[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

184 / APRILE 2023 (CCXV)


contemporanea

GLI SCACCHI DI MAo

IL WEI-CH’I E LA GUERRA COMUNISTA CINESE
di Alessio Guglielmini

 

Quali sono le analogie tra le campagne militari e ideologiche condotte da Mao Zedong nel periodo che va dal 1927 al 1949 e il gioco tradizionale del wei-ch’i? È quello che si chiese, e a cui provò a rispondere, Scott A. Boorman, sociologo e matematico americano, con il suo studio giovanile, apparso alla fine degli anni ‘60, Gli scacchi di Mao. Il titolo originale dell’opera, The Protracted Game, ossia “Il gioco prolungato”, allude al fatto che la conquista della Cina da parte di Mao sia stata quasi come una paziente partita di wei-ch’i e che di questa antica arte ludica egli abbia messo in pratica l’astuzia nel padroneggiare gli spazi e nel guadagnare tempo.

 

Il wei-ch’i, noto più comunemente con il nome giapponese di “go”, è, come ricorda Boorman: «un gioco tra due persone, un gioco da tavolino e un gioco di strategia (…). La scacchiera ha l’aspetto di una semplice grata quadrata, di solito costituita da 19 linee orizzontali e 19 verticali, tracciate a uguale distanza; quindi la scacchiera d’uso comune contiene 361 intersezioni (…). Il wei-ch’i si gioca con pezzi bianchi e neri che vengono chiamati “pietre” o “uomini”. All’inizio del gioco la scacchiera è vuota, a meno che non sia stato concesso un handicap. I bianchi e i neri giocano con mosse alternate; il nero ha la prima mossa. A ogni mossa si colloca un pezzo su una intersezione vacante. Il numero dei pezzi assegnati a ciascun giocatore (181 al nero, 180 al bianco) nel caso di una scacchiera di 19x19 è tale che a nessun giocatore mancheranno mai pezzi (...). Una volta giocato, il pezzo non può più essere mosso (se non rimosso in caso di cattura)».

 

Gli obiettivi del gioco sono fondamentalmente due: il controllo territoriale e la cattura dei pezzi nemici. Questi due aspetti sono correlati tra loro, dal momento che la cattura porta normalmente anche alla conquista di altre fette di territorio, così come la definizione di nuove basi è condizione ottimale per effettuare ulteriori catture. Si capisce come tali scopi siano facilmente riconducibili ai teoremi della disciplina militare. Un altro passaggio interessante riguarda le cosiddette sfere d’influenza, un termine del wei-ch’i che può essere applicato alla politica e alle strategie belliche. Sulla scacchiera saranno definibili come “sfere d’influenza” quelle intersezioni che si trovano sotto la chiara egemonia di una delle due parti.

 

La creazione di queste aree egemoniche è essenziale nell’economia stessa del gioco, considerando che i pezzi non ancora catturati, ma che non possono sfuggire all’accerchiamento della fazione avversa, sono detti “morti” e a fine partita verranno conteggiati tra le pedine sottratte al nemico. La vittoria finale, in base agli esempi riportati dall’autore, viene assegnata al giocatore che ha registrato più punti, ma tale punteggio è dato dalla somma tra il numero di intersezioni circondate con le proprie pedine e il numero di pezzi uccisi o catturati.

 

L’espansione nel wei-ch’i si realizza attraverso una paziente “guerra a mosaico”, in cui vittoria e sconfitta sono concetti relativi. Non si tratta inoltre di una lotta frontale, con una separazione netta dei rispettivi contingenti. È, anzi, una manovra portata spesso nelle retrovie nemiche, «nel profondo delle sfere di influenza ostili o al di là di un evidente “fronte”».

 

Un altro aspetto significativo segnalato da Boorman è l’utilizzo sapiente degli angoli della scacchiera, allo scopo di circondare la massima quantità di territorio: «un valido giocatore perciò gioca prima vicino agli angoli, dove due lati della scacchiera fanno metà del lavoro per lui; poi, lungo i lati, in cui un lato del territorio potenziale è protetto dal bordo della scacchiera». Solo alla fine, chi sa maneggiare a dovere l’arte del wei-ch’i sceglie di inoltrarsi verso le regioni centrali della scacchiera, dove l’accerchiamento delle zone da disputare al nemico è notoriamente più difficile.

 

Fatte queste premesse, Boorman inaugura il confronto sistematico tra le strategie del wei-ch’i e le azioni intraprese da Mao e compagni nel corso della lunga guerra di conquista. La fase del Kiangsi (1927-1935) si conclude con il predominio di Chiang Kai-shek e dei nazionalisti, evidenziando tuttavia una carenza delle forze anticomuniste, ossia la sottovalutazione della rilevanza delle cellule periferiche rurali, i “bordi della scacchiera” per intenderci. Qui non ci si preoccupa di fissare presìdi di truppe regolari, così come non vengono smantellati i banditi e i piccoli signori della guerra. Di contro, la linea maoista avverte l’importanza delle campagne, tanto da considerare la vasta sorgente contadina come il fulcro del possibile successo della rivoluzione.

 

La preferenza di Mao, che stona peraltro con le direttive di Mosca e del Comintern, è inevitabile, considerata la matrice rurale della comunità cinese, e finisce per combaciare con la stessa dottrina del wei-ch’i, secondo cui: «i bordi dominano – nel senso militare del termine – la regione centrale; nella struttura sociale della Cina repubblicana, il controllo dei contadini forniva una sicura base socio-economica (anche se a livello di sussistenza) che nessun’altra classe poteva offrire».

 

Malgrado le sconfitte subite nel periodo del Kiangsi e le perdite occorse durante la Lunga Marcia, nel 1935 i comunisti hanno salvato un rilevante angolo della scacchiera: si tratta dello Yenan, nella provincia dello Shensi. Con lo scoppio della seconda guerra cino-giapponese nel 1937, la “griglia” si arricchisce di un nuovo contendente, le forze d’invasione nipponiche. Almeno formalmente, i nazionalisti di Chiang Kai-shek e i maoisti si alleano contro l’avversario comune. Eppure, la guerriglia condotta dallo Shensi porta all’assorbimento di nuove circoscrizioni che, dopo la capitolazione giapponese, favoriscono anche il successo sui nazionalisti.

 

Le iniziative di Mao, ricalcando gli insegnamenti del wei-ch’i, avvengono oltre il fronte giapponese, basandosi meno sulla difficoltosa conquista delle pedine, quanto piuttosto sulla costruzione di preziose zone d’influenza, infiltrando agitatori politici per ottenere l’appoggio delle masse contadine. Si tratta per l’appunto di un accerchiamento più psicologico che militare, che esorta alla mobilitazione tramite volantini, bollettini, opuscoli. Ossia, per tornare alle analogie con il wei-ch’i: «l’individuo era l’intersezione, le pedine erano i quadri e i mezzi di propaganda il corrispettivo tangibile del peso incorporeo della sfera d’influenza del wei-ch’i, che trasforma intersezioni neutrali in territorio partigiano (…)».

 

L’accerchiamento psicologico viene chiaramente accompagnato dalla guerriglia, dalle imboscate, dalle scorrerie, dal sabotaggio, con l’obiettivo di rendere le posizioni giapponesi molto simili ai “gruppi morti” del wei-ch’i. Presìdi che, non di rado, consistono in fortini di cemento che i soldati giapponesi temono di abbandonare, per paura di cadere in trappola, riducendosi così all’immobilità.

 

La struttura della guerra a mosaico, l’alternarsi dell’accerchiamento e del contro-accerchiamento, rilevabili nel corso della guerra cino-giapponese, sono messi apertamente in evidenza dallo stesso Mao: «Ma, se noi consideriamo la connessione delle diverse basi partigiane e la connessione di queste basi con i fronti delle forze regolari, noi ci accorgeremo che abbiamo a nostra volta circondato un gran numero di unità nemiche (…) Questo è il secondo tipo di contro accerchiamento che noi imponiamo al nemico. Così, il nemico e noi stessi, abbiamo ciascuno imposto all’altro due tipi di accerchiamento, pressappoco come in una partita di wei ch’i».

 

Boorman ne deduce che Mao avesse deciso di difendere la Cina dall’invasore, ricorrendo proprio agli stratagemmi del gioco: far entrare temporaneamente i giapponesi nel cuore della scacchiera, per sviluppare la sua partita dai bordi. In particolare, il bordo della scacchiera umana, cioè quelle frange rurali da attivare mediante la propaganda. All’inevitabile “stallo di metà partita” sarebbe seguito lo sfruttamento dello “schema a mosaico” per erodere le posizioni giapponesi attraverso le azioni di guerriglia, con relativa estensione delle proprie aree d’influenza verso il centro, in vista di un successivo tentativo di accerchiamento.

 

Modelli analoghi Boorman li ritrova d’altro canto nella terza fase delle campagne maoiste, dal 1945 al 1949, allorché, ricacciati i giapponesi, i contendenti sulla scacchiera tornano a essere i comunisti e i nazionalisti. Questi ultimi, anche grazie agli americani, tengono le città e le principali linee ferroviarie, mentre i maoisti presidiano i bordi della grande scacchiera, laboriosamente allestiti nelle stagioni precedenti. Dopo aver separato e isolato le guarnigioni nazionaliste, le forze rosse passano all’accerchiamento e all’annientamento del nemico, spingendosi idealmente verso il centro della scacchiera.

 

Benché lo stesso Boorman non riconduca alle dinamiche del wei-ch’i tutte le operazioni della lunga guerra maoista, alcune analogie paiono sintomatiche, a partire dalla capacità di Mao di sfruttare gli angoli e i lati della scacchiera, per puntarne il cuore, con esito vittorioso, al momento opportuno.

 

Non è del resto un mistero che il leader comunista, nella definizione del suo approccio alla guerriglia, abbia fatto tesoro del proverbiale manuale di Sun Tzu, L’arte della guerra, e che studiasse gli oracoli dell’I Ching, a conferma dell’inevitabile influenza della cultura millenaria che giaceva alle sue spalle, di cui il wei-ch’i sarebbe appunto una delle manifestazioni.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Scott A. Boorman, Gli scacchi di Mao, Luni, Milano 2004.

Sun Tzu, Sun Pin, L’arte della guerra. I metodi militari, Neri Pozza, Vicenza 1999.  

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]