[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

162 / GIUGNO 2021 (CXCIII)


attualità

SULLA FINE DELL’OPERAZIONE BARKHANE

LA FRANCIA SI RITIRA DAL SAHEL

di Gian Marco Boellisi

 

Siamo solo a metà 2021, eppure sembra che le ritirate dei contingenti internazionali siano particolarmente abbondanti in questo anno post-pandemico (o presunto tale). È infatti recentissimo l’annuncio da parte del presidente francese Macron della ritirata delle forze militari francesi dall’Operazione Barkhane, ovvero l’operazione nata nel 2013 atta a combattere le forze islamiste presenti nel Sahel, e in particolar modo nel Mali.

 

Dalla conferenza stampa tenutasi il 10 giugno 2021 tuttavia sono molti gli interrogativi emersi rispetto al futuro di questa area del globo. Infatti, nonostante le assicurazioni di Macron, risulta improbabile che le forze francesi vengano sostitute da un contingente internazionale a più ampio respiro, abbandonando de facto l’area a se stessa e a tutte le dinamiche di cui essa è preda. Risulta quindi interessante analizzare il contesto all’interno del quale nasce l’Operazione Barkhane e cercare di comprendere le conseguenze dell’annuncio di Macron da qui agli anni a venire.

 

Partiamo prima con una contestualizzazione generale. La nascita di questa operazione militare affonda le sue radici nel 2012, quando in Mali venne fatto un colpo di stato ai danni dell’allora presidente Amadou Touré. La debolezza derivante da questo colpo di mano minò irreversibilmente il potere statale, il quale si vide minacciato sin da subito dalle pretese indipendentiste delle tribù Tuareg, risiedenti nel nord del paese.

 

Queste rivendicazioni si sovrapposero con la nascita e la conseguente avanzata delle forze jihadiste sempre nella parte settentrionale del paese. Queste ultime arrivarono concretamente anche a minacciare la capitale stessa, Bamako, tanto che la Francia si vide costretta a intervenire se non voleva perdere uno stato cardine nella zona come il Mali. Fu proprio in questo contesto che Parigi avviò l’Operazione Serval, volta a sradicare le forze jihadiste del Nord e a riconsegnare questa parte del Mali alle forze governative centrali.

 

L’obiettivo fu raggiunto in circa un anno di combattimenti e da questo successo sarebbe nata l’Operazione Barkhane, ovvero l’insieme di manovre militari congegnate per mantenere la stabilità nella regione e impedire che i gruppi islamisti si riorganizzassero nuovamente. È tuttavia importante sottolineare come, nonostante i gruppi jihadisti abbiano perso il controllo delle regioni conquistate tra il 2012 e il 2013, essi sono ancora fortemente presenti sul territorio e, oltre a dirigere ancora la guerriglia contro le truppe regolari, sono anche i principali gestori degli innumerevoli traffici illeciti che transitano per l’area: droga dal Sud America, armi ed esseri umani verso l’Europa.

 

Lo scarso controllo esercitato dalle truppe di Bamako sul proprio territorio e la dilagante corruzione presente nell’apparato statale ha portato gli jihadisti a fare presa sulle popolazioni locali, motivo per il quale la Francia negli anni ha avuto enormi difficoltà a sradicare il fenomeno da quest’area. Inoltre, avendo perso le proprie basi di operazioni dentro il Mali, gli islamisti si sono spostati nei paesi vicini, come Niger, Ciad o Burkina Faso, portando il conflitto a una scala ben più ampia.

 

Dal punto di vista francese, Barkhane è stata un’operazione militare di difficile gestione nel corso degli anni. Le truppe francesi infatti hanno perso 55 uomini, per non parlare degli immensi costi che un’operazione militare del genere comporta per la casse dello stato. Ciò non toglie il fatto che siano stati ottenuti anche alcuni discreti successi, come l’uccisione lo scorso anno del leader jihadista del Maghreb Islamico, Abdelmalek Droukdel. Questo tuttavia non deve far dimenticare in alcun modo le ben più grandi sofferenze della popolazione locale, che ha subito perdite di gran lunga maggiori rispetto ai numeri di Parigi.

 

Il ritiro dei militari francesi avviene anche a valle di un processo graduale ma costante di perdita di influenza politica da parte dell’Eliseo nei confronti delle nazioni francofone dell’area. Il tutto è iniziato lo scorso anno quando ad agosto 2020 un altro colpo di stato in Mali ai danni del presidente Keita ha rimescolato le carte in tavola. In questa occasione Parigi non intervenne direttamente, sperando che la nuova giunta al potere potesse garantire il mantenimento dell’influenza francese al pari di quella precedente.

 

Ciò tuttavia non si è verificato. Infatti lo scorso maggio 2021 un altro colpo di stato perpetrato da parte del generale Assimi Goita ha dato una svolta completamente diversa al governo del Mali. Non è un segreto infatti che all’interno della nuova giunta vi siano posizione filo-islamiste palesemente dichiarate. Una prova fra tutte è il nuovo primo ministro Choguel Makalla Maiga, membro del “Movimento 5 giugno” che l’estate 2020 aveva organizzato proteste in tutto il paese le quali avrebbero portato al colpo di stato d’agosto. Il Movimento è stato ispirato e portato avanti in gran parte dall’imam Mahmoud Dicko, il quale non ha mai nascosto di voler instaurare un dialogo con i gruppi jihadisti presenti nella regione e di instaurare conseguentemente una società conservatrice in Mali.

 

Un altro grave colpo all’influenza di Parigi è avvenuta giusto lo scorso aprile 2021, con l’assassinio del presidente del Ciad Idriss Déby. Il Ciad è stato da sempre considerato uno degli ultimi baluardi all’interno del Sahel e il suo precipitare in un potenziale vortice di instabilità ha colpito l’Eliseo in maniera più profonda di quanto si possa immaginare. Tanto grande è stata la forza di questa alleanza che il quartier generale dell’Operazione Barkhane si trova proprio a N’Djamena, la capitale del Ciad.

 

L’annuncio di Macron è avvenuto alle porte di due eventi molto importanti per la Francia. Il primo è stato il vertice G7 in Cornovaglia, dove alcuni dei presenti rientrano nel cerchio degli alleati N.A.T.O. Il secondo invece sono le imminenti elezioni francesi previste per la primavera del 2022. Queste in particolare hanno svolto un ruolo non da poco nella scelta di Macron. È infatti ormai noto da tempo che la presenza francese in Mali e nel Sahel sia fortemente impopolare tra gli elettori, sia per il rischio che i militari francesi corrono sia per i costi che lo stato deve affrontare per proseguire le operazioni. In aggiunta a questo, anche le proteste svoltesi nei mesi scorsi sia in Mali che in quasi tutti i paesi dell’area avrebbero svolto un ruolo cruciale nel portare all’annuncio dell’Eliseo.

 

A seguito di questa decisione, già nelle prossime settimane avverrà l’inizio della smobilitazione dei 5.100 soldati presenti in questo momento nel Sahel. Verranno comunque lasciati dei contingenti appartenenti alle forze speciali con compiti di intelligence, ricognizione ed eventuale addestramento delle truppe locali, ma il grosso del lavoro delle truppe transalpine sembra essere volto al termine.

 

Sia Macron sia l’Eliseo in toto hanno cercato di vendere questa decisione all’opinione pubblica francese e internazionale non come una ritirata, ma piuttosto come un’opportunità per un’azione a più ampio respiro nel Sahel da parte di tutta la comunità europea. Qui un chiaro riferimento all’Operazione Takuba, in cui sono già impegnate forze di diversi paesi tra cui anche a breve 200 soldati italiani.

 

È inutile dirlo, nessuno si aspettava nulla di diverso. Quando avvengono questo tipo di annunci nessun leader ammette mai la sconfitta o il non raggiungimento degli obiettivi prefissatisi all’inizio del conflitto. Tutto per nascondere un fallimento totale di un’operazione costata centinaia di vite tra popolazione locale e forze combattenti nonché miliardi di euro dei contribuenti.

 

La verità spicciola è che la Francia non ha più intenzione di sostenere i costi un’operazione di sicurezza a così ampio respiro che dopo anni non ha dato praticamente alcun risultato. Da un lato c’è anche un senso di “responsabilità della sicurezza” da parte di Parigi che non si sente più in grado di volersi accollare. Questo nel senso che il Sahel, da qualche decennio a questa parte, non è solo un problema francese, essendo qui la maggior parte degli stati ex colonie di Parigi, ma ormai è diventato un problema a tutti gli effetti europeo.

 

Ciò che le dichiarazioni di Macron volevano in parte affermare era che la Francia non è più disposta a versare sangue e a spendere energie per la risoluzione di un problema il cui esito influenza tutti gli stati al di qua del Mediterraneo. La speranza della Francia è che nel tempo si formi una specie di “coalizione di volenterosi” di americana memoria, ovviamente a guida francese, che possa essere impiegata nel Sahel per sradicare il problema del terrorismo. Ciò rientra nella strategia di più ampio respiro di Parigi di ergersi a guida economica e anche militare dell’Unione Europea post-pandemia, vista anche la fuoriuscita della Gran Bretagna.

 

Tuttavia, per quanto gli sforzi francesi sembrino andare in questa direzione, è molto improbabile che attualmente gli stati europei seguano la Francia in questo approccio alla questione africana, viste soprattutto le ristrettezze economiche che stanno iniziando a emergere a causa della pandemia.

 

In conclusione, il ritiro della Francia dall’Operazione Barkhane è sicuramente uno dei più grandi smacchi in politica estera dell’Eliseo degli ultimi decenni a questa parte. Nel 2021 si assisterà sia al ritiro definitivo degli Stati Uniti dall’Afghanistan sia a quello della Francia dal Sahel. Alcuni studiosi parlano già di un “Occidente in ritirata su tutti i fronti” che non riesce o non vuole più sostenere i costi degli impegni internazionali presi nei decenni passati all’indomani della guerra contro il terrorismo.

 

Gli effetti di queste ritirate tattiche si vedranno solo con gli anni, tuttavia è doveroso sottolineare l’importanza cardine della regione del Sahel. Infatti, per quanto molte cancellerie considerino questa una delle tante regioni del globo afflitte da instabilità politica ormai irrecuperabili, ciò che accadrà qui nei prossimi anni avrà ripercussioni enormi e soprattutto dirette su ciò che vedremo in Europa. L’unica speranza è l’Unione Europea come organizzazione unita e parallelamente i singoli stati europei se ne rendano conto in tempo e agiscano di conseguenza.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]