: “Pompeo agiva così per uno smisurato amore del potere, philarchía; in Crasso, alla sua vecchia malattia, la sete di denaro, philoplutía, se ne era aggiunta una nuova, una bramosia di trofei e trionfi per invidia delle vittorie di Cesare (giacché egli era superiore in tutto il resto, si sentiva inferiore a lui solo su questo punto), che non cedette né si calmò, prima di finire in una morte ingloriosa e in un disastro per lo stato” (Crass. XIV 5).

 

Nonostante la legge non prevdesse alcuna guerra contro i Parti, Crasso immaginava di spingersi fino alla Battriana, una delle regioni più orientali dell’antico impero persiano, all’Indo e al Mare Esteriore. E dalla Gallia Cesare incoraggiava tale ambizioso progetto, incitando alla guerra.

 

Non avendo cura né delle opposizioni né dell’avanzata età, Crasso si diresse a Brindisi e di qui si mise in marcia frettolosamente attraverso la Galazia. Nel 53 fu pertanto al comando della guerra contro i Parti. Giunto nella provincia assegnatagli, ricevette le consegne dal predecessore Gabinio, quindi passò l’Eufrate a Zeugma e attaccò i Parti.

 

Dapprima scelse di procedere da ponente verso levante, prendendo le distanze dalle basi, e poi guidò le truppe in Mesopotamia a est e verso sud, lungo il fiume Belik. La situazione fino a quel momento appariva favorevole: non incontrò infatti alcuna resistenza.

 

Un primo errore tattico fu commesso quando, dopo aver stabilito guarnigioni nelle città passate dalla sua parte, Crasso si fermò a svernare in Siria per attendere l’arrivo del figlio dalle Gallie. In tal modo, infatti, lasciò ai nemici il tempo necessario per organizzarsi.

 

Di fronte all’avanzata dei Parti, Crasso sbigottito dispose in fretta l’esercito a battaglia. Ecco la narrazione di Plutarco: “In un primo momento, come consigliava Cassio, allargò il più possibile lo schieramento della fanteria nella pianura, contro il rischio di accerchiamento, distribuendo cavalieri alle ali; in seguito cambiò idea e, concentrando le truppe, formò un quadrato profondo a due fronti, ciascuno dei quali si estendeva per dodici coorti. Presso ogni coorte piazzò uno squadrone di cavalleria, perché nessun punto fosse privo dell’appoggio dei cavalieri, ma procedesse ugualmente protetto da ogni lato. Affidò un’ala a Cassio e l’altra al giovane Crasso, mentre egli si pose al centro” (Crass. XXIII 5).

 

Nonostante la maggior parte degli ufficiali esortasse a non attaccare, Crasso rimise i suoi uomini in marcia a passo sostenuto in modo tale da mostrarsi ai nemici, che inizialmente “non apparvero né numerosi né impressionanti per i Romani” (Crass. XXIII 7).

 

Inferiori numericamente, i Romani furono stretti in poco spazio e, “scontrandosi l’uno con l’altro, erano colpiti e morivano di una morte non breve né rapida, ma in preda a spasimi atroci di dolore; rotolandosi per terra intorno ai dardi li spezzavano dentro le ferite e, se cercavano di estrarne a viva forza le punte ripiegate e affondate nelle vene e nei nervi, si straziavano ancora di più rovinandosi con le loro stesse mani (XXV 5). […] Quanto ai superstiti, i Parti saliti all’attacco li trapassarono con le lance mentre ancora combattevano. Dicono che ne furono presi vivi non più di cinquecento. Tagliata la testa a Publio, si affrettarono subito contro Crasso” (Crass. XXV 14).

 

A questo punto la narrazione plutarchea ripercorre, in un climax ascendente che volge verso un epilogo tragico, gli ultimi istanti di vita di Crasso nella battaglia di Carre, a partire dall’ultimo discorso che rivolse ai suoi uomini: “Ottavio, Petronio e tutti voi comandanti romani qui presenti, vedete che la mia strada è segnata e siete testimoni che subisco un’oltraggiosa violenza. Ma dite a tutti gli altri, se sopravvivete, che Crasso è morto per l’inganno dei nemici e non per il tradimento dei suoi concittadini” (Crass. XXX 5). Infine congedò i littori che lo seguivano.

 

Venne ucciso da un Parto di nome Exatre, che gli tagliò il capo e la mano destra, il 9 giugno del 53 nel deserto mesopotamico, lontano dalla patria. Si concludeva così l’esistenza di un uomo che, complice una sorte avversa, non riuscì a trarre vantaggio dal potere e dalla ricchezza.

 

Nell’immagine di Plutarco, tale morte costituiva il castigo meritato per l’uomo irrispettoso e privo di pietas “della grande fortuna e della gloria di Roma” (XXVI 6). Un uomo simbolo di imprudenza e di ambizione, “che non si era accontentato di essere il primo e il più grande fra tante migliaia di uomini ma, poiché veniva giudicato inferiore a due sole persone, aveva pensato di mancare di tutto” (XXVII 6).



 

 

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