[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

177 / SETTEMBRE 2022 (CCVIII)


attualità

A PROPOSITO DI MAHSA AMINI
IL VENTO DELL’IRAN, TRA LOTTA
ED EMANCIPAZIONE

di Francesca Zamboni

 

Mahsa Amini morta a soli 22 anni per una ciocca di capelli al vento; il vento dell’Iran che avrebbe dovuto vederla crescere, affermarsi e invecchiare. Ma dal 1979 in quella terra è tornato a soffiare un vento contrario che ostacola ogni tipo di emancipazione femminile, dietro il pretesto di un velo del cui termine “hijab” peraltro non abbiamo traccia a livello coranico. L’avvento di Ruhollāh Mostafavī Mōsavī Khomeini, con l’instaurazione di una Repubblica Islamica, dopo una rivoluzione popolare, segnò allora la rottura con il predecessore Mohammad Reza Shah Phalavi ormai considerato servitore di un Occidente ingombrante, ma con una conseguenza paradossale perché se quella rivoluzione vi era stata, in parte era avvenuta grazie anche a quelle donne contro le quali oggi gli stessi religiosi infieriscono, minando nuovamente i loro diritti e ledendo la loro dignità.

 

L’intimo motivo non è da ricercarsi nelle leggi imposte post rivoluzione, bensì nella natura culturale del paese prettamente patriarcale e antecedente all’ascesa di Khomeini. D’altronde la figura femminile relegata all’ambiente domestico e sottomessa a quella maschile è precedente alla Repubblica Islamica. E Khomeini non fece altro che giocare pretestuosamente le sue carte politiche dopo due Shah che, sebbene fossero riusciti a modernizzare ed emancipare il paese abolendo il velo (1963) e concedendo il diritto di voto alle donne (1967), non riuscirono tuttavia a coinvolgere le aree rurali, ma solo quelle urbane.

 

Quando le donne iraniane scesero in piazza nel 1978-1979 si trattò di una manifestazione contro un regime considerato oramai corrotto e servitore dell’occidente. Manifestare significava, nel loro intento, progredire a fianco degli uomini contro l’occidentalizzazione dell’impero. Non solo, re-indossare il chador o l’hijab fu inizialmente il loro strumento di riscatto culturale, per giustificare una presenza pubblica accanto a quelle figure maschili a cui fino a quel momento, a causa di una mentalità patriarcale, non avevano alcun diritto di potervi partecipare.

 

Se da un lato lo Shah aveva concesso alle donne misure volte alla loro emancipazione, basti elencare la concessione dell’elettorato attivo e passivo del 1963, l’accesso alle cariche pubbliche e la legalizzazione dell’aborto, dall’altro lato Khomeini le osteggiava fortemente, spingendole a manifestare contro ciò che poteva elevarle. La motivazione è da ricercarsi nelle promesse dell’ayatollah che, non solo assicurava la parità tra uomo e donna politicamente, ma anche nella diversa estrazione sociale da cui le donne provenivano e che lottavano contro una monarchia dispotica con necessità e ideologie differenti.

 

Le donne appartenenti alla borghesia laica, che studiavano e lavoravano, non indossavano il velo, provenivano dalle aree urbane ed erano disposte ad affrontare la situazione democraticamente; ma vi erano anche le donne dei ceti popolari della borghesia religiosa, che vivevano le riforme dello Shah come un oltraggio ai loro precetti religiosi.

 

Ecco perché molte donne laiche, a un mese esatto dopo lo scoppio della rivoluzione (8 marzo 1979), scesero nuovamente in piazza per contestare, tra bastonate, l’islamizzazione forzata dello Stato e l’imposizione del velo da parte dell’ayatollah Khomeini che, nonostante le rassicurazioni date al popolo femminile, rese il velo obbligatorio assieme ad altre leggi discriminanti, misogine e umilianti, arrivando imperterrite fino ai nostri giorni, fino a Masha. Il velo divenne simbolo di purezza e onore di cui lo Stato islamico si fece garante.

 

Di rimando il messaggio che le donne ricevettero fu duplice: per le donne islamiste rappresentò la chiave di accesso a quei luoghi che fino a quel momento erano stati loro preclusi: università e posti di lavoro; per le donne laiche fu il segno dell’oppressione da cui fuggire indossando hijab coloarati e a cui la “polizia morale” cominciò a rispondere con violenza inaudita. Da qui la fatwa contro khomeini nel 1980 per rendere illegittime tali aggressioni.

 

Le donne cosiddette “mal velate”, catturate come prede dalla “polizia morale”, raccontano ancora oggi una dimensione distopica, a cui le rivolte in nome di Mahsa stanno tentando in questi giorni di dare un altro volto all’Iran: quello della dignità, dell’autonomia e della capacità di autodeterminarsi con la speranza che il vento possa cambiare e accarezzare i capelli di tutte le donne.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]