N. 116 - Agosto 2017
(CXLVII)
Lo scudo di Roma
Il comes Marcellino
di Roberto Conte
Nel
convulso
periodo
che
corre
tra
la
fine
del
405,
quando
le
orde
di
Vandali,
Suebi
e
Alani
riuscirono
a
forzare
il
confine
renano,
al
476,
anno
della
deposizione
dell’ultimo
sovrano
dell’Impero
Romano
d’Occidente,
Romolo
Augustolo,
si
distinsero
diverse
figure
di
militari
romani
che
si
sforzarono
in
ogni
modo
di
tenere
insieme
uno
stato
che
si
andava
inesorabilmente
sgretolando.
All’inizio,
magistri
militum
come
Costanzo
ed
Ezio
parvero
riuscire
a
preservare
l’impero
nella
sua
interezza,
o
quasi,
anche
se
l’insediamento
entro
i
suoi
confini
di
grandi
comunità
germaniche
autonome
rendeva
sempre
più
difficile
un
controllo
effettivo
del
territorio;
poi
ci
si
limitò
negli
obiettivi,
cercando
quanto
meno
di
preservare
l’Italia
e le
province
a
lei
più
vicine,
per
quanto,
almeno
sino
al
468,
permanesse
la
speranza
di
poter
recuperare
l’Africa
con
l’aiuto
dell’Impero
Romano
d’Oriente.
L’assassinio
di
Ezio
da
parte
dell’imperatore
Valentiniano
III,
nel
454,
fu
certo
un
colpo
mortale
per
le
sorti
dell’impero,
ma
l’eredità
del
grande
militare
di
Durostoro
non
cadde
completamente
nel
vuoto:
un
buon
numero
di
soldati
cresciuti
sotto
la
sua
ala
si
fece
strada
nella
scena
della
storia,
operando
con
una
tenacia
e
un’abilità
degne
di
migliore
fortuna.
Basti
citare
la
figura
di
Maggioriano,
eletto
imperatore
nel
457,
che
ristabilì
il
controllo
sulla
Gallia
e
sembrò
sul
punto
di
riconquistare
le
province
africane
occupate
dai
Vandali,
o
quella
di
Egidio,
che
difese
con
successo
la
regione
di
Parigi
dagli
invasori
Goti
sino
alla
sua
morte,
lasciando
poi
un
vasto
dominio
in
eredità
a
suo
figlio
Siagrio.
Un
altro
di
questi
notevoli
personaggi,
ancor
più
interessante
in
quanto
le
sue
vicende
non
coinvolgono
unicamente
il
campo
militare,
ma
anche
quello
culturale
e
religioso
dell’epoca,
fu
Marcellino,
che
resse
ininterrottamente
la
Dalmazia,
come
governatore
militare
o
come
sovrano
autonomo,
dal
454
al
468,
anno
della
sua
morte.
Le
notizie
su
di
lui
ci
giungono
da
fonti
frammentarie
o da
brevi
accenni,
perciò
è
piuttosto
difficile
metterne
appieno
in
luce
la
figura.
Sino
al
momento
in
cui,
all’indomani
dell’assassinio
di
Ezio,
di
cui
era
amico,
si
ribellò
al
potere
imperiale,
nulla
si
sa
su
della
sua
persona.
Dal
frammento
158
delle
opere
del
filosofo
pagano
Damascio
è
possibile
ricavare
che
proveniva
da
una
buona
famiglia,
dalla
quale
era
stato
adeguatamente
educato,
e
che
aveva
un
buon
carattere.
Non
è
chiaro
neanche
quale
fosse
il
suo
titolo
preciso
al
momento
della
sua
sedizione:
forse
era
comes
rei
militaris
(PLRE,
II,
pg
1289).
Di
sicuro
era
in
grado
di
tenere
sotto
controllo
tutta
la
provincia
della
Dalmazia,
che
in
quel
periodo
riusciva
a
fornire
a
chi
la
governava
diversi
vantaggi
rispetto
alle
altre
dell’impero.
Innanzitutto,
il
grande
arsenale
militare
di
Salona
permetteva
il
mantenimento
di
una
flotta
considerevole,
e
con
essa
Marcellino
riuscì
ad
assumere
il
dominio
completo
dell’Adriatico,
rendendo
i
suoi
territori
inattaccabili
dal
mare.
Anche
un’invasione
terrestre,
d’altronde,
avrebbe
incontrato
diversi
ostacoli,
in
quanto
le
città
costiere
erano
praticamente
inespugnabili,
se
attaccate
solo
da
terra.
Oltre
a
ciò,
la
Dalmazia
poteva
fornire
notevoli
risorse
materiali
e
umane
per
il
mantenimento
di
un
esercito
efficiente:
i
suoi
abitanti
avevano
costituito
per
tutta
la
storia
dell’impero
un
serbatoio
particolarmente
prezioso
per
l’arruolamento
nelle
legioni,
e
parecchi
degli
imperatori
militari
che
avevano
salvato
l’impero
nella
seconda
metà
del
III
secolo
provenivano
proprio
da
questi
territori.
Un
altro
importante
bacino
di
reclute
per
le
truppe
di
Marcellino
era
rappresentato
dalle
tribù
unne
stanziate
a
nord
della
Sava,
ormai
prive
di
unità
politica
dopo
la
morte
di
Attila,
nel
453.
Molti
Unni
combatterono
sotto
il
suo
comando,
anche
se
non
è
chiaro
se
si
trattasse
di
semplici
mercenari
o di
foederati.
Infine,
la
presenza
di
miniere
di
piombo
presso
Domavia
e di
ferro
nella
Valle
della
Sava
garantiva
abbondante
materia
prima
per
le
fabbriche
di
armi
presenti
nella
provincia,
cosicché
Damascio
poteva
affermare
(Epitome
Photiana,
91)
che
il
suo
esercito
appariva
ben
equipaggiato.
Grazie
a
queste
solide
basi,
Marcellino
poté
mantenersi
completamente
autonomo
dalle
altre
potenze
del
tempo
e
governare
la
Dalmazia
in
pratica
da
sovrano
indipendente.
Egli
era
uno
degli
ultimi
pagani
conclamati
(Damascio,
Epitome
Photiana,
91)
e
nella
sua
corte
a
Salona
ospitava
molti
uomini
di
cultura,
tra
i
quali
il
filosofo
cinico
Sallustio,
di
cui
era
amico.
Sempre
Damascio
(fr.
158
e
159)
ci
informa
che
era
anche
esperto
in
divinazione.
Sino
al
457
egli
visse
in
quest’atmosfera
di
altri
tempi,
del
tutto
svincolato
da
qualsiasi
altro
potere,
mantenendo
una
sorda
ostilità
nei
confronti
della
corte
di
Ravenna.
Alcuni
studiosi
hanno
voluto
vedere
nella
sua
persona
l’individuo
al
centro
della
cosiddetta
coniuratio
Marcellana,
di
cui
parla
in
una
sua
lettera
Sidonio
Apollinare
(Epistulae,
I,11).
Si
trattava
di
una
cospirazione
sorta
in
Gallia
dopo
la
morte
dell’imperatore
Avito,
alla
fine
del
456,
e
che
voleva
porre
sul
trono
un
misterioso
personaggio
di
nome
Marcello;
per
costoro,
però,
in
realtà
si
parlava
proprio
di
Marcellino,
e
quindi
la
denominazione
esatta
della
coniuratio
sarebbe
stata
Marcelliniana.
Tuttavia
una
tale
ipotesi
lascia
piuttosto
perplessi:
questa
cospirazione
mirava
a
rendere
imperatore
un
nobile
di
origine
gallica,
come
appunto
era
stato
Avito,
e
nessuna
fonte
ci
presenta
Marcellino
come
originario
della
Gallia.
È
più
probabile
che
il
personaggio
in
questione
fosse
il
Marcello
che
tenne
la
carica
di
praefectus
praetoris
Galliarum
nel
441-443.
Inoltre
il
governatore
della
Dalmazia,
per
quanto
maldisposto
verso
le
autorità
imperiali
del
tempo,
sembra
essersi
inteso
bene
con
Maggioriano,
altro
uomo
di
Ezio
e
tra
gli
artefici
della
deposizione
di
Avito,
che
poi
fu
proclamato
imperatore
nel
dicembre
del
457.
Proprio
in
occasione
di
questo
evento
Marcellino
decise
di
tornare
ad
accettare
l’autorità
imperiale
e
divenne
presto
un
collaboratore
fondamentale
del
nuovo
sovrano.
Nel
460
quest’ultimo
preparò
la
sua
campagna
contro
i
Vandali,
che
mirava
alla
riconquista
dell’Africa:
il
recupero
di
questa
provincia,
da
sempre
considerata
il
granaio
dell’impero,
avrebbe
senza
dubbio
rinvigorito
in
maniera
decisiva
le
speranze
di
una
restaurazione
piena
dell’autorità
di
Roma.
Lo
stesso
Maggioriano
prese
il
comando
delle
forze
dislocate
in
Spagna,
mentre
a
Marcellino,
che
forse
per
l’occasione
fu
nominato
magister
militum,
furono
affidate
le
truppe
schierate
in
Sicilia.
Questa
azione
a
tenaglia
abortì
comunque
sul
nascere,
in
quanto
la
grande
flotta
romana
fu
sorpresa
e
distrutta
quando
era
all’ancora
nel
porto
di
Elche
dai
Vandali.
L’insuccesso
di
questa
campagna
segnò
la
sorte
di
Maggioriano:
l’anno
successivo
egli
venne
assassinato
a
Tortona
dal
suo
potentissimo
magister
militum,
il
suebo
Ricimero,
che
mirava
a
avere
il
completo
controllo
del
potere
e
non
gradiva
l’eccessiva
autonomia
dell’imperatore.
Subito
dopo
egli
cercò
di
liberarsi
anche
di
Marcellino,
comprendendo
che
avrebbe
costituito
un
ostacolo
formidabile
alle
sue
ambizioni:
a
tal
scopo
cercò
di
corrompere
i
suoi
soldati
unni
(Prisco
di
Panion,
fr.
29,
che
li
definisce
sciti)
e lo
costrinse
a
abbandonare
la
Sicilia
e a
rientrare
in
Dalmazia.
Una
simile
azione,
ovviamente,
rinfocolò
l’ostilità
di
Marcellino
nei
confronti
della
corte
di
Ravenna.
Egli,
al
pari
di
Egidio
in
Gallia
e di
Nepoziano
in
Spagna,
rifiutò
di
riconoscere
l’autorità
del
nuovo
imperatore,
Libio
Severo,
in
realtà
un
uomo
di
paglia
dello
stesso
Ricimero,
e
riprese
a
governare
i
suoi
territori
da
sovrano
indipendente,
anche
se
cooperò
strettamente
con
Leone
I,
imperatore
d’Oriente.
Pare
che
proprio
su
istanza
di
quest’ultimo,
che
inviò
a
Salona
l’ambasciatore
Filarco,
rinunciasse
ad
un
suo
progetto
di
invasione
dell’Italia
per
scalzare
gli
assassini
di
Maggioriano.
Molto
presto
divenne
chiaro
che
il
suo
contributo
nella
lotta
contro
i
barbari
imperversanti
all’interno
dell’impero
era
assolutamente
fondamentale.
Il
re
vandalo
Genserico,
in
particolare,
partendo
dalla
sua
base
a
Cartagine
stava
facendo
del
Mediterraneo
occidentale
un
proprio
incontrastato
possedimento,
saccheggiando
e
impossessandosi
di
tutte
le
sue
isole.
Sempre
su
invito
di
Leone
I,
nel
464/465
Marcellino
tornò
in
Sicilia,
inerme
preda
dei
pirati
germanici,
e ne
riprese
rapidamente
il
controllo
(Idazio,
Chronicon,
227).
Nello
stesso
periodo
venne
a
morte
Libio
Severo,
e
per
due
anni
Ricimero
non
si
prese
neanche
la
briga
di
trovargli
un
successore,
ma
nel
467
la
situazione
fu
presa
in
mano
da
Leone,
che
nominò
imperatore
per
l’Occidente
Antemio
Procopio,
che
si
era
già
distinto
in
operazioni
militari
contro
Ostrogoti
e
Unni
con
l’esercito
orientale.
Marcellino
aderì
subito
e
senza
esitazioni
al
nuovo
regime
e
viene
annoverato
tra
i
comites
che
accompagnarono
il
nuovo
sovrano
a
Roma
con
un
grande
esercito
(Idazio,
Chronicon,
234).
Antemio
mostrò
subito
di
voler
perseguire
una
politica
ben
più
attiva
del
suo
predecessore
e
per
questo
entrò
presto
in
urto
con
Ricimero,
che
come
al
solito
non
gradiva
che
qualcun
altro
gli
facesse
ombra.
In
questa
lotta
per
il
potere
il
nuovo
imperatore
pensò
di
avvalersi
dell’appoggio
del
signore
della
Dalmazia,
che
pare
fosse
stato
suo
compagno
di
studi
nella
giovinezza.
A
tal
scopo
lasciò
che
tanto
Marcellino
quanto
Ricimero
mantenessero
la
carica
di
magister
militum,
introducendo
a
Roma
la
consuetudine
orientale
di
averne
due
con
uguali
poteri,
mentre
in
occidente
si
era
soliti
assegnare
la
preminenza
ad
uno
solo.
Inoltre
nominò
il
dalmata
patrizio,
al
pari
del
suo
collega.
Questo
naturalmente
non
fece
altro
che
aggravare
la
forte
tensione
tra
i
due
militari.
Sul
momento,
la
ritrovata
armonia
tra
Oriente
e
Occidente
sembrò
aprire
un
grande
spiraglio
alla
possibilità
di
riconquistare
l’Africa.
Genserico
continuava
a
costituire
il
principale
e
più
pericoloso
avversario
di
Roma,
e la
caduta
del
suo
impero
marittimo
avrebbe
potuto
rilanciare
in
modo
decisivo
le
opportunità
di
una
piena
restaurazione
dell’autorità
imperiale
sull’intero
Occidente.
A
questo
scopo
nel
468
Antemio
e
Leone
si
accordarono
per
lanciare
un’offensiva
su
vasta
scala
contro
Cartagine,
che
sarebbe
stata
attaccata
da
tre
fronti:
sul
versante
terrestre,
in
Tripolitania,
sarebbe
avanzato
l’esercito
orientale,
guidato
dal
comes
rei
militaris
Eraclio,
mentre
un’enorme
flotta
di
1.000
navi,
al
comando
di
Basilisco,
cognato
di
Leone,
si
sarebbe
diretta
proprio
su
Cartagine.
Il
terzo
fronte
fu
posto
al
comando
di
Marcellino,
che
con
l’esercito
occidentale,
forte
di
10/20.000
uomini,
avrebbe
dovuto
liberare
le
isole
occupate
dai
Vandali
e
sbarcare
poi
direttamente
nel
Maghreb.
Marcellino
svolse
bene
il
suo
compito
e
riconquistò
rapidamente
tutta
la
Sardegna,
ma
al
momento
di
salpare
per
l’Africa
venne
fermato,
forse
a
causa
del
veto
di
Ricimero.
Ci
sono
due
motivazioni
addotte
a
questo
comportamento
da
parte
del
suebo:
quella
a
lui
più
favorevole
suppone
che
egli
non
volesse
impegnare
il
proprio
esercito
in
quella
difficile
campagna,
pensando
che
i
Romani
d’Oriente
avrebbero
svolto
da
soli
il
lavoro
per
lui,
quella
più
malevola
(e
più
seguita)
chiama
in
causa
l’invidia
che
egli
provava
per
Marcellino
e il
desiderio
che
quest’ultimo
non
accumulasse
ulteriori
allori.
In
tutti
i
casi,
questa
grandiosa
campagna
terminò
con
un
completo
fallimento,
poiché
Basilisco
si
fece
sorprendere
al
largo
di
Capo
Bon
dalla
flotta
vandala
e
gran
parte
delle
sue
navi
vennero
affondate.
A
seguito
di
tale
disastro
anche
Eraclio,
che
aveva
già
preso
Tripoli,
fu
costretto
a
ritirarsi,
e
l’Impero
d’Occidente
perse
l’ultima
occasione
di
salvare
se
stesso.
Marcellino
rimase
in
Sicilia,
probabilmente
su
richiesta
dello
stesso
Antemio,
forse
preparando
qualche
altra
azione
militare,
ma
nell’agosto
dello
stesso
anno
venne
assassinato
da
un
suo
ufficiale,
quasi
certamente
per
ordine
di
Ricimero,
che
si
liberò
così
del
suo
più
potente
oppositore.
Si
dice
che
nell’apprendere
la
notizia
Genserico
abbia
affermato
che
Roma
si
era
tagliata
il
braccio
destro
con
il
sinistro,
ma
tale
frase
viene
anche
attribuita
a un
funzionario
invitato
a
commentare
l’assassinio
di
Ezio
da
parte
di
Valentiniano
III,
e
quindi
non
sembra
molto
accreditabile.
Tuttavia
il
suo
senso
corrisponde
alla
verità.
Se
in
Dalmazia
Giulio
Nepote,
figlio
della
sorella
di
Marcellino
e di
Nepoziano,
riuscì
a
prendere
il
posto
dello
zio,
arrivando
anche
a
detenere
per
breve
tempo
(474-
475)
il
titolo
di
imperatore,
prima
di
essere
anch’egli
assassinato
nel
480,
la
Sicilia
e la
Sardegna,
senza
più
la
difesa
delle
ben
equipaggiate
truppe
dalmate,
ricaddero
presto
in
mano
dei
Vandali,
stavolta
definitivamente,
e
quel
che
restava
dell’Impero
d’Occidente
si
avviò
a
una
fine
ineluttabile
e
ingloriosa.