N. 138 - Giugno 2019
(CLXIX)
le "MADRI COSTITUENTI"
sulle donne che fecero l'italia
di Stefano Coletta
Capita,
non
di
rado, di sentir parlare dei
cosiddetti Padri Costituenti,
con
riferimento
ai
fondatori
della
nostra
nazione.
Appare
quindi
quanto
mai
giusto
e
sacrosanto
rivolgere
lo
sguardo
anche
alle
«Madri
Costituenti»
che
con
fatica,
abnegazione,
coraggio
e
determinazione
riuscirono
a
rivendicare
i
diritti
delle
donne.
In
tal
modo
riuscirono
a
rendere
la
struttura
giuridica
della
«Nostra
Nazione»
moderna
e
anche
basata
sui
principi
di
giustizia
e
uguaglianza.
Il 2
giugno
non
è
solo
la
ricorrenza
per
la
nascita
della
Repubblica
Italiana
e
della
ritrovata
libertà,
ma
anche
la
festa
del
diritto
di
essere
tutti,
indipendentemente,
dal
sesso,
dalla
razza
e
dal
colore
cittadini
italiani:
diritto
che
divenne
realtà
grazie
all’elezione
a
suffragio
universale.
Tale
diritto
era
stato
rivendicato,
sin
dalla
pubblicazione,
nel
1866,
del
«Codice
Pisanelli»
ovvero
«Codice
Civile».
A
ribadirlo
ci
pensarono
donne
del
calibro
di
Anna
Kuliscioff
e,
soprattutto,
di
Anna
Maria
Mozzoni
ma,
nonostante
tutto,
rimase
lettera
morta
fino
al
1943.
In
quell’anno,
mentre
ancora
si
combatteva
per
cacciare
i
tedeschi
e
porre
termine
al
predominio
dei
fascisti,
riorganizzatisi
dopo
la
rinascita
della
Repubblica
Sociale
di
Salò,
per
le
contrade
d’Italia;
le
donne
del
Comitato
Nazionale
di
Liberazione
presentarono
al
Governo
Bonomi,
in
data
8
ottobre
1944,
un
memoriale
con
il
quale
chiedevano
e
rivendicavano
il
diritto
di
voto
per
le
donne.
La
mozione
recava
la
firma,
indipendentemente
dall’ideologia,
delle
seguenti
rappresentati
del
CNL:
Angela
Guidi
Cingolani
(Democrazia
Cristiana),
Rita
Montagnana
Togliatti
(Partito
Comunista),
Giuliana
Nenni
(Partito
Socialista
Italiano),
Josette
Lupinacci
(Partito
Liberale
Italiano),
Bastianina
Musu
Martini
(Partito
d’Azione).
La
proposta
venne
discussa
il
30
gennaio
del
1945
e
approvata,
senza
grosse
difficoltà,
nei
giorni
successivi.
Le
donne
avevano
conquistato
il
diritto
di
accedere
agli
scanni
della
«Consulta
Nazionale»,
istituita,
il 5
aprile
del
1945,
con
l’intento
di
fornire
pareri
su
problemi
riguardanti
il
bilancio
e la
legge
elettorale.
Il
«Comitato
pro
Voto»,
formatosi
il
25
ottobre
1944,
a
Roma,
coinvolse
tutti
i
partiti
del
CLN,
che
parteciparono
alla
stesura
di
un
promemoria
allo
scopo
di
rivendicare
il
diritto
di
voto
delle
donne.
Il 1
febbraio
1945,
mediante
Decreto
Legislativo
Luogotenenziale,
venne
attribuito,
ufficialmente,
il
voto
alle
donne.
Nel
frattempo,
il 5
aprile
1945,
venne
istituita
la
«Consulta
Nazionale»,
ovvero
un’assemblea
legislativa
provvisoria
con
lo
scopo
di
sopraintendere
all’organizzazione
delle
elezioni
politiche,
non
appena
tutta
la
Penisola
fosse
stata
liberata
dal
regime
nazi-fascista.
I
Consultori
erano
430,
nominati
dal
governo
Bonomi,
dietro
designazione
delle
organizzazioni
di
appartenenza,
tra
costoro
c’erano
quattordici
donne,
che
rappresentavano
i
seguenti
partiti:
due
la
Democrazia
Cristiana,
quattro
il
Partito
Socialista,
cinque
il
Partito
Comunista,
una
il
Partito
Liberale,
una
il
Partito
d’Azione,
una
le
organizzazioni
sindacali.
Erano
donne
provate
dal
carcere,
dal
confino
o
dalla
deportazione
come
Teresa
Noce
o
Adele
Bei,
attiviste
delle
organizzazioni
cattoliche
come
Angela
Guidi
Cingolani,
o
insegnanti,
come
Battistina
Musu,
designata
dal
Partito
d’Azione,
ma
deceduta
prima
dell’inizio
dei
lavori.
I
lavori
iniziarono
il
26
settembre
1945,
con
il
saluto
di
Ferruccio
Parri,
ed
entrarono
subito
nel
vivo
discutendo
l’ordine
del
giorno
riguardante
l’estensione
del
diritto
di
voto
alle
donne,
contrari,
stranamente,
erano
i
partiti
di
massa,
in
particolare,
il
Partito
Comunista,
il
Partito
Socialista
e il
Partito
d’Azione
che
avevano
timore
che
le
donne
dimostrassero
disinteresse
verso
la
politica
oppure
venissero
condizionate
dagli
uomini
o,
peggio,
dalla
Chiesa.
Ma
le
Consultrici,
guidate
da
Virginia
Maria
Minoletti
Quarello,
s’opposero
e si
batterono
perché
convinte
assertrici
che
il
voto
potesse
essere
per
le
donne
il
coronamento
della
propria
crescita
e
della
propria
formazione
democratica,
avvenuta
negli
anni
del
Regime
Fascista.
Dopo
vari
interventi,
da
parte
delle
Onorevoli,
riuscirono
a
spuntarla
e il
15
febbraio
1946,
con
179
voti
favorevoli
e
156
contrari,
il
voto
venne
concesso
di
diritto
alle
donne.
Votarono
contro
il
Partito
Comunista,
il
Partito
Socialista
e il
Partito
d’Azione,
lo
stesso
giorno
«L’Unità»
spiegò
le
ragioni
del
voto,
adducendo
a
giustificazione
il
timore
che
le
donne
potessero
essere
influenzate
e
condizionate,
soprattutto
al
Sud,
dai
prelati.
Mentre
la
Consultrice
Angela
Cingolani
affermò:
«Credo
proprio
d’interpretare
il
pensiero
di
tutte
noi
Consultrici
invitandovi
a
considerarci
non
come
rappresentanti
del
solito
sesso
debole
e
gentile,
oggetto
di
formali
galanterie
e
cavalleria
di
altri
tempi,
ma
pregandovi
di
valutarci
come
espressione
rappresentativa
di
quella
metà
del
popolo
italiano
che
ha
pur
qualcosa
da
dire
[…]
È
mia
ferma
convinzione
che
se
non
ci
fossero
stati
questi
venti
anni
di
mezzo,
la
partecipazione
della
donna
alla
vita
politica
avrebbe
già
una
storia.
Comunque
ci
contentiamo
oggi
di
entrare
nella
cronaca,
sperando
attraverso
le
nostre
opere
di
essere
ricordate
nella
storia
di
questo
secondo
Risorgimento
del
nostro
paese».
Giunse
il
giorno
delle
elezioni,
contrariamente,
alle
previsioni
la
partecipazione
fu
alta,
anzi,
altissima,
smentendo
le
paure
e le
ansie
di
alcuni
partiti
di
massa.
Furono
eletti
573
componenti,
di
cui
21
donne,
che
erano:
Adele
Bei
Bianca
Bianchi,
Laura
Bianchini,
Elisabetta
Conci,
Maria
De
Unterrichter,
Jervolino
Filomena,
Delli
Castelli
Maria,
Federici
Nadia,
Gallico
Spano,
Angela
Gotelli,
Angela
M.
Guidi
Cingolani,
Leonilde
Iotti,
Teresa
Mattei,
Angelina
Livia
Merlin,
Angiola
Minella,
Rita
Montagnana,
Togliatti
Maria,
Nicotra
Fiorini,
Teresa
Noce
Longo,
Ottavia
Penna
Buscemi,
Elettra
Pollastrini,
M.
Maddalena
Rossi
Vittoria
Titomanlio.
L’Assemblea
Costituente
s’insediò
il
25
giugno
del
1946
e i
lavori
iniziarono
il
20
luglio
successivo,
con
la
«Commissione
dei
Settantacinque»,
il
cui
nome
derivava
dal
numero
dei
suoi
componenti,
chiamata
a
forgiare,
dal
giugno
1946
al
marzo
1947,
la
colonna
vertebrale
giuridica
della
Nazione.
A
presiedere
la
Commissione
venne
designato
il
Presidente
del
Consiglio
di
Stato:
Meuccio
Ruini,
che
godeva
della
fiducia
di
tutti
i
partiti,
sia
dal
punto
di
vista
tecnico
che
politico.
La
«Commissione
dei
Settantacinque»
suddivise
il
lavoro
redazionale
in
tre
sottocommissioni,
con
le
seguenti
competenze:
Sottocommissione
I:
«I
Diritti
e
Doveri
del
Cittadino»;
Sottocommissione
II:
divisa
in
due
sezioni
trattò
l’«Ordinamento
costituzionale
dello
Stato
della
Repubblica»;
Sottocommissione
III:
«Diritti
e
Doveri
nel
campo
economico
e
sociale».
Il
risultato
del
lavoro
delle
singole
sottocommissioni
doveva
essere
sottoposto
al
cosiddetto
«Comitato
dei
Diciotto»,
ossia
il
«Comitato
di
redazione»,
al
cui
interno
non
v’era
nessuna
«Costituente».
Delle
ventuno
donne
facenti
parte
dell’Assemblea
Costituente,
soltanto
quattro
vennero
designate:
Nilde
Iotti,
Teresa
Noce,
Angelina
Merlin
e
Maria
Federici.
Angela
Gotelli
venne
aggiunta,
nel
febbraio
1947,
in
sostituzione
del
collega
dimissionario
Carmelo
Caristia.
Iotti
e
Gotelli
fecero
parte
della
I
Sottocommissione;
Federici,
Merlin
e
Noce
della
III
Sottocommissione.
Nessuna
donna
era
presente
nella
II
Sottocommissione.
Per
cui
l’attività
delle
«Madri
Costituenti»,
nella
fase
istruttoria
dei
lavori
di
redazione
della
carta
costituzionale,
risultò
concentrata
sui
temi
riguardanti
la
condizione
della
donna
e
della
famiglia.
Nella
I
Sottocommissione
Nilde
Iotti,
appartenente
al
Partito
Comunista,
si
ritrovò
a
dover
lavorare
insieme
con
Camillo
Corsanego,
appartenente
alla
Democrazia
Cristiana,
«il
diavolo
e
l’acquasanta»
qualcuno
ebbe
a
concludere,
quando
i
due
non
riuscirono
a
trovare
un
accordo
comune.
Nonostante
ciò,
l’Onorevole
Iotti
intervenne,
nella
seduta
dell’8
ottobre
1946,
per
difendere
il
principio
della
pari
retribuzione
fra
uomo
e
donna,
a
fronte
di
posizioni
di
segno
opposto,
come
quella
di
Umberto
Merlin,
sostenitore
dell’«essenziale
missione
familiare
della
donna»,
per
cui
il
salario
era
un
di
più,
che
andava
sempre
considerato
alla
situazione.
Presso
la
III
Sottocommissione
il
contributo,
più
rilevante,
venne
fornito
dalle
distinte
e
diverse
relazioni
riguardanti
le
«Garanzie
economico-sociali
per
l’esistenza
della
famiglia»,
presentate
dalle
onorevoli
Maria
Federici,
Angelina
Merlin
e
Teresa
Noce,
in
ordine
democristiana,
socialista
e
comunista.
Nonostante
le
impostazioni
ideologiche
diverse,
le
Costituenti
si
concentrarono
sulle
seguenti
tematiche:
La
famiglia;
Le
modalità
di
accesso
delle
donne
nella
carriera
giudiziaria.
Il
battesimo
del
fuoco
s’ebbe
il
15
gennaio
1947,
quando
vennero
discussi
i
tre
articoli
sulla
famiglia
e i
relativi
emendamenti
sul
testo
predisposto
dal
Comitato
dei
Diciotto.
Nel
primo
articolo
si
riconosceva
la
famiglia
come
società
naturale,
garantiva
i
diritti
che
assicuravano
l’adempimento
della
sua
missione,
nonché
l’aiuto
economico
necessario
ai
cittadini
bisognosi
per
formare
famiglia
e
sostenerne
gli
oneri.
Nel
secondo
articolo
veniva
sancita
l’uguaglianza
morale
e
giuridica
dei
coniugi
e
l’indissolubilità
del
matrimonio.
Nel
terzo
veniva
stabilito
il
dovere
da
parte
dei
genitori
di
alimentare,
istruire
ed
educare
la
prole
e il
dovere
da
parte
della
Repubblica
di
provvedere
a
un’adeguata
protezione
della
maternità,
dell’infanzia,
della
gioventù
e
dei
figli
illegittimi.
L’Onorevole
Merlin
dichiarò
che
a
suo
parere
«l’Istituto
familiare»
non
rientrava
nelle
competenze
costituzionali,
lo
Stato
doveva
solo
garantire
le
persone
che
volevano
costituire
una
famiglia
e
assicurare
loro
un
aiuto
materiale.
L’Onorevole
Federici
fece
notare
che
il
«Comitato
dei
Diciotto»
non
aveva
ripreso
l’articolo,
approvato
in
Sottocommissione,
riguardante
il
dovere
di
garantire
alle
famiglie
le
condizioni
necessarie
alla
sua
difesa
e al
suo
sviluppo,
come
non
erano
state
considerate
le
garanzie
di
carattere
sociale:
assegni
familiari
del
disoccupato,
salario,
previdenza,
assistenza
e
sgravi
fiscali.
Nella
seduta
pomeridiana
del
31
gennaio
1947,
la
Commissione
esaminò
le
disposizioni
relative
all’accesso
alla
magistratura,
prevedendo
che
potevano
accedere
le
donne
«nei
casi
previsti
dalle
norme
sull’ordinamento
giudiziario».
L’Onorevole
Leone,
futuro
Presidente
della
Repubblica,
si
dichiarò
favorevole
al
testo
licenziato
dal
Comitato
di
Redazione,
sostenendo
che
la
partecipazione
delle
donne
alla
carriera
di
giudice
non
poteva
essere
ancora
ammessa,
se
non,
limitatamente,
al
ruolo
di
magistrati
del
Tribunale
dei
Minori.
Dichiarò,
inoltre,
che
negli
alti
gradi
della
magistratura,
dove
«bisogna
arrivare
alla
rarefazione
del
tecnicismo»,
soltanto
gli
uomini
potevano
mantenere
il
necessario
equilibrio
e
avere
l’adeguata
preparazione.
La
formulazione
presentata
non
era
un
limite,
ma
solo
la
soglia
necessaria
per
garantire
il
buon
funzionamento
dell’ordinamento
giudiziario.
Nilde
Iotti,
Maria
Federici
e
Angela
Gotelli
scesero
in
campo,
mediante
tre
appassionati
interventi,
con
i
quali
contestarono
le
posizioni
espresse
dall’Onorevole
Leone.
Il
18
marzo
1947
si
giunse
a
discutere
le
«Disposizioni
Generali»
e
intervenne
Teresa
Mattei
che
evidenziò
come
lo
sviluppo
del
paese
dovesse
andare
di
pari
passo
con
la
piena
emancipazione
femminile;
per
ottenere
ciò
chiese
che
venisse
inserita
la
locuzione
«di
fatto»
nell’
«articolo
3»
della
Costituzione.
Il
17
aprile
1947
s’iniziò
a
discutere
il
«Titolo
II»
riguardante
i
rapporti
«etico-sociali»,
intervenne
Nadia
Gallico
Spano
che
ritenne
positivo
il
fatto
che
la
Costituzione
s’occupasse
della
famiglia,
in
ben
tre
articoli,
sottolineando
il
ruolo
rilevante
che
questa
istituzione
dovesse
avere
all’interno
della
società.
Condivise
l’idea
espressa
di
famiglia
intesa
come
società
naturale
e lo
sforzo
di
garantire,
mediante
gli
articoli
dei
rapporti
economici,
le
condizioni
materiali
per
facilitarne
la
formazione.
In
ultimo
poneva
attenzione
sul
tema
dei
figli
illegittimi,
affermando
che
alla
luce
dell’«articolo
3»
si
doveva
provvedere
alla
cancellazione
dell’infamante
dicitura
«figlio
di
N.N.»
dai
registri
dello
Stato
Civile.
Due
giorni
dopo,
l’Onorevole
Filomena
Delli
Castelli
sostenne
la
necessità
d’introdurre
all’interno
della
Carta
Costituzionale
specifici
principi
riguardanti
la
famiglia,
per
evitare
che
il
legislatore
potesse
essere
influenzato
dalle
idee
preponderanti
nella
realtà
politica
del
momento,
in
contrasto
con
quanto
asserito
dall’Onorevole
Nitti,
secondo
il
quale
i
rapporti
etico
sociali
dovevano
essere
trattati
dal
Codice
Civile
o
Penale.
Il
21
aprile
Laura
Bianchini
intervenne
sul
problema
scuola,
abbracciando,
in
qualità
di
democristiana,
l’idea
dell’insegnamento
come
«utilità
pubblica»,
proprio
per
questo
motivo
il
diritto
di
aprire
scuole
non
poteva
essere
esclusiva
dello
Stato,
perché
sarebbero
stati
negati
i
diritti
della
persona.
A
onore
del
vero,
va
ricordato
che
la
Costituente
Bianchini
non
chiese
che
lo
stato
si
facesse
carico
di
sovvenzionare
le
scuole
private,
ma
ritenne
che
dovesse
essere
a
carico
di
quest’ultimi.
Subito
dopo
prese
la
parola
Maria
Maddalena
Rossi
che
sostenne
che
era
compito
dello
Stato
regolare
i
rapporti
fra
l’istituto
familiare,
base
dello
Stato,
e lo
Stato
stesso.
Subito
dopo
s’oppose
all’inserimento
del
principio
d’indissolubilità
del
matrimonio,
perché
minava,
a
suo
parere,
l’istituto
stesso
della
famiglia.
Il
24
aprile
la
discussione
proseguì
riguardo
alle
scuole
pubbliche
e
private
e le
sovvenzioni
statali.
Laura
Bianchini
promosse
un
articolo
con
il
quale
rivendicava
il
diritto
da
parte
di
ogni
cittadino
a
ricevere
un’istruzione
adeguata
alla
propria
personalità.
Filomena
Castelli
sostenne,
in
base
al
principio
della
libertà
d’insegnamento,
di
essere
convinta
che
lo
Stato
non
potesse
aver
diritto
di
vietare
a
enti
e
privati
di
realizzare
scuole
e
istituti
d’educazione.
D’idea
opposta
era
la
collega
Maria
Federici,
mentre
Bianca
Bianchini
richiedeva
un
elevato
livello
di
qualificazione
da
parte
delle
scuole
private
e
che
il
mantenimento
fosse
a
esclusivo
carico
dei
privati.
Il
29
aprile
si
affrontò
il
tema
dell’obbligatorietà
e
gratuità
dell’insegnamento
inferiore
per
almeno
otto
anni,
inoltre,
venne
valutata
la
possibilità,
per
gli
alunni
meritevoli,
ma
in
condizioni
disagiate,
di
garantire
il
diritto
di
raggiungere
i
più
alti
gradi
d’istruzione
tramite
borse
di
studio
o
assegni
familiari.
Maria
Federici
sostenne
la
necessità
di
esplicitare
che
l’insegnamento
inferiore
fosse
garantito
per
almeno
otto
anni
e
che
fosse
preceduto
dalla
scuola
materna.
Angelina
Merlin
propose
che
lo
Stato
si
facesse
carico
per
il
periodo
di
frequenza
della
scuola
dell’assistenza
dell’alunno,
in
rispetto
del
principio
che
«la
scuola
è
aperta
a
tutti».
Laura
Bianchini
propose
che
l’istruzione
professionale
doveva
essere
correlata
alla
richiesta
del
mondo
del
lavoro,
per
cui
doveva
avere
una
finalità
pratica
e
sociale.
L’indomani
riprese
la
parola
e
riaffermò
il
principio
della
gratuità
della
scuola
e
dell’obbligatorietà,
sin
dai
quattro
anni
e
oltre
i
quattordici
anni.
Nella
seduta
del
3
maggio
si
giunse
a
discutere
il
«Titolo
III»,
intervenne
Angela
Maria
Guidi
Cingolani,
che
sostenne
la
necessità
d’inserire
gli
articoli
relativi
al
salario,
al
lavoro,
alla
proprietà,
alla
previdenza,
all’assistenza
e
alla
cooperazione
e al
risparmio,
nel
rispetto
dei
principi
formulato,
a
Filadelfia,
nel
maggio
1944,
dalla
XXVI
sessione
della
Conferenza
Internazionale
del
Lavoro.
L’emendamento
venne
accolto
nella
seduta
dell’8
maggio.
Subito
dopo,
si
passò
a
esaminare
l’articolo
31,
dove
la
Federici
chiese
che
tutti
i
cittadini
potessero
avere
il
dovere
di
svolgere
un’attività
conforme
alle
«proprie
attitudini»
e
non
alle
«proprie
possibilità».
Riteneva,
infatti,
che
il
termine
«possibilità»
fosse
una
limitazione
per
la
donna
nel
campo
del
lavoro
e si
riservava,
quindi,
di
svolgere
questo
emendamento,
in
sede,
di
discussione
degli
articoli
48 e
98
riguardanti
i
diritti
politici
e
l’accesso
alla
carriera
giudiziaria.
Il
10
maggio
si
rese
in
esame
l’articolo
32
riguardante
il
diritto
del
lavoratore
a
percepire
una
retribuzione
proporzionata
alla
quantità
e
alla
qualità
del
lavoro
svolto,
tale
da
permettere
un’esistenza
libera
e
dignitosa
per
sé e
per
la
propria
famiglia.
Nella
medesima
seduta
s’affrontò
l’articolo
33
che
equiparava
la
lavoratrice
donna
al
lavoratore
maschio,
precisando
che
le
condizioni
di
lavoro
per
la
donna
dovessero
consentirle
di
svolgere
la
sua
essenziale
funzione
familiare.
Maria
Federici
sottolineò
l’inutilità
di
questa
precisazione,
quindi
prese
la
parola
la
Nadia
Gallico
Spano
cofirmataria,
assieme
a
Teresa
Noce,
Teresa
Mattei,
Elena
Pollastrini,
Rita
Montagnana,
Angelina
Merlin,
Maria
Maddalena
Rossi,
Adele
Bei,
Nilde
Iotti
e
Angiola
Minella
di
una
mozione
con
la
quale
si
chiedeva
che
le
condizioni
di
lavoro
delle
donne
dovessero
consentire
non
solo
la
loro
essenziale
funzione
familiare,
ma
anche
assicurare
alla
madre
e al
fanciullo
una
speciale
e
adeguata
protezione.
Angelina
Merlin
propose
di
sopprimere
il
termine
«essenziale»
perché
a
suo
parere
assumeva
un
significato
limitativo
che
circoscriveva
l’attività
della
donna
al
solo
ambito
familiare.
Mentre
chiedeva
di
parlare
di
parità
di
rendimento,
poiché
un
lavoro
può
essere
pari
anche
se
viene
esplicato
in
campi
diversi.
Dopo
gli
interventi
delle
Onorevoli
Federici,
che
condivideva
il
principio,
e
dell’Onorevole
Teresa
Mattei,
l’articolo
33
venne
licenziato
insieme
al
relativo
emendamento.
Il
22
maggio
si
affrontò
l’«articolo
48»
che
prevedeva
la
possibilità
per
tutti
i
cittadini,
senza
distinzione
di
sesso,
di
accedere
agli
uffici
pubblici
in
condizioni
d’uguaglianza,
in
conformità
alle
proprie
«attitudini»,
secondo
le
norme
stabilite
dalla
legge,
l’idea
di
lasciare
spazio
alle
attitudini
e a
leggi
successive,
che
potessero
regolare
e
definire
le
condizioni
di
accesso
ai
pubblici
uffici,
spinsero
le
Costituenti
a
chiedere
la
sostituzione
del
primo
comma.
Maria
Federici
sostenne
che
le
attitudini
non
si
provano
se
non
con
il
lavoro,
di
conseguenza
escludere
le
donne
da
determinati
lavori
voleva
significare
non
permettere
loro
di
provare
le
loro
attitudini.
Per
questa
ragione
propose
di
adottare
il
termine
«requisiti».
Si
ritornò
sull’argomento
il
26
novembre
1947,
quando
si
ridiscussero
le
modalità
di
accesso
delle
donne
alla
magistratura,
Maria
Federici,
in
quell’occasione,
presentò
l’emendamento
riguardante
il
primo
comma
dell’articolo
98
per
eliminare
le
seguenti
parole
«possono
essere
nominate
le
donne
nei
casi
previsti
dall’ordinamento
giuridico»,
ricordò
che
era
stato
approvato
l’articolo
48,
che
determinava
l’accesso
di
entrambi
i
sessi
al
Pubblico
Impiego,
per
cui
chiese
di
non
inserire
nella
Costituzione
una
norma
che
fosse
in
contrasto
con
un
altro
articolo.
Aggiunse
che
l’articolo
98
era
il
corollario
dell’articolo
48,
ma
nonostante
ciò,
l’emendamento,
votato
a
scrutinio
segreto,
non
venne
approvato.
Ma
le
madri
non
si
arresero,
non
vollero
arrendersi,
ne
andava
del
futuro
di
tutte
le
donne,
nel
pomeriggio
dello
stesso
giorno,
presentarono
un
ordine
del
giorno
riguardo
al
«diritto
di
accesso
a
tutti
gli
ordini
e
gradi
della
magistratura»
ritenendo
che
l’Assemblea
l’aveva
respinto
perché
formulato
in
maniera
generica.
Al
termine
della
discussione
venne
approvato.
Questa
discussione
sancì
la
versione
definitiva
da
portare
al
plenum
assembleare
della
Costituente,
che
l’approvò
il
22
dicembre
1947,
con
453
voti
favorevoli
e 62
voti
contrari.
Enrico
De
Nicola,
presidente
provvisorio
dello
Stato,
la
promulgò
e
venne
pubblicata
sulla
Gazzetta
Ufficiale
n.
298
del
27
dicembre,
ma
entrò
in
vigore
il 1
gennaio
1948.
Riferimenti
bibliografici:
Addis
Saba
M.,
De
Leo
M.,
Taricone
F.,
Alle
origini
della
Repubblica,
Donne
e
Costituente,
Presidenza
del
Consiglio
dei
Ministri,
Commissione
nazionale
per
la
parità
e le
pari
opportunità
fra
uomo
e
donna,
Dipartimento
per
l’informazione
e
l’editoria,
Roma
1996;
Arioli
L.,
Le
donne
dell’Assemblea
Costituente,
in
Il
Parlamento
Italiano,
1861-1988,
XIV,
1946-1947
Repubblica
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Costituzione.
Dalla
Luogotenenza
di
Umberto
alla
Presidenza
De
Nicola,
Nuova
CEi,
Milano
1999.