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> Diritti umani e civili

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N. 3 - Agosto 2005

IL MOVIMENTO PER LA DIFESA DEI DIRITTI CIVILI IN UNIONE SOVIETICA

Intervista al dissidente sovietico Jurij Vladimirovič Mal'cev - Parte II

di Stefano De Luca

 

D) Cosa ha significato per gli ambienti dissidenti l’intervento delle truppe del Patto di Varsavia a Praga nel 1968 ?

R) La primavera di Praga è stata molto seguita dai circoli dei dissidenti. Sentivamo di non essere soli. Abbiamo vissuto questa situazione come un atto di solidarietà internazionale, visto che anche altri avevano gli stessi problemi, volevano le stesse cose. Ci sentivamo fratelli. Quando intervenne l’esercito sovietico, l’abbiamo vista come una catastrofe. Sapete che in quel giorno sulla piazza Rossa c’è stata una manifestazione in difesa del popolo ceco-slovacco.

 

D) Fatta da pochi individui, però.

R) Abbiamo pensato a come farla. E’ stato Litvinov assieme ad altri sei dissidenti ad andarci. Saremmo potuti andare in trenta, in cinquanta, in cento, forse anche in duecento, ma saremmo stati arrestati tutti e duecento, e il movimento del dissenso sarebbe stato distrutto, decapitato. Fu una scelta quella di andare in pochi, per dimostrare la nostra solidarietà al popolo ceco-slovacco senza vedere distrutto il dissenso.

 

D) Quindi eravate pienamente consapevoli di cosa vi aspettava.

R) Certo, eravamo consapevoli di come sarebbe andata a finire. Si trattava di sacrificare la propria vita. E non potevamo sacrificarla tutti insieme.

 

D) Lei, professor Mal’cev, è stato tra i fondatori del ‘Gruppo d’iniziativa per la difesa dei diritti civili’ in Unione Sovietica. Può spiegarci perché decise di agire in prima persona, cosa fu a spingerla a palesare il suo dissenso?

R) Io sono entrato in conflitto con il potere ancora prima che nascesse questo Gruppo, da solo, senza ancora conoscere nessuno. Sono entrato in conflitto con il potere chiedendo il semplice diritto, sancito dalla Costituzione, di fare un viaggio in Italia. Io studiavo la lingua italiana, volevo vedere il Paese che amavo, che avevo sempre sognato. Ho scritto una lettera aperta al Soviet supremo nella quale dicevo che se non mi avessero dato il passaporto ed il visto per andare in Italia, io avrei rinunciato alla cittadinanza sovietica. Era il 1966. Il testo di questa lettera lo portai a Litvinov, che mi fece conoscere gli altri.

Nel 1969 decidemmo di fondare questo primo Gruppo di dissenso. Non si può spiegare perché l’ho fatto. Non c’era la questione di scelta, in quanto non c’era nessun dubbio. Se ti dicono che domani devi fare qualcosa di orrendo, di disonesto, non ti viene nemmeno in mente di pensare a cosa fare, è un qualcosa di spontaneo. E’ un atto direi inevitabile, privo di scelta o decisione, ma una cosa spontanea, normale.

 

D) Questo in persone molto sensibili come Lei, visto che la maggioranza del popolo russo non si è data molto da fare.

R) Probabilmente dipende dal carattere di una persona. Uno che è disposto ai compromessi, a scendere ai patti, è assai diverso da uno che non riesce a sottomettersi. C’è chi fa quello che conviene, e chi fa quello che sente.

 

D)Avevate al vostro interno una suddivisione organizzativa dei compiti per portare avanti le vostre forme di protesta (manifestazioni, lettere, appelli, ecc.)? Come facevate a portare avanti la vostra rete di relazioni, quando il KGB controllava con un’attenzione ed una meticolosità estreme ogni vostro movimento?

R) Suddivisioni vere e proprie no, non le avevamo. Sui metodi e le forme d’azione, abbiamo deciso di volta in volta in base a ciò che ritenevamo giusto fare sul momento. Per quanto riguarda come facevamo a portare avanti la nostra attività, è un discorso molto lungo da raccontare. Il KGB era costantemente vigile. I telefoni erano controllati, quindi bisognava trovare dei modi per ingannare il KGB, parlare in modo che non potesse capire.

Abbiamo inventato delle nostre parole, una specie di codice. Se uno diceva ‘domani c’è il compleanno di mia figlia’, non significava questo. Le case dei dissidenti erano tutte fornite di microfoni, ed ogni parola veniva così ascoltata. Dovevamo ingannare il KGB. Se ci trovavamo in tavola e parlavamo di che tempo avrebbe fatto il giorno seguente, contemporaneamente scrivevamo su fogli di carta le nostre intenzioni d’azione. Scrivere con la penna su carta era però scomodo, rischioso, dovevamo alla fine distruggere questi fogli, ed inoltre anche reperire la carta stessa non era una cosa semplicissima. Allora abbiamo capito che ci voleva qualcos’altro. La soluzione la trovammo nei negozi per bambini. Comprammo le lavagnette con i gessi per scrivere. Era molto comodo. Scrivevamo e cancellavamo subito, così eliminavamo ogni traccia del dialogo.

Usavamo molti metodi per ingannare il KGB, prestavamo grande attenzione ad ogni nostro passo, ad ogni nostra parola. Il KGB ci seguiva. Se per esempio dovevamo andare ad incontrare i corrispondenti occidentali per trasmettere qualche notizia, dovevamo far perdere le nostre tracce agli uomini del KGB. Bisognava uscire di casa due o tre ore prima dell’appuntamento. C’erano magari due uomini a piedi ed una macchina che ci seguivano. Allora tu entravi nella metropolitana, così la macchina non ti poteva seguire. Ti seguivano però quelli a piedi. Allora tu entravi nel vagone della metropolitana, e con te gli uomini del KGB. Ti tenevi vicino alla porta e, con prontezza, scendevi dal vagone appena si stavano chiudendo le porte. Loro partivano, e tu eri libero. Avevamo comunque tanti, tanti modi per far perdere le nostre tracce ed andare ai nostri appuntamenti. Era una vita impegnativa.

 

D) A causa del Suo impegno civile, ha dovuto vivere l’esperienza terribile dell’internamento in un ospedale psichiatrico. Se la sente di parlarci di questo crimine di cui fu vittima?

R) L’ospedale psichiatrico è la cosa più orrenda che gli anni di regime comunista abbiano prodotto. Distruggeva non il fisico, non il corpo, ma proprio l’anima. Era l’esperienza più terribile che potesse capitare ad una persona. C’era innanzi tutto l’umiliazione, non tanto la violenza o l’arbitrio, ma l’umiliazione di non essere considerato come un uomo. Eri un malato di mente. Un oggetto inanimato. Così, se provavi a dire qualcosa, loro non ti ascoltavano. Eri come il cane che abbaia. Non aveva nessun significato quello che dicevi. Era l’impotenza assoluta. La sofferenza di non poter opporre niente. Diventavi un oggetto qualsiasi nelle mani di quei carnefici, che ti potevano fare tutto quello che volevano.

 

D) Ed il personale medico degli ospedali psichiatrici, con che etica professionale faceva tutto questo?

R) Non erano medici, erano ufficiali del KGB. Tutti. Non c’era nemmeno un medico libero, erano tutti ufficiali, maggiori, tenenti del KGB. I colonnelli erano i più potenti, erano quelli che potevano tutto contro di te. Non erano ospedali psichiatrici normali, civili, dove i medici curavano i malati. Erano ospedali psichiatrici ‘speciali’. La parola speciali dice tutto. Erano ospedali-prigione destinati a chi il regime voleva opprimere. Il personale di questi ospedali faceva ciò che diceva il KGB, e non quello che diceva la loro coscienza. Erano persone che avevano venduto la loro coscienza. Persone paragonabili forse a quei nazisti che lavoravano ad Auschwitz ed eseguivano gli ordini di Hitler.

 

D) Una volta crollato il sistema sovietico, che fine hanno fatto queste persone?

R) Impuniti. Hanno continuato a fare il loro mestiere. Oggi molti di loro sono andati in pensione, il crollo dell’Unione Sovietica non ha inciso su di loro. Grigorenko racconta che, una volta uscito dall’ospedale, un giorno, entrando in un negozio, vide la sua ‘dottoressa’ che lo aveva ‘curato’. Non la riconobbe subito, ma quando se ne accorse disse di aver visto “una donna con l’orrore negli occhi”.  La ‘dottoressa’ tremava di paura, e scappò terrorizzata. Grigorenko comprese che era la sua ‘dottoressa’ che scappava perché temeva che lui l’avrebbe uccisa, che l’avrebbe picchiata. Aveva paura della vendetta. Queste persone si sentivano colpevoli, ma facevano lo stesso quanto gli veniva ordinato.

 

Intervista rilasciata a Milano il 9 dicembre 2003 in occasione del

Convegno internazionale I Giusti nel Gulag

 

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