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N. 137 - Maggio 2019 (CLXVIII)

IL PRIMO MARAT
RIVOLUZIONARIO SENZA RIVOLUZIONE
- PARTE I
di Sara Bordignon

 

 «Sono la rabbia, soltanto la rabbia del popolo,

ed è per questo che mi ascoltano e credono in me»

 

Jean Paul Marat fu tra i più importanti giornalisti e attori politici della Rivoluzione francese (1789-1799). Quando si parla di Marat la mente corre immediatamente a quell’uomo di mezza età che giace senza vita nella sua vasca da bagno, il turbante bianco a cingergli il capo, immortalato come una statua classica nel celebre dipinto di David.

 

In realtà quel quadro fu dimenticato per quasi mezzo secolo. Fu solo a metà dell’Ottocento che, grazie a intellettuali come Baudelaire e ad artisti come Munch prima e Picasso poi, il tema della Mort de Marat venne riscoperto, apprezzato e ampiamente rielaborato, arrivando fino ai giorni nostri, dove è ancora fonte d’ispirazione per numerosi artisti.

 

Così come il dipinto, anche l’uomo Marat venne riscoperto solo dopo mezzo secolo, circondato com’era da una sorta di tabù culturale che guardava a lui come a uno squilibrato, l’istigatore dei peggiori crimini rivoluzionari. Come sarebbe accaduto anche con Robespierre, la storiografia ottocentesca si discostò per la prima volta dall’anatema lanciato alla memoria storica di Marat e iniziò un lungo percorso di analisi degli eventi.

 

Lo studio del Marat rivoluzionario aprì nuovi filoni di ricerca, ma venne anche scoperto qualcosa di nuovo, un altro Marat, su cui pochi si erano concentrati, quello che prima della Rivoluzione del 1789 era un medico, uno scienziato e un filosofo; in poche parole un savant, un intellettuale nell’accezione settecentesca del termine.

 

Nel XIX secolo Chèvremont (1876) e Cabanés (1891) furono tra i primi a parlare interamente della figura di Marat; lo fecero con fonti totalmente inedite ed esplorarono gli anni giovanili del politico. Nel 1908 venne pubblicata la sua Correspondance, curata dallo storico ellenista Charles Vellay. Anche il grande studioso Gottschalk, nel 1927, scrisse un’opera interamente dedicata a lui e, nel 1933, lo storico Gérard Walter firmò uno dei lavori più interessanti e oggettivi sul personaggio.

 

Peter Weiss, nel 1964, partì proprio dall’assassinio di Marat per scrivere un’importante opera teatrale e anche i grandi studiosi della Rivoluzione gli dedicarono delle pagine, come Soboul nel 1967 e Vovelle nella raccolta Écrits (1988).

 

In Italia, nel 1989, Gaudenzi e Satolli si sono interessati alle sue vicende biografiche con uno dei migliori approfondimenti su Marat medico e scienziato. Infine sono numerosi anche i lavori più recenti, come quelli di Charlotte Goëtz (2001 e 2006) e Serge Bianchi (2017).

 

Del “primo Marat” sono rimaste numerose opere, in tutto una quindicina. Quelle a carattere medico sono state riscoperte e ripubblicate integralmente solo a partire dal 1891 (Silver e Weiner 2013), le altre, a carattere fisico, filosofico, etico e giurisprudenziale sono più note e furono pubblicate dallo stesso Marat in più edizioni.

 

I documenti dell’epoca, le sue lettere, e le testimonianze di chi lo incontrò completano l’affresco; una delle fonti pervenute fino a noi sono le Mémoires di Jacques Pierre Brissot, pubblicate postume nel 1830. Brissot, da amico e confidente di Marat, divenne il suo più grande avversario politico durante la Rivoluzione, quindi i fatti da lui narrati necessitano di essere soppesati, ma rimangono nondimeno una fonte interessante.

 

Si può quindi porre una netta linea di demarcazione tra due periodi della vita di Marat, prima e dopo il 1789; infatti, come scriveva Paul Lacroix: «Ci sono stati due Marat, quello che tutti conoscono e l’altro Marat, del quale, al giorno d’oggi, nessuno sospetta l’esistenza […] quest’ultimo ha scritto solo opere scientifiche, filosofiche e letterarie; era medico […]; morì o meglio sparì alla fine del 1789, per far posto al suo omonimo […]» (Cabanés 1925: VI).

 

Il Marat della Rivoluzione era conosciuto dai suoi nemici come “una tigre assetata di sangue”, “un mostro che respira solo carneficina”, “un antropofago”, la piazza invece lo chiamava “l’amico del popolo” o “il censore della politica” (Castelnau 1939: 52).

 

Marat nel 1789 divenne un giornalista, con l’intento di servire “la patria, redigendo la storia della Rivoluzione” (Walter 1960: 50), storia che non si limitò a scrivere ma che fece egli stesso, poiché nel suo giornale, L’Ami du Peuple (L’Amico del Popolo), edito dal 1789 al 1792, si scagliò in profuse invettive contro quelli che riteneva i nemici della Rivoluzione, tra i più importanti i signori Necker, La Fayette e Mirabeau, veicolando spesso l’opinione pubblica di Parigi.

 

Marat nei suoi fogli di giornale aveva un cipiglio polemico, le sue parole erano spesso violente e aggressive e si definiva un perseguitato, in perenne fuga dalle autorità e dai potenti che volevano metterlo a tacere. Questo in parte era vero, vennero emessi dei mandati di cattura nei suoi confronti e Marat spesso vaticinò il tradimento di politici e generali; fu così che si guadagnò il favore dei parigini dei faubourg, il vero motore della Rivoluzione.

 

Ma il Terrore giacobino era alle porte e dopo la pagina nera dei massacri del settembre 1792, che lo videro personalmente coinvolto, Marat entrò definitivamente nella scena politica; venne eletto deputato alla Convenzione nazionale il 9 settembre dello stesso anno, tra le fila dei giacobini.

 

Meno di un anno dopo, il 13 luglio 1793, mentre si trovava nella sua vasca da bagno, venne assassinato da una giovane filo-monarchica, Charlotte Corday, che con una pugnalata gli recise l’aorta, l’apice del polmone destro e parte del cuore. La donna, politicamente vicina ad ambienti girondini, ostili ai giacobini di Marat e Robespierre, venne ghigliottinata pochi giorni dopo, dichiarando che aveva ucciso un uomo per “salvarne centomila”, in riferimento alla ferocia con cui l’amico del popolo era capace di direzionare le pulsioni della folla.

 

Anche il cadavere di Marat ebbe una sorte travagliata: pochi mesi dopo la sua morte gli vennero concessi gli onori del Panthéon, in un processo collettivo volto a martirizzare la sua figura, morta per salvare la purezza della Rivoluzione. Ma nel 1795 il clima politico cambiò radicalmente; dopo la reazione termidoriana e la morte di Robespierre la panteizzazione di Marat venne annullata, nessuno reclamò la sua salma e questa venne sepolta in una tomba senza nome, nel cimitero di Sainte-Geneviève, andato distrutto negli anni successivi.

 

Oltre alle opere d’ingegno e a quelle sulla carta stampata dei giornali, Marat è noto anche per la patologia con la quale trascorse 4 lunghi anni, tra il 1789 e il 1793. Si trattava di una maladie inflammatoire (malattia infiammatoria), come lui stesso la definiva, che gli provocava un doloroso prurito, localizzato inizialmente all’inguine e allo scroto. La diagnosi è ancora a oggi sconosciuta: i contemporanei, erroneamente, sostenevano si trattasse di sifilide (J. Cerda 2010), invece secondo il dottor Cabanés (1911) si trattò di eczema, secondo Bayon (1945) di scabbia, secondo altri di diabete, anche se i sintomi sarebbero contraddittori (Dietrich e Engelhardt 2012); fu una dermatite seborroica secondo J.H. e E. Lipman Cohen (1958) e, infine, secondo Jelinek (1979) fu una forma di dermatite erpetiforme.

 

Una diagnosi a posteriori è impossibile, ma, come sostengono J.H, E. Lipman Cohen (1958) e Cabanés (1891), è molto probabile che il difficile momento storico e la vita turbolenta di Marat, per anni in fuga dalla giustizia a causa dei suoi articoli e costretto a trovare rifugio in luoghi umidi e freddi, abbiano acuito l’intensità della sua malattia e che quest’ultima, a sua volta, ne abbia aumentato l’aggressività della penna.



 

 

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