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N. 118 - Ottobre 2017 (CXLVIII)

IL MANTELLO DI ERACLE NELLA PITTURA VASCOLARE APULA

LE TRE PRATICHE DELL’ENCAUSTO, GANOSIS, CIRCUMLITIO

di Paolo Fundarò

 

Zeus si unì alla mortale Alcmena assumendo astutamente le sembianze del marito Anfitrione e, per giacere in tutta tranquillità nell’ebbrezza della notte, fece durare l’oscurità trentasei ore. Così nacque Eracle.

 

Tiresia il famoso indovino rivelò ad Alcmena e al marito l’origine divina del fanciullo, suscitando l’ira di Hera sposa di Zeus, la quale iniziò a perseguitarlo. Anfitrione allevò l’eroe con cura e gli insegnò a condurre cocchi e a domare cavalli. Eracle compii grandi imprese impossibili per un comune mortale con l’aiuto di Athena che gli regalò un mantello ed Hermes una spada. Cosi intraprese la prima fatica; la lotta contro il leone Nemeo.

 

In un famoso cratere Apulo prodotto verosimilmente a Taranto e attualmente collocato al Metropolitan Museum di New York (MMA 50.11.4), ritroviamo Eracle rappresentato in una statua in marmo con la pelle del leone Nemeo, la leontè, nell’istante in cui mollemente pende dall’omero sinistro verso il polpaccio.

 

Eracle intento con la mano destra ad impugnare la clava sostenuta da una colonna leggermente più alta e separata dal supporto che lo sostiene, è raffigurato su un basamento ricoperto da un drappo. Il braccio sinistro si protrae in avanti piegato ad angolo retto col gomito. Le gambe e le cosce appaiono visibilmente massicce.

 

Il dio è fermo sulla gamba destra mentre la sinistra è lievemente flessa in avanti, il tronco rilassato in una sinuosa torsione. Il volto girato di tre quarti a sinistra rispetto al tronco, coi capelli folti e voluminosi e lo sguardo deciso rivolto in lontananza.

 

A sinistra della statua vi è un artefice barbato col tipico abbigliamento consistente in un lungo perizoma e pilos, mentre un artigiano è intento nella rifinitura del mantello con un utensile di metallo, un giovane schiavo di colore, lo assiste attizzando le braci con un mantice.

 

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Eracle dipinto in un cratere Apulo (360-350 a.C.)

 

L’artefice è stato identificato da alcuni studiosi come Efesto in persona. Tuttavia va rilevato che Efesto nelle ceramografia italiota non è mai rappresentato al lavoro; una sola volta abbigliato con un lungo perizoma e a volte senza barba né pilos.

 

Sembra piuttosto che dovettero essere le misere vesti tipiche degli artigiani ad influenzare l'abbigliamento della loro divinità protettrice nelle raffigurazioni vascolari tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C., come nei bronzisti (con perizoma e pilos) della kylix del pittore della Fonderia, da Vulci a Berlino, e l'Efesto con perizoma e pilos nell'anfora del Pittore di Dutuit.

 

Inoltre Efesto è il divino maestro della metallurgia e nelle fonti letterarie non è descritto come autore di  opere in marmo. Veniva ritenuto l’inventore di statue prodigiose dotate di movimento come le ancelle d’oro che servivano nella sua fucina o Talos, il guardiano di bronzo di Creta, o i tripodi forniti di tre piedi muniti di ruote.

 

Automi, precursori dei nostri robot, in grado di stupire e provocare sgomento come narra Omero nella traduzione storica del Monti nel libro XVIII dell’Iliade:

 

“Seguían l’orrido rege, e a dritta e a manca
Il passo ne reggean forme e figure
Di vaghe ancelle, tutte d’oro, e a vive
Giovinette simíli, entro il cui seno
Avea messo il gran fabbro e voce e vita
E vigor d’intelletto e delle care
Arti insegnate dai Celesti il senno.
Queste al fianco del Dio spedite e snelle
Camminavano”
 

 

E prima ancora nello stesso episodio, quando Teti si reca in visita da Efesto nella sua fucina, l’artefice divino stava lavorando a:

 

“… venti tripodi ei forgiava
per collocarli lungo le pareti
dell’aula ben costrutta; e avea disposto
sotto i loro piedi rotelline d’oro,
perché da soli entrassero ai concilii
degl’immortali, e poi, mirabil cosa
ritornassero all’aula”.

 

La scena rappresentata nel vaso apulo, tradizionalmente interpretata come l’officina di un pittore ad encausto intento a dipingere la statua in marmo bianco non sembra del tutto convincente. Ricordiamo che in antico l’uso della cera a scopi artistici si distingueva nella pratica dell’encausto, della gànosis e della circumlitio.

 

La prima consisteva nell’uso pittorico di colori pigmentati fusi con cera emulsionata e stesa a pennello a caldo o a freddo. In quest’ultimo caso lo stato pittorico veniva scaldato in un secondo momento con l’integrazione eventuale e/o l’uso di spatole metalliche per ottenere particolari effetti di rilievo.

 

Per gànosis dobbiamo intendere una patinatura o verniciatura della superficie pittorica, di statue o elementi architettonici a scopo protettivo come descritto da Plinio il Vecchio o Vitruvio. Per circumlitio, il mettere in rilievo alcuni particolari o dettagli decorativi della statua  come occhi, labbra, fibbie o calzari.

 

Mancando nella rappresentazione i colori e i pennelli, le scena deve rappresentare una semplice decorazione di alcuni particolari del mantello, probabilmente ad opera stessa dello scultore. Non è necessario infatti un pittore eccellente del calibro di Nikia, esperto in età giovanile di coloratura di statue marmoree nella bottega di Prassitele per un esercizio cosi modesto e di poco conto; qui non si tratta evidentemente di colorare la statua con particolare grazia e sapienza di impasti cromatici, ma di un elementare ornamento dal carattere stereotipato.



 

 

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