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N. 58 - Ottobre 2012 (LXXXIX)

la disfatta di Manfredi di Sicilia a Benevento e l'avvento angioinO
domini stranieri in Italia - parte II

di Christian Vannozzi

 

Nel 1257 l'intero regno di Sicilia e l'Italia meridionale erano nelle mani del principe che grazie alla sua saggezza politica e al suo governo umano attirò notevoli simpatie da parte del popolo, che l'amava e gli conferiva potere dal basso.

 

Quello che il Papa definiva 'l'usurpatore di Napoli', fu uno dei sovrani più amati della storia italiana. Il suo contatto con il popolo lo rendeva adorabile e faceva crescere il consenso che nutrive dal basso verso la plebe.

 

Popolo e soldati erano la sua forza ed era quello che lo legittimava.

 

Le città ghibelline del nord, tra cui Siena, poterono contare sul suo appoggio militare e sugli abilissimi cavalieri tedeschi che resero la città toscana una potenza militare nell'area del Centro Nord e resero possibile la sconfitta della città guelfa di Firenze.

 

Lo scontro tra i guelfi ed i ghibellini vedeva questi ultimi in vantaggio, grazie appunto all'abilità diplomatica e militare del principe di Taranto che ormai sia in via diretta come nel Sud d'Italia che in via diretta attraverso le leghe ghibelline dei comuni italiani governava sull'intera Penisola.

 

Nel 1256 iniziò la costruzione della città fortezza di Manfredonia, nel foggiano, città che doveva diventare capitale del suo regno e doveva presentarsi con un castello inespugnabile dove avrebbe risiedeuto la sua corte.

 

Nel 1257 ormai il suo potere era al culmine e nessuno in Italia ne in Germania poteva contrastarlo. In questo stesso anno sposò, in seconde nozze, la principessa bizantina Elena Ducas, figlia del despota d'Epiro Michele, discendente da una delle ultime dinastie regnanti di Costantinopoli. Grazie a questa unione ereditò i principati d'Epiro, che gli diedero potere su tutto l'Adriatico chiuso dal canale di Otranto.

 

Il 10 agosto del 1258, diffusasi l'idea della morte di Corradino di Svevia, che invece risiedeva in Germania con la sua corte, i prelati e i baroni del Regno offrirono al principe Manfredi la corona del regno di Sicilia, che lui stesso accettò.

 

L'incoronazione avvenne nella cattedrale di Palermo, ma non fu riconosciuta dal Papa Alessandro IV che lo aveva scomunicato. Tra il 1259 e il 1260 i ghibellini, supportati dalle lance manfrediane, riuscirono a sconfiggere i guelfi ripetutamente fino alla disfatta totale di Montaperti, dove Farinata degli Umberti sconfisse definitivamente le fazioni guelfe.

 

L'Italia stava per essere riunita sotto un unico sovrano, giusto ed umano, voluto da tutti, persono dai romani che lo adoravano, ma non era dello stesso parere il Papa, che vista l'impossibilità di trovare alleati in Italia e in Germania, il nuovo pontefice, Urbano IV, cercò prima di dissuadere Riccardo di Cornovaglia, ma fallito l'intento, incoronò re di Sicilia il nobile francese Carlo d'Angiò, che nel 1265 sbarcò a Roma con le sue armate, eeludendo la vigilanza della flotta siciliana.

 

A quel punto Manfredi cercò l'appoggio del popolo romano per farsi nominare imperatore, essendo il figlio di Federico II e contando sull'affetto del popolo italiano. I romani però in quell'occasione non appoggiarono il re di Sicilia.

 

Le truppe francesi che scesero dal Nord sconfissero facilmente le truppe ghibelline dei liberi comuni italiani, che non riuscirono ad appoggiare militarmente Manfredi. Nei pressi di Ceprano ci fu una grande battaglia che vide i cavalieri italiani sconfitti da quelli francesi. Il 26 febbraio 1266 Manfredi fu definitivamente sconfitto dai cavalieri di Carlo a Benevento, cadendo sul campo.

 

L'eroica resistenza del re di Sicilia lo rese protagonista di innumerevoli leggende popolari e lo fece passare come eroe nella storia del nostro Paese.

 

I cavalieri francesi che si batterono contro di lui resero omaggio alle sue spoglie e fecero passare Manfredi nella leggenda.

 

Anche Dante Alighieri lo cita nel Purgatorio canto III, ai versi 103-145, tra coloro che si sono pentiti in punto di morte: "E un di loro incominciò: Chiunque tu se', così andando, volgi 'l viso: pon mente se di là mi vedesti unque". Io mi volsi ver lui e guardail fiso: biondo era e bello e di gentile aspetto, ma l'un de' cigli un colpo avea diviso. Quand'io mi fui umilmente disdetto d'averlo visto mai, el disse: "Or vedi"; e mostrommi una piaga a sommo 'l petto. Poi sorridendo disse: "Io son Manfredi, nepote di Costanza imperadrice; ond'io ti priego che, quando tu riedi, vadi a mia bella figlia, genitrice de l'onor di Cicilia e d'Aragona, e dichi 'l vero a lei, s'altro si dice. Poscia ch'io ebbi rotta la persona di due punte mortali, io mi rendei, piangendo, a quei che volontier perdona. Orribil furon li peccati miei; ma la bontà infinita ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei. Se 'l pastor di Cosenza, che a la caccia di me fu messo per Clemente allora, avesse in Dio ben letta questa faccia, l'ossa del corpo mio sarieno ancora in co del ponte presso a Benevento, sotto la guardia de la grave mora. Or le bagna la pioggia e move il vento di fuor dal regno, quasi lungo 'l Verde, dov'e' le trasmutò a lume spento".

 

Con questa lode, che indica quanto Manfredi abbia lasciato nell'immaginario collettivo italiano, finisce l'epopea dei re Svevi d'Italia, che avrebbero unificato il regno fin dal XIII secolo e scritto una nuova storia nella nostra Penisola.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Momigliano E., Manfredi, Dall'Oglio, Milano 1963

Pispisa E., Il regno di Manfredi, Messina 1991



 

 

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