GLI SCACCHI DI MAo
IL WEI-CH’I E LA GUERRA COMUNISTA
CINESE
di Alessio Guglielmini
Quali sono le analogie tra le
campagne militari e ideologiche
condotte da Mao Zedong nel periodo
che va dal 1927 al 1949 e il gioco
tradizionale del wei-ch’i? È
quello che si chiese, e a cui provò
a rispondere, Scott A. Boorman,
sociologo e matematico americano,
con il suo studio giovanile, apparso
alla fine degli anni ‘60, Gli
scacchi di Mao. Il titolo
originale dell’opera, The
Protracted Game, ossia “Il gioco
prolungato”, allude al fatto che la
conquista della Cina da parte di Mao
sia stata quasi come una paziente
partita di wei-ch’i e che di
questa antica arte ludica egli abbia
messo in pratica l’astuzia nel
padroneggiare gli spazi e nel
guadagnare tempo.
Il wei-ch’i, noto più
comunemente con il nome giapponese
di “go”, è, come ricorda Boorman: «un
gioco tra due persone, un gioco da
tavolino e un gioco di strategia
(…). La scacchiera ha l’aspetto di
una semplice grata quadrata, di
solito costituita da 19 linee
orizzontali e 19 verticali,
tracciate a uguale distanza; quindi
la scacchiera d’uso comune contiene
361 intersezioni (…). Il wei-ch’i si
gioca con pezzi bianchi e neri che
vengono chiamati “pietre” o
“uomini”. All’inizio del gioco la
scacchiera è vuota, a meno che non
sia stato concesso un handicap. I
bianchi e i neri giocano con mosse
alternate; il nero ha la prima
mossa. A ogni mossa si colloca un
pezzo su una intersezione vacante.
Il numero dei pezzi assegnati a
ciascun giocatore (181 al nero, 180
al bianco) nel caso di una
scacchiera di 19x19 è tale che a
nessun giocatore mancheranno mai
pezzi (...). Una volta giocato, il
pezzo non può più essere mosso (se
non rimosso in caso di cattura)».
Gli obiettivi del gioco sono
fondamentalmente due: il controllo
territoriale e la cattura dei pezzi
nemici. Questi due aspetti sono
correlati tra loro, dal momento che
la cattura porta normalmente anche
alla conquista di altre fette di
territorio, così come la definizione
di nuove basi è condizione ottimale
per effettuare ulteriori catture. Si
capisce come tali scopi siano
facilmente riconducibili ai teoremi
della disciplina militare. Un altro
passaggio interessante riguarda le
cosiddette sfere d’influenza, un
termine del wei-ch’i che può
essere applicato alla politica e
alle strategie belliche. Sulla
scacchiera saranno definibili come
“sfere d’influenza” quelle
intersezioni che si trovano sotto la
chiara egemonia di una delle due
parti.
La creazione di queste aree
egemoniche è essenziale
nell’economia stessa del gioco,
considerando che i pezzi non ancora
catturati, ma che non possono
sfuggire all’accerchiamento della
fazione avversa, sono detti “morti”
e a fine partita verranno
conteggiati tra le pedine sottratte
al nemico. La vittoria finale, in
base agli esempi riportati
dall’autore, viene assegnata al
giocatore che ha registrato più
punti, ma tale punteggio è dato
dalla somma tra il numero di
intersezioni circondate con le
proprie pedine e il numero di pezzi
uccisi o catturati.
L’espansione nel wei-ch’i si
realizza attraverso una paziente
“guerra a mosaico”, in cui vittoria
e sconfitta sono concetti relativi.
Non si tratta inoltre di una lotta
frontale, con una separazione netta
dei rispettivi contingenti. È, anzi,
una manovra portata spesso nelle
retrovie nemiche, «nel profondo
delle sfere di influenza ostili o al
di là di un evidente “fronte”».
Un altro aspetto significativo
segnalato da Boorman è l’utilizzo
sapiente degli angoli della
scacchiera, allo scopo di circondare
la massima quantità di territorio: «un
valido giocatore perciò gioca prima
vicino agli angoli, dove due lati
della scacchiera fanno metà del
lavoro per lui; poi, lungo i lati,
in cui un lato del territorio
potenziale è protetto dal bordo
della scacchiera». Solo alla
fine, chi sa maneggiare a dovere
l’arte del wei-ch’i sceglie
di inoltrarsi verso le regioni
centrali della scacchiera, dove
l’accerchiamento delle zone da
disputare al nemico è notoriamente
più difficile.
Fatte queste premesse, Boorman
inaugura il confronto sistematico
tra le strategie del wei-ch’i
e le azioni intraprese da Mao e
compagni nel corso della lunga
guerra di conquista. La fase del
Kiangsi (1927-1935) si conclude con
il predominio di Chiang Kai-shek e
dei nazionalisti, evidenziando
tuttavia una carenza delle forze
anticomuniste, ossia la
sottovalutazione della rilevanza
delle cellule periferiche rurali, i
“bordi della scacchiera” per
intenderci. Qui non ci si preoccupa
di fissare presìdi di truppe
regolari, così come non vengono
smantellati i banditi e i piccoli
signori della guerra. Di contro, la
linea maoista avverte l’importanza
delle campagne, tanto da considerare
la vasta sorgente contadina come il
fulcro del possibile successo della
rivoluzione.
La preferenza di Mao, che stona
peraltro con le direttive di Mosca e
del Comintern, è inevitabile,
considerata la matrice rurale della
comunità cinese, e finisce per
combaciare con la stessa dottrina
del wei-ch’i, secondo cui: «i
bordi dominano – nel senso militare
del termine – la regione centrale;
nella struttura sociale della Cina
repubblicana, il controllo dei
contadini forniva una sicura base
socio-economica (anche se a livello
di sussistenza) che nessun’altra
classe poteva offrire».
Malgrado le sconfitte subite nel
periodo del Kiangsi e le perdite
occorse durante la Lunga Marcia, nel
1935 i comunisti hanno salvato un
rilevante angolo della scacchiera:
si tratta dello Yenan, nella
provincia dello Shensi. Con lo
scoppio della seconda guerra
cino-giapponese nel 1937, la
“griglia” si arricchisce di un nuovo
contendente, le forze d’invasione
nipponiche. Almeno formalmente, i
nazionalisti di Chiang Kai-shek e i
maoisti si alleano contro
l’avversario comune. Eppure, la
guerriglia condotta dallo Shensi
porta all’assorbimento di nuove
circoscrizioni che, dopo la
capitolazione giapponese,
favoriscono anche il successo sui
nazionalisti.
Le iniziative di Mao, ricalcando gli
insegnamenti del wei-ch’i,
avvengono oltre il fronte
giapponese, basandosi meno sulla
difficoltosa conquista delle pedine,
quanto piuttosto sulla costruzione
di preziose zone d’influenza,
infiltrando agitatori politici per
ottenere l’appoggio delle masse
contadine. Si tratta per l’appunto
di un accerchiamento più psicologico
che militare, che esorta alla
mobilitazione tramite volantini,
bollettini, opuscoli. Ossia, per
tornare alle analogie con il
wei-ch’i: «l’individuo era
l’intersezione, le pedine erano i
quadri e i mezzi di propaganda il
corrispettivo tangibile del peso
incorporeo della sfera d’influenza
del wei-ch’i, che trasforma
intersezioni neutrali in territorio
partigiano (…)».
L’accerchiamento psicologico viene
chiaramente accompagnato dalla
guerriglia, dalle imboscate, dalle
scorrerie, dal sabotaggio, con
l’obiettivo di rendere le posizioni
giapponesi molto simili ai “gruppi
morti” del wei-ch’i. Presìdi
che, non di rado, consistono in
fortini di cemento che i soldati
giapponesi temono di abbandonare,
per paura di cadere in trappola,
riducendosi così all’immobilità.
La struttura della guerra a mosaico,
l’alternarsi dell’accerchiamento e
del contro-accerchiamento,
rilevabili nel corso della guerra
cino-giapponese, sono messi
apertamente in evidenza dallo stesso
Mao: «Ma, se noi consideriamo la
connessione delle diverse basi
partigiane e la connessione di
queste basi con i fronti delle forze
regolari, noi ci accorgeremo che
abbiamo a nostra volta circondato un
gran numero di unità nemiche (…)
Questo è il secondo tipo di contro
accerchiamento che noi imponiamo al
nemico. Così, il nemico e noi
stessi, abbiamo ciascuno imposto
all’altro due tipi di
accerchiamento, pressappoco come in
una partita di wei ch’i».
Boorman ne deduce che Mao avesse
deciso di difendere la Cina
dall’invasore, ricorrendo proprio
agli stratagemmi del gioco: far
entrare temporaneamente i giapponesi
nel cuore della scacchiera, per
sviluppare la sua partita dai bordi.
In particolare, il bordo della
scacchiera umana, cioè quelle frange
rurali da attivare mediante la
propaganda. All’inevitabile “stallo
di metà partita” sarebbe seguito lo
sfruttamento dello “schema a
mosaico” per erodere le posizioni
giapponesi attraverso le azioni di
guerriglia, con relativa estensione
delle proprie aree d’influenza verso
il centro, in vista di un successivo
tentativo di accerchiamento.
Modelli analoghi Boorman li ritrova
d’altro canto nella terza fase delle
campagne maoiste, dal 1945 al 1949,
allorché, ricacciati i giapponesi, i
contendenti sulla scacchiera tornano
a essere i comunisti e i
nazionalisti. Questi ultimi, anche
grazie agli americani, tengono le
città e le principali linee
ferroviarie, mentre i maoisti
presidiano i bordi della grande
scacchiera, laboriosamente allestiti
nelle stagioni precedenti. Dopo aver
separato e isolato le guarnigioni
nazionaliste, le forze rosse passano
all’accerchiamento e
all’annientamento del nemico,
spingendosi idealmente verso il
centro della scacchiera.
Benché lo stesso Boorman non
riconduca alle dinamiche del
wei-ch’i tutte le operazioni
della lunga guerra maoista, alcune
analogie paiono sintomatiche, a
partire dalla capacità di Mao di
sfruttare gli angoli e i lati della
scacchiera, per puntarne il cuore,
con esito vittorioso, al momento
opportuno.
Non è del resto un mistero che il
leader comunista, nella definizione
del suo approccio alla guerriglia,
abbia fatto tesoro del proverbiale
manuale di Sun Tzu, L’arte della
guerra, e che studiasse gli
oracoli dell’I Ching, a
conferma dell’inevitabile influenza
della cultura millenaria che giaceva
alle sue spalle, di cui il
wei-ch’i sarebbe appunto una
delle manifestazioni.
Riferimenti bibliografici:
Scott A. Boorman, Gli scacchi di
Mao, Luni, Milano 2004.
Sun Tzu, Sun Pin, L’arte della
guerra. I metodi militari, Neri
Pozza, Vicenza 1999.