su alessandro manzoni
L’UNITÀ D’ITALIA
E IL RUOLO DELLA LINGUA ITALIANA
di Luigi De Palo
Alessandro Manzoni nacque nel 1785
da Giulia Beccaria (figlia
dell’illuminista Cesare) e Pietro
Manzoni, esponente della piccola
nobiltà lombarda, ma si ritiene che
il padre naturale non fosse Pietro,
bensì Giovanni Verri.
Manzoni trascorse l’infanzia e
l’adolescenza tra la casa di
campagna della famiglia paterna e
nei collegi religiosi dei padri
Somaschi (prima a Merate, poi a
Lugano) e Barnabiti (a Milano), dove
ricevette un’educazione classica e
cominciò a scrivere le prime poesie,
in contrapposizione con l’ambiente
conservatore e retrogrado in cui
viveva. Uscito dal collegio a sedici
anni, fu subito in sintonia con la
cultura milanese del periodo
napoleonico, stringendo amicizia con
i profughi napoletani Vincenzo Cuoco
e Francesco Lo Monaco.
Nel 1805 raggiunse la madre in
Francia e vi rimase fino al 1810,
sviluppando in quegli anni la sua
poetica e le sue idee politiche, in
un contesto intellettuale e sociale
estremamente ricco e variegato.
Tornato definitivamente a Milano, la
sua visione del mondo e del ruolo
della letteratura nella società era
ormai profondamente influenzata dal
cattolicesimo (ricordiamo il
matrimonio con la calvinista
Enrichetta Blondel) e anche i suoi
riferimenti politici ne erano
fortemente condizionati. Compose in
questi anni gli Inni sacri (1812-1815)
che, nel rifiuto del classicismo,
anticipavano i termini di un
percorso molto personale verso la
poetica romantica e quella visione
del sentimento nazionale che avrebbe
connotato la sua successiva
produzione.
In Italia infatti non esisteva una
lingua comune e la causa principale
era la mancata unificazione politica
che in altri paesi europei, come la
Francia, aveva favorito il fissarsi
di una lingua nazionale. Per Manzoni
diventò sempre più chiaro il
rapporto tra unificazione politica e
lingua comune e la consapevolezza
che non può esistere una vera unità
finché il popolo non sarà unito a
sua volta da una stessa lingua.
Il suo rapporto con la politica fu
dunque contrassegnato da un sincero
sentimento patriottico, ma pochi
sono i suoi coinvolgimenti diretti,
preferendo piuttosto far parlare le
sue opere, investite di una missione
culturale e civile, sono questi
infatti gli anni in cui nacquero i
componimenti: Aprile 1814; Il
proclama di Rimini; Marzo 1821; Il
cinque maggio; le tragedie Il
conte di Carmagnola (1820) e Adelchi (1822).
Sempre in questo periodo, nel 1821,
Manzoni iniziò a scrivere il suo
romanzo più celebre, che terminerà
nel 1823 e al quale darà il titolo
provvisorio di Fermo e Lucia.
Tuttavia il libro non soddisfece
pienamente lo scrittore, che lo
riprenderà nel 1824 dando vita a tre
volumi che intitolerà I Promessi
Sposi. L’opera fu pubblicata nel
1827 e l’edizione dell’epoca prese
il nome di ‘Ventisettana’, ma
Manzoni non era ancora soddisfatto e
nel 1840 fu pubblicata la definitiva
edizione del romanzo, la
‘Quarantana’ (un’edizione a
fascicoli). Ma come mai questi
continui ripensamenti?
Nella prima stesura del 1823, il
romanzo (Fermo e Lucia) fu
scritto con un linguaggio misto
toscano, milanese, latino e
francese. Manzoni era consapevole di
essere ancora lontano dal suo
obiettivo e dal 1824 iniziò un
lavoro di revisione della prima
stesura. È la cosiddetta fase
toscano-milanese, non nel senso di
un impasto delle due lingue, ma di
una sostituzione delle parole e
locuzioni milanesi con le
equivalenti toscane presenti nella
prima stesura, servendosi
soprattutto del Vocabolario della
Crusca, che successivamente
abbandonerà, come vedremo in
seguito, in quanto non aderente alla
realtà popolare. Il risultato, come
anticipato, non gli diede
soddisfazione: lo scritto si
presentava ancora poco popolare e
troppo libresco, ed è in questo
momento che iniziò a ragionare sulla
possibilità di apprendere una lingua
degna di essere scritta, dalla
parlata viva e fresca. Il canone
classico e arcaizzante venne così
sostituito con quello popolare
d’indirizzo romantico.
Manzoni sentiva molto il tema della
lingua, voleva che il suo romanzo
fosse destinato a un pubblico ampio,
al quale presentare in chiave
letteraria i problemi contemporanei.
Il romanzo doveva essere quindi
scritto in una lingua che fosse
facilmente comprensibile e non più
legata alla tradizione aulica e di
conseguenza destinata solo a chi
aveva una certa formazione
culturale.
Con questi propositi Manzoni è
assolutamente vicino alle tematiche
dei romantici italiani. Il
Romanticismo, infatti, portava
avanti la concezione di una
letteratura che fosse soprattutto
popolare, naturale, che sapesse
rispondere immediatamente alle
esigenze della gente comune. Questo
movimento perseguiva quindi fini
didascalici, morali e liberatori con
l’intento anche di riscattare il
popolo, per avviarlo a riconoscere
la propria libertà essenziale.
Questa nuova concezione dell’arte,
che rompeva con il passato,
caratterizzato da un’arte
essenzialmente colta e artificiosa,
attraverso l’introduzione nella
letteratura e soprattutto nella
prosa di temi comuni e semplici,
necessitava di un linguaggio nuovo e
fresco.
A dimostrazione di ciò
nel carteggio con Claudel Fauriel,
precisamente nella lettera datata 3
novembre 1821, Manzoni già scriveva:
«Manca completamente a questo
povero scrittore questo sentimento –
per così dire – di comunione col suo
lettore, questa certezza di
maneggiare uno strumento ugualmente
conosciuto da entrambi. Si chieda se
la frase appena scritta sia
italiana: come si potrà dare una
risposta sicura a una domanda che
non è precisa? Che cosa significa
italiano in tal senso? Secondo
certuni [italiano] è ciò che è
consegnato nella Crusca, secondo
altri ciò che si capisce in tutta
Italia, ovvero dalle classi colte;
la maggior parte non applica a
questa parola alcuna idea
determinata. Io vi esprimo qui in
maniera vaga e molto incompleta un
sentimento reale e doloroso. La
conoscenza che Voi avete della
nostra lingua vi suggerirà subito
quel che manca alle mie idee, ma
temo che essa non vi indurrà a
contestarne il nocciolo. Nel rigore
feroce e pedantesco dei nostri
puristi c’è a mio avviso un
sentimento generale del tutto
ragionevole: è il bisogno di una
certa fissità, di una lingua
convenuta fra coloro che scrivono e
coloro che leggono. Penso che
abbiano solo il torto di credere che
tutta una lingua si trovi nella
Crusca e negli scrittori classici e
che, quando pure vi fosse, avrebbero
torto anche di pretendere che la vi
si cerchi, che s’impari, che ci se
ne serva. Giacché è assolutamente
impossibile che dai ricordi della
lettura risulti una conoscenza
sicura, vasta, applicabile a ogni
istante di tutto il materiale di una
lingua. Ditemi che cosa debba fare
oggi un italiano che, non sapendo
fare altro, voglia scrivere. Quanto
a me, disperando di trovare una
regola costante e speciale per far
bene questo mestiere, credo tuttavia
che vi sia anche per noi una
perfezione approssimativa di stile,
e che per trasferirla il più
possibile nei propri scritti bisogni
pensare molto a quel che si dirà,
aver letto molto gli italiani detti
classici e gli scrittori di altre
lingue, soprattutto francesi, aver
parlato di temi importanti con i
propri concittadini, e che con
ciò si possa acquisire una certa
prontezza nel trovare nella lingua
cosiddetta ‘buona’ quel che essa può
fornire ai nostri bisogni attuali,
una certa attitudine a estenderla
con l’analogia, e un certo qual
tatto per estrarre dalla lingua
francese quello che può essere
mescolato alla nostra senza urtare
con una forte dissonanza, e senza
aggiungervi oscurità. Così, con un
lavoro più penoso e ostinato si farà
meno male possibile quel che voi
fate quasi senza fatica. Concordo
con Voi che scrivere un romanzo in
italiano sia una delle cose più
difficili, ma trovo questa
difficoltà in altri soggetti,
sebbene a un grado inferiore; e con
la conoscenza non completa ma sicura
che ho della imperfezione
dell’operaio, sento anche in una
maniera pressoché sicura che ve ne
ha molta nella materia».
Spinto da tali necessità, dal 1827
al 1839 lo scrittore si impegnò in
una radicale revisione linguistica e
stilistica, compiendo il suo viaggio
a Firenze, alla ricerca del
linguaggio ideale per il suo romanzo
e a stretto contatto con la gente
del posto. Sarà proprio da questa
esperienza che iniziò il definitivo
lavoro di revisione de I Promessi
Sposi, verso l’uso vivo del
fiorentino parlato, in particolare
quello dei colti.
Da un linguaggio eclettico si passò,
quindi, a una lingua realmente
esistente. Su questo punto si
soffermerà il Manzoni nelle future
dispute sulla lingua. Scrivendo nel
1847 al Carena, egli affermò
l’importanza di una lingua viva e
parlata da una determinata società
in un’area geografica ben definita.
La famosa “risciacquatura in Arno”,
al fine di depurare il romanzo da
qualsiasi inflessione regionale
lombarda, rappresentò il riuscito
tentativo di dare una lingua
nazionale all’Italia avviata verso
l’unità politica.
La scelta del fiorentino era poi
dovuta anche a motivazioni storiche,
Firenze era ed è la patria della
nostra letteratura, a partire da
Dante Alighieri con la sua Divina
Commedia, a Pietro Bembo che nel
Cinquecento, con le Prose della
volgar lingua (1525), indicò il
toscano come il modello della lingua
italiana, aggiungendo fra gli autori
da imitare Boccaccio e Petrarca.
Manzoni sostituì quindi parole e
locuzioni letterarie con un
linguaggio più popolare, come ad
esempio confabulare con
chiacchierare o modificò le varianti
fonetiche: dimandare con domandare,
imagine con immagine, lione con
leone, senza però dimenticare,
nonostante le intenzioni, la
tradizione letteraria e così, pur
sostituendo natio nel capitolo VIII
de I Promessi Sposi, Renzo,
salutando il suo paese, da cui è
costretto ad allontanarsi, dice: “Addio,
casa natia, dove sedendo, con un
pensiero occulto, s’imparò a
distinguere dal rumore de’ passi
comuni il rumore d’un passo
aspettato”.
Manzoni però non si fermò solo
all’opera artistica in sé, ben
presto cominciò a orientarsi verso
un campo più ampio, quello della
società e della politica italiana:
una disputa non solo letteraria, ma
che diventava un problema civile e
sociale.
Durante le Cinque Giornate di
Milano, nel 1848, si schierò
apertamente con i patriottici, dando
alle stampe Marzo 1821, che
per anni aveva tenuto nascosto,
divenendo un punto di riferimento
per l’area cattolico-liberale. Il
nuovo Stato era consapevole del
ruolo giocato da Manzoni, perciò nel
1859 gli fu assegnato da Vittorio
Emanuele II un vitalizio e, nel
1860, fu nominato senatore del Regno
d’Italia.
In questo periodo di grande fermento
Manzoni giocò quindi un ruolo
fondamentale sulla questione della
lingua, essendo l’unificazione
linguistica considerata strumento
fondamentale di coesione nazionale.
Con i suoi scritti riuscì a
influenzare quindi non solo la
letteratura contemporanea, ma anche
la società del suo tempo, diventando
il simbolo di una nuova Italia
unita.
La teoria manzoniana prevedeva, come
già enunciato ne I Promessi Sposi,
di assumere quale lingua nazionale
il fiorentino vivo, parlato dai ceti
colti, una lingua volutamente
antiaccademica e non confinata nella
sfera letteraria, ma strumento della
comunicazione sociale. A questo
proposito ricordiamo la relazione
nel 1868 al Ministro Emilio Broglio
Dell’unità della lingua e dei
mezzi di diffonderla.
Manzoni non aveva dubbi: non ci
poteva essere una vera unificazione,
finché non ci sarebbe stata una
lingua comune come primo e immediato
mezzo di educazione del popolo e di
italianità, e tale obiettivo poteva
essere raggiunto solo affidandosi al
fiorentino. Ovviamente non tutti
erano d’accordo con lo scrittore,
che entrò in conflitto con il noto
linguista Isaia Ascoli, che guardava
al problema della lingua soprattutto
dal punto di vista culturale.
Contestava a Manzoni la scelta del
fiorentino e in particolare il
parallelismo che il poeta fece
tra Parigi (il parigino era
diventato la lingua comune dei
francesi) e Firenze, sia perché
quest’ultima non era una capitale,
sia perché il livello culturale non
era paragonabile a quello di una
grande città europea (a Firenze
c’era un alto tasso di
analfabetismo). Per questo Ascoli
indicava il modello tedesco come
alternativa, che aveva prodotto una
lingua nazionale senza unità
politica.
Al contrario però di Ascoli, Manzoni
aveva capito che il fiorentino
possedeva degli elementi che ne
facilitavano la diffusione: non a
caso il toscano era già diventata la
lingua comune per lo scritto e ora
non serviva altro che estendere
questo processo al parlato.