attualità
Il colpo di
stato in Mali
altra
benzina sul fuoco subsahariano
di Gian Marco Boellisi
Il 2020, ormai si è capito, passerà agli
annali come l’anno del Covid-19 e
dell’emergenza sanitaria che ha
ricordato agli abitanti del globo il
significato della parola “pandemia”. Per
quanto questo sia indubbiamente uno
degli eventi storici più importanti
della nostra storia moderna, esso ci ha
fatto perdere di vista svariati
avvenimenti altrettanto importanti e che
in maniera eguale scriveranno la storia
degli anni a venire. Uno di questi
risulta senza dubbio il recentissimo e
(quasi) inaspettato colpo di stato
militare in Mali, avvenuto lo scorso 18
agosto 2020.
Per quanto siamo ormai purtroppo
abituati a vedere l’Africa come luogo in
cui avvengono solo catastrofi naturali o
disastri politico-militari,
l’indifferenza e l’ignavia della
comunità internazionale ha portato
ancora una volta ulteriore disordine in
un paese chiave per la stabilità della
regione subsahariana, del continente
africano e infine anche della cara e
vecchia Europa, la quale si crede
erroneamente al sicuro dalle
ripercussioni di simili eventi
dall’altro lato del Mediterraneo.
Risulta quindi interessante analizzare
le motivazioni che hanno portato a
questo ennesimo golpe militare e quali
potrebbero essere le future conseguenze
su un’area così a lungo martoriata dalla
violenza e dal conflitto.
Partiamo dalle premesse. Il Mali risulta
essere uno dei paesi più affascinanti e
culturalmente ricchi dell’intera Africa
subsahariana. Paese dalla profonda e
antichissima storia, il Mali è sempre
stato un crocevia di uomini, merci e
culture.
Entrato nell’occhio delle mire
espansionistiche francesi, esso divenne
una colonia nel 1864 e rimase tale fino
alla sua indipendenza nel 1960. Il primo
presidente eletto a seguito
dell’indipendenza, Modibo Keïta, adottò
delle politiche economiche e sociali di
stampo marxista, distruggendo la neonata
e fragile economia del paese
subsahariano.
Ciò creò lo scontento che portò al
sanguinoso colpo di stato del 1968
effettuato da Moussa Traoré, il quale
rimase presidente fino al 1991. Questi
venne deposto a sua volta da un altro
colpo di stato. Qui i militari artefici
del golpe, al posto di prendere il
potere nelle proprie mani, decisero di
instaurare un governo di transizione
civile, il quale portò a regolari
elezioni e a svariati mandati di
presidenti eletti secondo queste
modalità. Per quanto il processo
democratico nel paese fosse sempre molto
fragile, si proseguì per svariati anni
lungo questa strada.
Nel 2008 si ebbe un nuovo accenno di
instabilità, con la riaccensione delle
tensioni con i tuareg, popolazione
nomadica risiedente nel nord del paese.
Nel 2012 si ebbe ancora un altro colpo
di stato, il quale rimischiò le carte in
tavola all’interno dello stato maliano e
portò solo confusione nel tessuto
istituzionale del paese. A seguito del
golpe furono indette ulteriori elezioni,
dalle quali uscì vincente il presidente
Ibrahim Boubacar Keïta.
Parallelamente al cambio dei vertici
dello stato, le tensioni con le etnie
del nord si tramutarono in una vera e
propria guerra civile tra le forze
governative e i ribelli tuareg insieme
ai gruppi jihadisti ivi insediatisi nel
corso degli anni. Fiutando il potenziale
pericolo nel perdere un paese importante
come il Mali alla causa jihadista, la
comunità internazionale, e in particolar
modo la Francia, la quale ha sempre
esercitato un’enorme influenza in Mali
in virtù soprattutto delle ricchissime
risorse minerarie ivi presenti, con
supporto logistico e militare
statunitense, intervenne manu
militari nel paese respingendo le
forze ribelli e riportando la situazione
a un livello quanto meno gestibile.
Da questi eventi scaturì una
conclusione, ora come allora, chiara a
tutti quanti: il nord del Mali, per la
sua particolare conformazione
territoriale, era diventato uno degli
epicentri principali d’instabilità del
Sahel. Da qui infatti hanno avuto
origine negli anni tutti i gruppi
terroristici che non solo operano nei
paesi limitrofi, quali Niger e Burkina
Faso, costituendo la cosiddetta “zona
dei tre confini”, ma che proiettano
anche le proprie attività verso paesi a
Nord, quali Libia, Tunisia, Algeria,
vedendo come obiettivo ultimo il Vecchio
Continente. Nonostante gli anni siano
passati, Parigi impiega ancora oggi
svariate migliaia dei propri soldati nel
paese e nella regione, incorrendo
periodicamente in perdite e
interrogandosi costantemente se abbia
ancora un senso restare in un paese la
cui gestione risulta tanto difficile.
Avendo analizzato il contesto del Mali
degli ultimi 20 anni, si può ben capire
quanto sia instabile questo paese e
quanto la stessa popolazione abbia
difficoltà a sentirsi rappresentata
dalla propria classe politica. Questo
diffuso malcontento ha portato a
un’ondata di proteste che hanno
coinvolto tutto il paese a partire dal 5
giugno scorso.
Le manifestazioni di piazza sono state
capeggiate da un movimento
anti-establishment denominato M5-RFP (Mouvement
du 5 juin / Rassemblement des forces
patriotiques) e sono scaturite
principalmente a seguito delle elezioni
per il rinnovo dell’assemblea nazionale
tenutesi ad aprile, dove il partito
dell’ormai ex presidente Ibrahim
Boubacar Kéita (conosciuto anche come
IBK) avrebbe ottenuto dei numeri
importanti in maniera abbastanza ambigua
e fumosa.
Ovviamente tra le richieste dei
manifestanti vi erano le immediate
dimissioni del presidente, così come
cambiamenti radicali al sistema
istituzionale maliano e politiche
economiche strutturate per la crescita
del paese. Le proteste sono andate
avanti per svariate settimane, senza
ottenere alcun apparente risultato e
rimanendo nell’indifferenza generale
della comunità internazionale.
In questo agitato contesto si inserisce
il golpe militare avvenuto ad agosto
2020, seguendo peraltro quasi
esattamente lo stesso schema di quello
avvenuto nel 2012. Infatti, in entrambe
le occasioni, il tutto è partito dalla
base militare di Kati, a qualche decina
di chilometri a nord della capitale
Bamako. Il 18 agosto, già dalle prime
ore del mattino, le agenzie di stampa
hanno iniziato a riferire di colonne di
militari diretti verso Bamako,
cominciando così a paventare nell’aria
la possibilità di un colpo di stato.
Di lì a poche ore si avrebbe avuta la
conferma che il presidente IBK sarebbe
stato arrestato nella sua residenza nel
quartiere di Sebenikoro insieme al primo
ministro Boubou Cissé. Costretti
entrambi con la forza ad andare presso
la base militare di Kati, il presidente
Keïta è stato forzato alle dimissioni e
a sciogliere il governo insieme
all’assemblea nazionale in tarda serata
in diretta tv nazionale. Un colpo di
stato iniziato e portato a termine in
meno di 24 ore, come neanche nei
migliori manuali.
Il golpe tuttavia non deve essere visto
come un fulmine a ciel sereno. Anzi,
tutto il contrario. Già a febbraio 2020
si vociferava della possibilità di un
colpo di stato, specie a seguito di un
discorso molto duro del presidente Keïta
contro le alte sfere dell’esercito, dove
queste venivano accusate di abusi contro
la popolazione, appropriazione indebita
e mancanza di polso nella guerra contro
gli jihadisti al nord.
In molti paesi africani, in Mali come
anche in Egitto, l’esercito svolge da
sempre un ruolo estremamente importante
nelle politiche interne dei propri
paesi, tanto da essere a volte
paradossalmente l’ago della bilancia che
mantiene lo stato in equilibrio prima
che si sgretoli a causa delle proprie
pressioni interne. La cosa che ha
sorpreso è che, a seguito delle
dimissioni del presidente, i militari
golpisti hanno creato il Comité
national pour le salut du peuple (Cnsp
- Comitato Nazionale per la Salvezza del
Popolo), affermando di voler gestire la
transizione politica in maniera pacifica
verso un nuovo assetto istituzionale del
paese. Da parte della società civile non
si sono avute esplicite manifestazioni
di dissenso nei confronti dei militari,
testimoniando così la più totale
insofferenza nei confronti dell’ex
presidente Keïta.
All’interno del Cnsp tra i membri più
attivi vi sono i colonnelli, figure di
grado elevato, ma comunque non ai
vertici della catena di comando, i quali
effettuano la maggior parte delle azioni
e delle attività, supportati sempre e
comunque dai generali. Finora i militari
si sono detti non interessati al potere
e al momento le loro azioni sembrano
ricalcare tali parole.
Tuttavia è sempre bene stare attenti
alle dinamiche politiche immediatamente
successive a un colpo di stato, specie
da chi ha il potere di schierare intere
divisioni di carri armati nell’arco di
poche ore nel centro della capitale.
Nonostante ciò, molti osservatori
internazionali sono rimasti colpiti
dalla continuità internazionale che Cnsp
sta conferendo al Mali. Infatti sono
state confermate tutte le alleanze a
livello internazionale ed è stata
confermata sia la MINUSMA, ovvero la
missione ONU in Mali, sia Takuba, ovvero
la task force anti-terrorismo nel Sahel.
Oltre all’impegno in politica estera, il
Cnsp ha invitato i vari movimenti civili
attualmente presenti nel paese a unirsi
al processo di transizione a seguito del
cambio di regime. Per quanto il
movimento M5-RFP inizialmente abbia
accolto con silenzio l’invito, con il
passare delle settimane si sono
succeduti vari tentativi e incontri per
progettare un governo provvisorio fino
alle prossime elezioni.
Tuttavia, già dai primi colloqui, sono
state messe in evidenza profonde
differenze di veduta tra i militari e la
società civile e ancora oggi si sta
lottando per trovare un terreno comune
su cui ricostruire le istituzioni del
paese. I militari hanno promesso di
ridare il controllo alla società civile
e quindi riattivare il processo
democratico entro 30 mesi, tuttavia
anche solamente su questa tempistica non
tutte le forze in gioco e i partiti del
Mali sono d’accordo, fattore che
complica già sul nascere un fragilissimo
equilibrio che può essere rotto in
qualsiasi momento.
Per quanto le dinamiche interne del
paese stiano tenendo gli osservatori
internazionali occupati, il cuore del
problema è un altro. Infatti ci sta
chiedendo sempre più spesso come sia
stato possibile che sia avvenuto un
golpe in un paese verso cui l’attenzione
della comunità internazionale è
estremamente alta, soprattutto in virtù
delle molte missioni internazionali in
corso e delle somme investite per
riformare il sistema di sicurezza
locale.
Il Mali è infatti ormai da anni sotto i
riflettori internazionali per i più
disparati motivi e, nonostante la
presenza massiccia di personale militare
estero, ciò non ha impedito né ha
minimamente paventato il sentore di un
colpo di stato in un paese chiave
dell’Africa subsahariana. È emersa
quindi, per l’ennesima volta, l’enorme
distanza tra la visione e la percezione
che i partner occidentali di turno hanno
di una certa nazione e l’effettiva
realtà politica e sociale di quella
stessa nazione, portando così milioni di
euro investiti per raggiungere i più
disparati obiettivi nonché la perdita di
vite umane, locali e occidentali, a
risultare inconcludente in termini
politici nel breve, medio e lungo
termine.
È tuttavia possibile anche che qualche
stato in particolare sapesse del golpe e
abbia lasciato correre per certi
interessi o accordi pregressi con i
golpisti, tuttavia ciò non toglie che le
varie missioni militari e umanitarie
estere presenti in Mali, tra cui 10.000
soldati dell’ONU e 5.000 francesi, non
abbiamo scalfito il problema dello
jihadismo nelle aree subsahariane, ma
aggiunto solo ulteriore entropia a una
regione già nel totale caos.
In conclusione, il Mali si trova ancora
una volta ad affrontare una grave crisi
politica e sociale a seguito dell’ultimo
colpo di stato. Al momento attuale
risulta estremamente difficile prevedere
gli esiti di ciò che accadrà da qui a
pochi mesi, specialmente per le
innumerevoli forze in gioco e
soprattutto interessi, locali e
internazionali, in ballo.
I vari attori internazionali, che finora
sembrano aver lavorato in una dimensione
parallela completamente scollegata dalla
realtà, dovranno probabilmente agire in
maniera più concreta dal punto di vista
politico e sociale, e non semplicemente
mandare più soldati come fatto finora,
qualora vogliano vedere un cambiamento
concreto in Mali.
Dall’altro lato vi sono i cittadini del
Mali, vessati da condizioni di vita
decisamente non tra le migliori a questo
globo e in preda a una guerra civile di
immemore durata e da una crisi politica,
economica e sociale ormai in atto da
quasi vent’anni.
Tuttavia proprio la popolazione del Mali
può solamente trovare la forza morale, e
quindi politica, di cambiare le
dinamiche in atto e di riportare il
paese verso una direzione stabile,
malgrado la presenza di colonnelli,
jihadisti o potenze straniere. |