N. 120 - Dicembre 2017
(CLI)
MARCIANOPOLI E ADRIANOPOLI
QUANDO L’IMMIGRAZIONE MAL GESTITA DIVENTA INVASIONE
di Chiara Bellucci
Le invasioni barbariche del V secolo d.C, con cui di fatto venne decretata la fine dell’Impero romano d’Occidente, non si possono naturalmente interpretare dal punto di vista teologico, come molti autori cristiani hanno fatto, dal momento che tale problema si inquadra all’interno di un complesso sistema di inesorabile decadenza generale delle strutture dell’Impero su larga scala con cui si era aperto il III secolo d.C.
Un
barlume
di
speranza
torna
a
splendere
nel
IV
secolo
d.C.,
periodo
storico
che
per
lungo
tempo
è
stato
ingiustamente
penalizzato
da
una
storiografia
ormai
superata
ed
etichettato
come
“basso
impero”.
Tuttavia,
il
barlume
del
IV
secolo
fu
davvero
breve,
come
del
resto
la
sua
portata,
percepita
in
maniera
molto
diversa
a
seconda
dell’area
geografica.
Di
certo,
al
giorno
d’oggi,
non
è
più
possibile
parlare
di
secolo
di
decadenza,
però
non
si
può
neanche
affermare
che,
tra
scismi
geografici
e
politici,
l’Impero
del
IV
secolo
d.C,
a
parte
la
parentesi
costantiniana,
che
aprirebbe
comunque
un
discorso
a
parte,
fosse
un
organismo
unito
e
solido.
I
barbari
non
costituiscono
la
novità
del
V
secolo
d.C.
Questi
uomini
e
donne
sono
sempre
esistiti
in
quanto
non
romani
e
non
parlanti
latino.
La
questione
è
quando
i
barbari
sono
diventati
un
problema
per
Roma.
Se
potessimo
chiederlo
a
quel
Manlio
Capitolino
che
svegliato
dallo
starnazzare
delle
oche,
da
solo
scacciò
i
Galli
dal
Campidoglio
nel
lontano
390
a.C
e a
Caio
Mario,
costretto
a
scontrarsi
duramente
con
Cimbri
e
Teutoni
nel
102-101
a.C,
sicuramente
entrambi
risponderebbero
che
il
barbaro
non
è un
problema
per
Roma,
finché
il
governo
centrale
è
forte
e
dunque
in
grado
di
gestire
ogni
eventuale
ingerenza
o
corpo
estraneo.
Per
i
Romani,
specie
da
Marco
Aurelio
in
poi,
il
barbaro
è
una
risorsa,
quando
utile
all’economia
imperiale
e
soprattutto
funzionale
all’apparato
militare.
L’imperatore
Marco
Aurelio
venne
forzato
dalle
circostanze
sfavorevoli
ad
arruolare
contingenti
barbarici
per
assicurarsi
di
contenere
al
meglio
l’impeto
di
Quadi
e
Marcomanni
a
nord-est.
Non
avrebbe
potuto
agire
diversamente,
perché
la
peste
aveva
decimato
la
popolazione
e
non
solo,
sempre
sotto
Marco
Aurelio,
le
fonti
menzionano
la
presenza
progressiva
di
“coloni”
stranieri
nei
latifondi,
manodopera
che,
tutto
sommato,
costava
anche
meno
al
proprietario.
Ecco
un
buon
esempio
di
barbaro
come
risorsa
anziché
come
problema.
Numerose
fonti
di
area
gallica
ci
offrono
infatti
la
palese
testimonianza
di
richieste
e
pressioni
da
parte
dei
latifondisti
gallici
per
ottenere
coloni
atti
a
lavorare
le
terre.
Per
la
giurisprudenza,
tra
l’altro,
neanche
si
poneva
il
problema
dell’origo
del
barbaro,
dato
che
l’origine
coincideva
con
il
latifondo
presso
cui
lavoravano
da
uomini
liberi.
Un
pochino
più
complessa
era
invece
la
funzione
giuridica
dei
dediticii.
Tradotta
alla
lettera,
la
parola
dediticii
significa
“coloro
che
si
danno”
ovvero
quei
popoli
non
ancora
romanizzati
che
chiedono
all’Imperatore
il
permesso
di
entrare
nell’Impero,
rimettendo
la
loro
sorte
nelle
sue
stesse
mani,
pur
consapevoli
che
l’Imperatore
sarà
naturalmente
libero
di
ammetterli
oppure
no.
Peccato
che
il
ritrovamento
del
papiro
di
Giessen,
che
in
lingua
greca
riproponeva
la
Constitutio
Antoniniana
o
editto
di
Caracalla,
proprio
sul
paragrafo
relativo
ai
dediticii
è
mutilo.
Quindi
la
questione
della
natura
giuridica
dei
dediticii
è
tutt’ora
aperta
e
dibattuta
da
molti
storici
che
hanno
avanzato
ipotesi
diverse
sulla
condizione
di
questi
popoli
non
romani.
Perché
ricordare
i
dediticii?
Perché
quei
famosi
“Goti”
di
Adrianopoli,
al
momento
del
loro
ingresso
all’interno
dell’Impero,
potevano
essere
tranquillamente
inquadrati,
da
un
punto
di
vista
meramente
giuridico,
come
dediticii
che
affidavano
la
loro
sorte
a
Valente,
allora
imperatore
della
pars
orientis.
Ma
chi
erano
queste
persone?
L’archeologia
ci
dice
che
venivano
da
molto
lontano,
dalle
fredde
regioni
della
Scandinavia
e
che
a
ondate
alterne
erano
sbarcate
sulle
coste
del
mar
Baltico
per
poi
definitivamente
stanziarsi
in
area
danubiana.
Alla
fine
del
IV
secolo
d.C,
i
Goti
vennero
ulteriormente
suddivisi
in
Visigoti
e
Ostrogoti,
sulla
base
della
loro
collocazione
a
ovest
(Visigoti)
oppure
a
est
(Ostrogoti)
del
fiume
Dnestr.
I
Goti
di
Adrianopoli
sono
in
realtà
i
Visigoti,
ma
le
fonti
storiche
coeve
(Ammiano
Marcellino,
Pacato,
Temistio)
li
chiamano
Goti
o
Sciti.
Valente
di
certo
non
era
interessato
alla
loro
storia
e
alle
loro
peregrinazioni,
ma
al
semplice
fatto
che
quella
gente
si
trovava
nel
posto
giusto
al
momento
giusto.
L’imperatore
stava
infatti
preparando
una
gigantesca
campagna
militare
per
muovere
guerra
ai
Parti
e
dunque
tanti
giovani
e
forti
barbari
apparivano
agli
occhi
dell’Imperatore
come
la
sua
fortuna.
Naturalmente
riunì
il
suo
Concistoro
e
decretò
che
i
Goti
dovevano
essere
accolti.
Ben
presto
Valente
si
accorse
che
era
stato
troppo
ottimista
perché
non
aveva
pienamente
realizzato
quanti
fossero
questi
Goti
che,
a
loro
volta,
fuggivano
in
massa
dai
terribili
Unni,
razziatori
e
invasori
dei
loro
villaggi
e
delle
loro
sedi.
Il
greco
Ammiano
Marcellino
è lo
storico
che
meglio
descrive
i
tragici
avvenimenti
del
tempo
dal
momento
che
l’altra
fonte,
Eunapio,
greco
come
Ammiano,
ci è
prevenuta
solo
in
frammenti.
Nelle
Storie
di
Ammiano
Marcellino
ci
viene
ben
presentato
lo
sbigottimento
dei
Romani
alla
frontiera
nel
trovarsi
di
fronte
una
massa
abnorme
di
esseri
umani
che,
presi
dalla
disperazione,
cominciarono
ad
attraversare
il
Danubio
come
potevano,
essendo
crollato
il
ponte
costruito
da
Costantino
a
suo
tempo.
Insomma
chi
attraversava
il
fiume
con
delle
zattere
costruite
alla
meglio,
chi
a
nuoto,
chi
con
altri
mezzi
di
fortuna,
sta
di
fatto
che
tutti
questi
Goti
si
presentarono
in
massa
a
cospetto
degli
ufficiali
romani
che
dovevano
registrarli.
I
Romani
provarono
a
trascrivere
qualche
nome,
ma
alla
lunga
cominciarono
a
perdere
i
dati
perché
non
capivano
una
sola
parola
della
lingua
dai
Goti,
che
oggi,
grazie
alla
linguistica
comparata,
si è
scoperto
essere
una
lingua
germanica.
Ben
presto
la
situazione
entrò
nel
caos
più
totale.
Sebbene
i
Romani
avessero
vietato
ai
Goti
di
entrare
con
le
armi,
qualche
Goto,
pagando
alcuni
ufficiali
romani
senza
dar
troppo
nell’occhio,
riuscì
a
portarsi
le
armi
dietro,
armi
che
verranno
a
tutti
gli
effetti
impiegate
successivamente
nella
rivolta.
Il
panorama
che
ci
saremmo
trovati
di
fronte
non
è
particolarmente
edificante
dal
punto
di
vista
umano.
Venne
allestito
una
specie
di
tendopoli
gota
e
quando
il
cibo
cominciò
a
scarseggiare,
quei
poveretti
furono
a
costretti
a
vendere
i
propri
beni
ai
Romani
e
perfino
i
figli
stessi,
che
puntualmente,
finirono
nelle
mani
di
qualche
astuto
commerciante
di
schiavi
recatosi
appositamente
sul
posto,
avendone
fiutato
l’ottimo
affare.
I
Goti
si
ritrovarono
ammassati
in
un
campo
profughi
e
nessuna
delle
promesse
fatte
dall’Imperatore
venne
mantenuta.
Sentendosi
umiliati
e
ingannati,
i
Goti
cominciarono
a
dare
chiari
segni
di
cedimento
e di
rivolta
contro
i
Romani.
Gli
ufficiali,
a
quel
punto,
preoccupati
della
situazione,
decisero
di
far
defluire
i
Goti
dal
campo
in
direzione
della
città
di
Marcianopoli.
Il
dramma
però
non
finiva
certo
qui.
Al
di
là
del
Danubio,
altri
Goti
spingevano
per
entrare
e il
limes
era
rimasto
sprovvisto
di
uomini,
dal
momento
che
parte
dell’esercito
stava
scortando
i
profughi
a
Marcianopoli.
Giunti
in
città,
come
era
ovvio,
gli
abitanti
di
Marcianopoli
si
dimostrarono
ostili
tanto
nei
confronti
dei
Romani
quanto
nei
confronti
dei
Goti
e
addirittura
chiusero
le
porte
cittadine.
In
serata
le
parti
riuscirono
comunque
a
patteggiare
e
l’autorizzazione
di
entrare
in
città
fu
concessa
solo
ai
generali
e ai
capi
dei
Goti.
Fu
davvero
la
goccia
che
fece
traboccare
il
vaso.
Mentre
i
Romani
e i
capi
Goti
si
ubriacavano
e
banchettavano
a
Marcianopoli,
fuori
dalle
mura,
quei
disgraziati
morivano
di
fame
e
volevano
entrare
quanto
meno
per
rifocillarsi.
La
situazione
sfuggì
totalmente
di
mano
e i
Goti
che
avevano
portato
le
armi
con
sé,
le
utilizzarono.
Cominciò
una
mostruosa
rivolta
con
saccheggi
ovunque
e ai
Goti
si
aggiunsero
balordi
di
ogni
sorta,
anche
schiavi
che
insorti
contro
gli
stessi
padroni
invitavano
i
Goti
a
entrare
in
casa
per
appropriarsi
dell’oro.
Fu
una
catastrofe
e
del
resto
come
poteva
non
esserlo
quando
la
povertà
e il
degrado
sociale
regnano
sovrani!
Valente
a
2.000
km
da
lì
non
aveva
parole
e
inviò
truppe
nel
maggior
numero
possibile,
elaborando
diverse
strategie
tattiche
per
far
capitolare
gli
insorti,
ma i
Goti
ebbero
sempre
la
meglio.
Povero
Valente.
Aveva
toccato
proprio
il
fondo
quando
nello
stadio
di
Costantinopoli
venne
fischiato.
Un
colpo
veramente
duro
per
la
sua
autostima,
piuttosto
fragile,
secondo
alcune
fonti,
che
hanno
dipinto
Valente
in
perenne
competizione
contro
il
fratello
Valentiniano,
imperatore
d’Occidente,
esempio
di
ogni
virtù,
da
quelle
militari
a
quelle
umane
e
soprattutto
cristiano.
Valente
era
ariano
e le
fonti
cristiane
non
nutrivano
particolare
simpatia
per
lui.
Insomma,
per
quanto
Valentiniano
fosse
ben
disposto
nell’aiutare
il
fratello
a
domare
la
rivolta
definitivamente,
Valente
partì
da
solo
con
il
suo
esercito
alla
volta
dei
Goti.
Cominciò
tutto
a
Marcianopoli
nel
376
d.C
e
finì
tutto
ad
Adrianopoli
nel
378
d.C
e
quando
si
dice
tutto,
vuol
dire
proprio
tutto,
anche
l’Imperatore.
I
Goti
stravinsero
e il
corpo
di
Valente
non
fu
più
trovato
perché,
secondo
alcune
fonti
oscure,
l’imperatore
aveva
provato
a
rifugiarsi
in
una
capanna
a
cui
i
Goti
diedero
fuoco.
Che
fine
infamante
per
un
imperatore
romano
e
che
tristezza
leggere
che
la
gente
non
sembrava
affatto
dispiaciuta,
in
primis
i
cristiani.
Anzi,
secondo
alcune
fonti
cristiane,
si
avverava
la
profezia
“del
monaco”.
Pare
infatti
che
Valente
avesse
fatto
imprigionare
un
monaco
cristiano
richiedente
la
restituzione
delle
chiese
che
l’imperatore
aveva
assegnato
agli
ariani.
Valente,
disprezzando
il
monaco,
lo
minacciò.
Gli
disse
che
al
ritorno
da
Adrianopoli
avrebbero
pareggiato
i
conti
e
allora
il
monaco
ripose
profetico:
“peccato
che
tu
non
tornerai”.
Insomma,
l’esercito
romano
d’Oriente
era
stato
sconfitto
da
una
massa
di
barbari.
L’imperatore
era
morto
e
l’Oriente
si
trovava
anche
sprovvisto
di
un
regnante.
È
allora
che
venne
elevato
alla
porpora
Teodosio
per
la
pars
Orientis.
Teodosio
era
un
ufficiale
e
per
quanto
ancora
giovane,
per
ragioni
politiche,
si
era
ritirato
in
Spagna,
ma a
quanto
pare
la
sorte
lo
rivoleva
in
prima
linea.
Da
bravo
soldato
riformò
tutto
l’esercito
ritornando
alla
coscrizione,
data
la
situazione
precaria,
e
chiunque
ammutinava
o
rifiutava
di
arruolarsi
sarebbe
andato
incontro
a
sanzioni
severe.
Perfino
i
feudatari
che
brigavano
per
tenersi
stretti
al
feudo
i
propri
coloni
maschi,
avrebbero
risposto
alla
legge.
Seguì
poi
la
svolta
epocale
teodosiana
con
l’Editto
di
Tessalonica
(380
d.C)
che
promosse
il
cristianesimo
a
religione
di
stato.
Ma i
Goti
di
Adrianopoli
che
fine
avevano
fatto?
Citerei
a
questo
punto
due
autori:
Pacato
(Panegirici
Latini,
XII,
22,
3-4;
32,3-4)
e
Temistio
(Orazioni
XV,
190
c-191°).
In
entrambe
le
fonti,
Teodosio
appare
come
il
risolutore
del
problema
gotico,
il
grande
filantropo
che
aveva
concesso
ai
Goti
di
insediarsi
nell’impero.
Temistio
già
li
vedeva
romanizzarsi
come
era
successo
agli
altri
barbari
prima
di
loro,
sogno
miseramente
infranto
nel
410
d.C,
quando
uno
di
questi
barbari
romanizzati,
Flavio
Alarico,
saccheggiò
Roma.
Qui
non
si
tratta
di
filantropia,
o
forse
sì,
nell’accezione
della
parola
“filantropia”
secondo
le
categorie
mentali
del
mondo
antico,
ma
di
una
decisione
che
Teodosio
non
poteva
prendere
in
modo
differente.
I
Goti
avevano
stravinto
e
sarebbe
stato
francamente
impensabile
che
dopo
la
schiacciante
vittoria,
salutassero
i
Romani
e se
ne
tornassero
nei
loro
villaggi
a
ovest
del
Dnestr.
Dobbiamo
però
chiarire
un
punto
molto
importante.
Quando
nei
manuali
di
storia
si
parla
di
un’alleanza
o
foedus
che
Teodosio
strinse
con
il
capo
dei
Goti
Fritigerno,
si
tratta
in
realtà
della
ricostruzione
a
posteriori
di
tale
trattato,
dal
momento
che
gli
atti
non
ci
sono
pervenuti.
Dalla
ricostruzione
emerge
un
dato
molto
interessante.
A
tutti
gli
effetti
i
Goti
entravano
all’interno
dell’Impero
“da
vincitori”
e
come
tali
occupanti
legittimi
di
terreni.
Vale
a
dire
che
i
Romani
lasciavano
ai
Goti
considerevole
autonomia,
ma
naturalmente
i
Goti
dovevano
fornire
uomini
all’esercito
imperiale.
Non
è
filantropia
è
realismo
politico.
Si
prenda
ad
esempio
lo
stesso
Teodosio.
I
Goti
gli
saranno
particolarmente
utili
durante
lo
scontro
con
l’usurpatore
Eugenio
e
Teodosio
non
si
farà
troppi
problemi
nel
mandarli
avanti
a
morire.
Sono
utili,
certo,
ma
anche
un
grande
imbarazzo
per
i
Romani
perché
i
Goti
sempre
gli
ricorderanno
Adrianopoli,
quella
battaglia
che
Ammiano
Marcellino
ha
definito
“seconda
Canne”.
Perciò,
finché
sono
utili,
che
vadano
al
macello
e si
lasci
pure
che
qualche
lapide,
provvidenziale
per
il
lavoro
dello
storico,
parli
per
loro.
Il
riferimento
in
tal
senso
sono
le
lapidi
del
cimitero
di
Concordia,
a
testimonianza
che,
se
Teodosio
è
riuscito
a
vincere
contro
Eugenio,
il
merito
è
stato
anche
delle
truppe
gotiche.
Ma
non
tutti
naturalmente
la
pensavano
come
Temistio
che
aveva
elogiato
la
politica
filo-gotica
di
Teodosio.
I
detrattori
c’erano
e
che
detrattori!
Basterà
ricordare
Sinesio,
ricco
latifondista,
filosofo
neoplatonico
e
intellettuale
che
scrisse
un
trattato
sull’arte
di
governare
per
i
figli
di
Teodosio,
invitando
accoratamente
Onorio
e
Arcadio
a
non
seguire
la
politica
del
padre.
Sinesio
critica
la
politica
teodosiana
dalla
A
alla
Z
perché
ciò
che
la
politica
filo-gotica
di
Teodosio
aveva
portato
era
stato
solo
ed
esclusivamente
il
configurarsi
dell’imbarazzante
e
oltraggiosa
situazione
per
cui
–
dice
Sinesio
– i
barbari
lavorano
come
domestici
nel
privato
di
ogni
romano,
ma
nel
pubblico
governano
gli
stessi
romani.
Il
reclutamento
di
contingenti
barbarici
aveva
facilitato
molti
Goti
di
seconda
generazione
a
prendere
i
gradi
di
ufficiale
in
un
impero
dove
il
soldato
non
lo
voleva
fare
più
nessuno.
I
gradi
significavano
ascesa
politica
e
dunque
Concistoro
imperiale
dove,
secondo
Sinesio,
il
barbaro
veste
la
toga
e
siede
accanto
al
console,
poi,
fuori
dal
Concistoro,
toglie
la
toga
e
con
il
compaesano
suo
deride
la
toga
romana
perché
così
ingombrante
che
neanche
si
può
sguainare
la
spada.
Che
vergogna
per
i
Romani!
Farsi
trattare
così
da
questi
uomini
biondi
e
quindi,
secondo
le
logiche
del
tempo,
di
etnia
inferiore
al
popolo
mediterraneo
per
eccellenza
– i
Romani
– i
padroni,
dei
quali
i
Goti
potevano
essere
solo
che
schiavi,
perché
nati
per
servire.
Alle
orecchie
di
noi
moderni,
Sinesio
è un
razzista
e
sorprende
che
lo
stesso
Sinesio
venne
poi
nominato
Vescovo
di
Cirene,
quando
fino
al
giorno
prima,
l’unico
suo
Dio
era
la
filosofia.
Sinesio
in
realtà
non
è
però
più
razzista
di
Aristotele.
Purtroppo
quello
sull’etnia
è un
discorso
molto
complesso,
perché
le
nostre
categorie
mentali
sono
lontane
anni
luce
da
quelle
del
mondo
antico.
Indipendentemente
dal
pregiudizio
etnico,
Sinesio
su
un
punto
aveva
ragione.
I
Goti,
prima
di
Teodosio,
erano
un
popolo,
grazie
a
Teodosio,
erano
diventati
un
esercito
mercenario,
che
a
differenza
degli
altri
barbari,
era
integrato
per
metà.
Erano
barbari
ai
quali
conveniva
essere
Romani
in
determinate
circostanze.
Si
trattava
di
un
sottile
gioco
politico
che
Alarico
aveva
capito
molto
bene,
trasformandosi
in
quell’ibrido
goto-romano
quando
la
trasformazione
andava
a
suo
vantaggio.
Sotto
Stilicone,
Alarico,
metà
goto
e
metà
romano,
aveva
ricoperto
la
carica
di
magister
equitum
nell’Illirico,
cosa
che
sostanzialmente
significava,
all’atto
pratico,
che
Alarico
aveva
occupato
quelle
terre.
Certo,
finché
Stilicone
era
vivo
e
vegeto
è
anche
vero
che
Alarico
non
poteva
comunque
“sconfinare”
troppo
in
sfere
di
competenza
che
non
gli
erano
proprie,
ma
tuttavia,
con
la
morte
di
Stilicone
la
musica
cambia.
Nessuno
è in
grado
di
tenere
testa
ad
Alarico
che
chiede
a
Roma
soldi
per
i
“suoi
mercenari”,
soldi
che
Roma
rifiuta.
È
allora
che
Flavio
Alarico,
pur
avendo
il
nome
romano,
si
proclama
“capo”
dei
suoi
mercenari
e
saccheggia
Roma
per
prendere
tutto
il
bottino
necessario
a
ricompensare
l’esercito.
Cominciano
così
le “invasioni
barbariche”,
figlie
di
una
storia
di
immigrazione
mal
gestita
nel
376
d.C
a
Marcianopoli.
Bibliografia:
G.
Geraci,
Arnaldo
Marcone, Storia
Romana, Le
Monnier
Università,
Mondadori
Education,
Milano
2016;
G.Geraci,
Arnaldo
Marcone,
Fonti
per
la
Storia
Romana,
Le
Monnier
Università,
Mondadori
Education,
Milano
2016;
Ammiano
Marcellino,
Storie
(Rerum
Gestarum
libri
XXXI),
a
cura
di
Antonio
Selem,
Utet,
Novara
2013;
A.
Barbero,
9
agosto
378.
Il
giorno
dei
barbari,
Laterza,
Bari
2005;
Pacato,
Panegirici
Latini,
XII,
22,3-4;
32,3-4;
Temistio,
Orazioni,
XV,
190c-191a;
P.
Heather,
La
caduta
dell'impero
romano,
Garzanti,
Milano
2008;
A.
Cameron,
Storia
dell'età
tardoantica,
Jaca
Book,
Milano
1992.