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N. 138 - Giugno 2019 (CLXIX)

le "MADRI COSTITUENTI"

sulle donne che fecero l'italia

di Stefano Coletta

 

Capita, non di rado, di sentir parlare dei cosiddetti Padri Costituenti, con riferimento ai fondatori della nostra nazione. Appare quindi quanto mai giusto e sacrosanto rivolgere lo sguardo anche alle «Madri Costituenti» che con fatica, abnegazione, coraggio e determinazione riuscirono a rivendicare i diritti delle donne. In tal modo riuscirono a rendere la struttura giuridica della «Nostra Nazione» moderna e anche basata sui principi di giustizia e uguaglianza.

 

Il 2 giugno non è solo la ricorrenza per la nascita della Repubblica Italiana e della ritrovata libertà, ma anche la festa del diritto di essere tutti, indipendentemente, dal sesso, dalla razza e dal colore cittadini italiani: diritto che divenne realtà grazie all’elezione a suffragio universale.

 

Tale diritto era stato rivendicato, sin dalla pubblicazione, nel 1866, del «Codice Pisanelli» ovvero «Codice Civile». A ribadirlo ci pensarono donne del calibro di Anna Kuliscioff e, soprattutto, di Anna Maria Mozzoni ma, nonostante tutto, rimase lettera morta fino al 1943.

 

In quell’anno, mentre ancora si combatteva per cacciare i tedeschi e porre termine al predominio dei fascisti, riorganizzatisi dopo la rinascita della Repubblica Sociale di Salò, per le contrade d’Italia; le donne del Comitato Nazionale di Liberazione presentarono al Governo Bonomi, in data 8 ottobre 1944, un memoriale con il quale chiedevano e rivendicavano il diritto di voto per le donne.

 

La mozione recava la firma, indipendentemente dall’ideologia, delle seguenti rappresentati del CNL: Angela Guidi Cingolani (Democrazia Cristiana), Rita Montagnana Togliatti (Partito Comunista), Giuliana Nenni (Partito Socialista Italiano), Josette Lupinacci (Partito Liberale Italiano), Bastianina Musu Martini (Partito d’Azione).

 

La proposta venne discussa il 30 gennaio del 1945 e approvata, senza grosse difficoltà, nei giorni successivi. Le donne avevano conquistato il diritto di accedere agli scanni della «Consulta Nazionale», istituita, il 5 aprile del 1945, con l’intento di fornire pareri su problemi riguardanti il bilancio e la legge elettorale.

 

Il «Comitato pro Voto», formatosi il 25 ottobre 1944, a Roma, coinvolse tutti i partiti del CLN, che parteciparono alla stesura di un promemoria allo scopo di rivendicare il diritto di voto delle donne. Il 1 febbraio 1945, mediante Decreto Legislativo Luogotenenziale, venne attribuito, ufficialmente, il voto alle donne.

 

Nel frattempo, il 5 aprile 1945, venne istituita la «Consulta Nazionale», ovvero un’assemblea legislativa provvisoria con lo scopo di sopraintendere all’organizzazione delle elezioni politiche, non appena tutta la Penisola fosse stata liberata dal regime nazi-fascista.

 

I Consultori erano 430, nominati dal governo Bonomi, dietro designazione delle organizzazioni di appartenenza, tra costoro c’erano quattordici donne, che rappresentavano i seguenti partiti: due la Democrazia Cristiana, quattro il Partito Socialista, cinque il Partito Comunista, una il Partito Liberale, una il Partito d’Azione, una le organizzazioni sindacali.

 

Erano donne provate dal carcere, dal confino o dalla deportazione come Teresa Noce o Adele Bei, attiviste delle organizzazioni cattoliche come Angela Guidi Cingolani, o insegnanti, come Battistina Musu, designata dal Partito d’Azione, ma deceduta prima dell’inizio dei lavori.

 

I lavori iniziarono il 26 settembre 1945, con il saluto di Ferruccio Parri, ed entrarono subito nel vivo discutendo l’ordine del giorno riguardante l’estensione del diritto di voto alle donne, contrari, stranamente, erano i partiti di massa, in particolare, il Partito Comunista, il Partito Socialista e il Partito d’Azione che avevano timore che le donne dimostrassero disinteresse verso la politica oppure venissero condizionate dagli uomini o, peggio, dalla Chiesa.

 

Ma le Consultrici, guidate da Virginia Maria Minoletti Quarello, s’opposero e si batterono perché convinte assertrici che il voto potesse essere per le donne il coronamento della propria crescita e della propria formazione democratica, avvenuta negli anni del Regime Fascista.

 

Dopo vari interventi, da parte delle Onorevoli, riuscirono a spuntarla e il 15 febbraio 1946, con 179 voti favorevoli e 156 contrari, il voto venne concesso di diritto alle donne.

 

Votarono contro il Partito Comunista, il Partito Socialista e il Partito d’Azione, lo stesso giorno «L’Unità» spiegò le ragioni del voto, adducendo a giustificazione il timore che le donne potessero essere influenzate e condizionate, soprattutto al Sud, dai prelati. Mentre la Consultrice Angela Cingolani affermò: «Credo proprio d’interpretare il pensiero di tutte noi Consultrici invitandovi a considerarci non come rappresentanti del solito sesso debole e gentile, oggetto di formali galanterie e cavalleria di altri tempi, ma pregandovi di valutarci come espressione rappresentativa di quella metà del popolo italiano che ha pur qualcosa da dire […] È mia ferma convinzione che se non ci fossero stati questi venti anni di mezzo, la partecipazione della donna alla vita politica avrebbe già una storia. Comunque ci contentiamo oggi di entrare nella cronaca, sperando attraverso le nostre opere di essere ricordate nella storia di questo secondo Risorgimento del nostro paese».

 

Giunse il giorno delle elezioni, contrariamente, alle previsioni la partecipazione fu alta, anzi, altissima, smentendo le paure e le ansie di alcuni partiti di massa. Furono eletti 573 componenti, di cui 21 donne, che erano: Adele Bei Bianca Bianchi, Laura Bianchini, Elisabetta Conci, Maria De Unterrichter, Jervolino Filomena, Delli Castelli Maria, Federici Nadia, Gallico Spano, Angela Gotelli, Angela M. Guidi Cingolani, Leonilde Iotti, Teresa Mattei, Angelina Livia Merlin, Angiola Minella, Rita Montagnana, Togliatti Maria, Nicotra Fiorini, Teresa Noce Longo, Ottavia Penna Buscemi, Elettra Pollastrini, M. Maddalena Rossi Vittoria Titomanlio.

 

L’Assemblea Costituente s’insediò il 25 giugno del 1946 e i lavori iniziarono il 20 luglio successivo, con la «Commissione dei Settantacinque», il cui nome derivava dal numero dei suoi componenti, chiamata a forgiare, dal giugno 1946 al marzo 1947, la colonna vertebrale giuridica della Nazione. A presiedere la Commissione venne designato il Presidente del Consiglio di Stato: Meuccio Ruini, che godeva della fiducia di tutti i partiti, sia dal punto di vista tecnico che politico.

 

La «Commissione dei Settantacinque» suddivise il lavoro redazionale in tre sottocommissioni, con le seguenti competenze: Sottocommissione I: «I Diritti e Doveri del Cittadino»; Sottocommissione II: divisa in due sezioni trattò l’«Ordinamento costituzionale dello Stato della Repubblica»; Sottocommissione III: «Diritti e Doveri nel campo economico e sociale».

 

Il risultato del lavoro delle singole sottocommissioni doveva essere sottoposto al cosiddetto «Comitato dei Diciotto», ossia il «Comitato di redazione», al cui interno non v’era nessuna «Costituente».

 

Delle ventuno donne facenti parte dell’Assemblea Costituente, soltanto quattro vennero designate: Nilde Iotti, Teresa Noce, Angelina Merlin e Maria Federici. Angela Gotelli venne aggiunta, nel febbraio 1947, in sostituzione del collega dimissionario Carmelo Caristia.

 

Iotti e Gotelli fecero parte della I Sottocommissione; Federici, Merlin e Noce della III Sottocommissione. Nessuna donna era presente nella II Sottocommissione. Per cui l’attività delle «Madri Costituenti», nella fase istruttoria dei lavori di redazione della carta costituzionale, risultò concentrata sui temi riguardanti la condizione della donna e della famiglia.

 

Nella I Sottocommissione Nilde Iotti, appartenente al Partito Comunista, si ritrovò a dover lavorare insieme con Camillo Corsanego, appartenente alla Democrazia Cristiana, «il diavolo e l’acquasanta» qualcuno ebbe a concludere, quando i due non riuscirono a trovare un accordo comune.

 

Nonostante ciò, l’Onorevole Iotti intervenne, nella seduta dell’8 ottobre 1946, per difendere il principio della pari retribuzione fra uomo e donna, a fronte di posizioni di segno opposto, come quella di Umberto Merlin, sostenitore dell’«essenziale missione familiare della donna», per cui il salario era un di più, che andava sempre considerato alla situazione.

 

Presso la III Sottocommissione il contributo, più rilevante, venne fornito dalle distinte e diverse relazioni riguardanti le «Garanzie economico-sociali per l’esistenza della famiglia», presentate dalle onorevoli Maria Federici, Angelina Merlin e Teresa Noce, in ordine democristiana, socialista e comunista.

 

Nonostante le impostazioni ideologiche diverse, le Costituenti si concentrarono sulle seguenti tematiche: La famiglia; Le modalità di accesso delle donne nella carriera giudiziaria.

 

Il battesimo del fuoco s’ebbe il 15 gennaio 1947, quando vennero discussi i tre articoli sulla famiglia e i relativi emendamenti sul testo predisposto dal Comitato dei Diciotto.

 

Nel primo articolo si riconosceva la famiglia come società naturale, garantiva i diritti che assicuravano l’adempimento della sua missione, nonché l’aiuto economico necessario ai cittadini bisognosi per formare famiglia e sostenerne gli oneri. Nel secondo articolo veniva sancita l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi e l’indissolubilità del matrimonio. Nel terzo veniva stabilito il dovere da parte dei genitori di alimentare, istruire ed educare la prole e il dovere da parte della Repubblica di provvedere a un’adeguata protezione della maternità, dell’infanzia, della gioventù e dei figli illegittimi.

 

L’Onorevole Merlin dichiarò che a suo parere «l’Istituto familiare» non rientrava nelle competenze costituzionali, lo Stato doveva solo garantire le persone che volevano costituire una famiglia e assicurare loro un aiuto materiale.

 

L’Onorevole Federici fece notare che il «Comitato dei Diciotto» non aveva ripreso l’articolo, approvato in Sottocommissione, riguardante il dovere di garantire alle famiglie le condizioni necessarie alla sua difesa e al suo sviluppo, come non erano state considerate le garanzie di carattere sociale: assegni familiari del disoccupato, salario, previdenza, assistenza e sgravi fiscali.

 

Nella seduta pomeridiana del 31 gennaio 1947, la Commissione esaminò le disposizioni relative all’accesso alla magistratura, prevedendo che potevano accedere le donne «nei casi previsti dalle norme sull’ordinamento giudiziario».

 

L’Onorevole Leone, futuro Presidente della Repubblica, si dichiarò favorevole al testo licenziato dal Comitato di Redazione, sostenendo che la partecipazione delle donne alla carriera di giudice non poteva essere ancora ammessa, se non, limitatamente, al ruolo di magistrati del Tribunale dei Minori. Dichiarò, inoltre, che negli alti gradi della magistratura, dove «bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo», soltanto gli uomini potevano mantenere il necessario equilibrio e avere l’adeguata preparazione. La formulazione presentata non era un limite, ma solo la soglia necessaria per garantire il buon funzionamento dell’ordinamento giudiziario.

 

Nilde Iotti, Maria Federici e Angela Gotelli scesero in campo, mediante tre appassionati interventi, con i quali contestarono le posizioni espresse dall’Onorevole Leone. Il 18 marzo 1947 si giunse a discutere le «Disposizioni Generali» e intervenne Teresa Mattei che evidenziò come lo sviluppo del paese dovesse andare di pari passo con la piena emancipazione femminile; per ottenere ciò chiese che venisse inserita la locuzione «di fatto» nell’ «articolo 3» della Costituzione.

 

Il 17 aprile 1947 s’iniziò a discutere il «Titolo II» riguardante i rapporti «etico-sociali», intervenne Nadia Gallico Spano che ritenne positivo il fatto che la Costituzione s’occupasse della famiglia, in ben tre articoli, sottolineando il ruolo rilevante che questa istituzione dovesse avere all’interno della società. Condivise l’idea espressa di famiglia intesa come società naturale e lo sforzo di garantire, mediante gli articoli dei rapporti economici, le condizioni materiali per facilitarne la formazione.

 

In ultimo poneva attenzione sul tema dei figli illegittimi, affermando che alla luce dell’«articolo 3» si doveva provvedere alla cancellazione dell’infamante dicitura «figlio di N.N.» dai registri dello Stato Civile.

 

Due giorni dopo, l’Onorevole Filomena Delli Castelli sostenne la necessità d’introdurre all’interno della Carta Costituzionale specifici principi riguardanti la famiglia, per evitare che il legislatore potesse essere influenzato dalle idee preponderanti nella realtà politica del momento, in contrasto con quanto asserito dall’Onorevole Nitti, secondo il quale i rapporti etico sociali dovevano essere trattati dal Codice Civile o Penale.

 

Il 21 aprile Laura Bianchini intervenne sul problema scuola, abbracciando, in qualità di democristiana, l’idea dell’insegnamento come «utilità pubblica», proprio per questo motivo il diritto di aprire scuole non poteva essere esclusiva dello Stato, perché sarebbero stati negati i diritti della persona. A onore del vero, va ricordato che la Costituente Bianchini non chiese che lo stato si facesse carico di sovvenzionare le scuole private, ma ritenne che dovesse essere a carico di quest’ultimi. Subito dopo prese la parola Maria Maddalena Rossi che sostenne che era compito dello Stato regolare i rapporti fra l’istituto familiare, base dello Stato, e lo Stato stesso. Subito dopo s’oppose all’inserimento del principio d’indissolubilità del matrimonio, perché minava, a suo parere, l’istituto stesso della famiglia.

 

Il 24 aprile la discussione proseguì riguardo alle scuole pubbliche e private e le sovvenzioni statali. Laura Bianchini promosse un articolo con il quale rivendicava il diritto da parte di ogni cittadino a ricevere un’istruzione adeguata alla propria personalità. Filomena Castelli sostenne, in base al principio della libertà d’insegnamento, di essere convinta che lo Stato non potesse aver diritto di vietare a enti e privati di realizzare scuole e istituti d’educazione. D’idea opposta era la collega Maria Federici, mentre Bianca Bianchini richiedeva un elevato livello di qualificazione da parte delle scuole private e che il mantenimento fosse a esclusivo carico dei privati.

 

Il 29 aprile si affrontò il tema dell’obbligatorietà e gratuità dell’insegnamento inferiore per almeno otto anni, inoltre, venne valutata la possibilità, per gli alunni meritevoli, ma in condizioni disagiate, di garantire il diritto di raggiungere i più alti gradi d’istruzione tramite borse di studio o assegni familiari.

 

Maria Federici sostenne la necessità di esplicitare che l’insegnamento inferiore fosse garantito per almeno otto anni e che fosse preceduto dalla scuola materna. Angelina Merlin propose che lo Stato si facesse carico per il periodo di frequenza della scuola dell’assistenza dell’alunno, in rispetto del principio che «la scuola è aperta a tutti». Laura Bianchini propose che l’istruzione professionale doveva essere correlata alla richiesta del mondo del lavoro, per cui doveva avere una finalità pratica e sociale. L’indomani riprese la parola e riaffermò il principio della gratuità della scuola e dell’obbligatorietà, sin dai quattro anni e oltre i quattordici anni.

 

Nella seduta del 3 maggio si giunse a discutere il «Titolo III», intervenne Angela Maria Guidi Cingolani, che sostenne la necessità d’inserire gli articoli relativi al salario, al lavoro, alla proprietà, alla previdenza, all’assistenza e alla cooperazione e al risparmio, nel rispetto dei principi formulato, a Filadelfia, nel maggio 1944, dalla XXVI sessione della Conferenza Internazionale del Lavoro. L’emendamento venne accolto nella seduta dell’8 maggio.

 

Subito dopo, si passò a esaminare l’articolo 31, dove la Federici chiese che tutti i cittadini potessero avere il dovere di svolgere un’attività conforme alle «proprie attitudini» e non alle «proprie possibilità». Riteneva, infatti, che il termine «possibilità» fosse una limitazione per la donna nel campo del lavoro e si riservava, quindi, di svolgere questo emendamento, in sede, di discussione degli articoli 48 e 98 riguardanti i diritti politici e l’accesso alla carriera giudiziaria.

 

Il 10 maggio si rese in esame l’articolo 32 riguardante il diritto del lavoratore a percepire una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, tale da permettere un’esistenza libera e dignitosa per sé e per la propria famiglia.

 

Nella medesima seduta s’affrontò l’articolo 33 che equiparava la lavoratrice donna al lavoratore maschio, precisando che le condizioni di lavoro per la donna dovessero consentirle di svolgere la sua essenziale funzione familiare. Maria Federici sottolineò l’inutilità di questa precisazione, quindi prese la parola la Nadia Gallico Spano cofirmataria, assieme a Teresa Noce, Teresa Mattei, Elena Pollastrini, Rita Montagnana, Angelina Merlin, Maria Maddalena Rossi, Adele Bei, Nilde Iotti e Angiola Minella di una mozione con la quale si chiedeva che le condizioni di lavoro delle donne dovessero consentire non solo la loro essenziale funzione familiare, ma anche assicurare alla madre e al fanciullo una speciale e adeguata protezione.

 

Angelina Merlin propose di sopprimere il termine «essenziale» perché a suo parere assumeva un significato limitativo che circoscriveva l’attività della donna al solo ambito familiare. Mentre chiedeva di parlare di parità di rendimento, poiché un lavoro può essere pari anche se viene esplicato in campi diversi. Dopo gli interventi delle Onorevoli Federici, che condivideva il principio, e dell’Onorevole Teresa Mattei, l’articolo 33 venne licenziato insieme al relativo emendamento.

 

Il 22 maggio si affrontò l’«articolo 48» che prevedeva la possibilità per tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, di accedere agli uffici pubblici in condizioni d’uguaglianza, in conformità alle proprie «attitudini», secondo le norme stabilite dalla legge, l’idea di lasciare spazio alle attitudini e a leggi successive, che potessero regolare e definire le condizioni di accesso ai pubblici uffici, spinsero le Costituenti a chiedere la sostituzione del primo comma. Maria Federici sostenne che le attitudini non si provano se non con il lavoro, di conseguenza escludere le donne da determinati lavori voleva significare non permettere loro di provare le loro attitudini. Per questa ragione propose di adottare il termine «requisiti».

 

Si ritornò sull’argomento il 26 novembre 1947, quando si ridiscussero le modalità di accesso delle donne alla magistratura, Maria Federici, in quell’occasione, presentò l’emendamento riguardante il primo comma dell’articolo 98 per eliminare le seguenti parole «possono essere nominate le donne nei casi previsti dall’ordinamento giuridico», ricordò che era stato approvato l’articolo 48, che determinava l’accesso di entrambi i sessi al Pubblico Impiego, per cui chiese di non inserire nella Costituzione una norma che fosse in contrasto con un altro articolo. Aggiunse che l’articolo 98 era il corollario dell’articolo 48, ma nonostante ciò, l’emendamento, votato a scrutinio segreto, non venne approvato.

 

Ma le madri non si arresero, non vollero arrendersi, ne andava del futuro di tutte le donne, nel pomeriggio dello stesso giorno, presentarono un ordine del giorno riguardo al «diritto di accesso a tutti gli ordini e gradi della magistratura» ritenendo che l’Assemblea l’aveva respinto perché formulato in maniera generica. Al termine della discussione venne approvato.

 

Questa discussione sancì la versione definitiva da portare al plenum assembleare della Costituente, che l’approvò il 22 dicembre 1947, con 453 voti favorevoli e 62 voti contrari. Enrico De Nicola, presidente provvisorio dello Stato, la promulgò e venne pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 298 del 27 dicembre, ma entrò in vigore il 1 gennaio 1948.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Addis Saba M., De Leo M., Taricone F., Alle origini della Repubblica, Donne e Costituente, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione nazionale per la parità e le pari opportunità fra uomo e donna, Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Roma 1996;

Arioli L., Le donne dell’Assemblea Costituente, in Il Parlamento Italiano, 1861-1988, XIV, 1946-1947 Repubblica e Costituzione. Dalla Luogotenenza di Umberto alla Presidenza De Nicola, Nuova CEi, Milano 1999.



 

 

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