attualità
SULLA FINE DELL’OPERAZIONE BARKHANE
LA FRANCIA SI RITIRA DAL SAHEL
di Gian Marco Boellisi
Siamo solo a metà 2021, eppure sembra
che le ritirate dei contingenti
internazionali siano particolarmente
abbondanti in questo anno post-pandemico
(o presunto tale). È infatti
recentissimo l’annuncio da parte del
presidente francese Macron della
ritirata delle forze militari
francesi dall’Operazione Barkhane,
ovvero l’operazione nata nel 2013 atta a
combattere le forze islamiste presenti
nel Sahel, e in particolar modo nel
Mali.
Dalla conferenza stampa tenutasi il 10
giugno 2021 tuttavia sono molti gli
interrogativi emersi rispetto al futuro
di questa area del globo. Infatti,
nonostante le assicurazioni di Macron,
risulta improbabile che le forze
francesi vengano sostitute da un
contingente internazionale a più ampio
respiro, abbandonando de facto
l’area a se stessa e a tutte le
dinamiche di cui essa è preda. Risulta
quindi interessante analizzare il
contesto all’interno del quale nasce
l’Operazione Barkhane e cercare di
comprendere le conseguenze dell’annuncio
di Macron da qui agli anni a venire.
Partiamo prima con una
contestualizzazione generale. La nascita
di questa operazione militare affonda le
sue radici nel 2012, quando in Mali
venne fatto un colpo di stato ai danni
dell’allora presidente Amadou Touré. La
debolezza derivante da questo colpo di
mano minò irreversibilmente il potere
statale, il quale si vide minacciato sin
da subito dalle pretese indipendentiste
delle tribù Tuareg, risiedenti nel nord
del paese.
Queste rivendicazioni si sovrapposero
con la nascita e la conseguente avanzata
delle forze jihadiste sempre nella parte
settentrionale del paese. Queste ultime
arrivarono concretamente anche a
minacciare la capitale stessa, Bamako,
tanto che la Francia si vide costretta a
intervenire se non voleva perdere uno
stato cardine nella zona come il Mali.
Fu proprio in questo contesto che Parigi
avviò l’Operazione Serval, volta
a sradicare le forze jihadiste del Nord
e a riconsegnare questa parte del Mali
alle forze governative centrali.
L’obiettivo fu raggiunto in circa un
anno di combattimenti e da questo
successo sarebbe nata l’Operazione
Barkhane, ovvero l’insieme di manovre
militari congegnate per mantenere la
stabilità nella regione e impedire che i
gruppi islamisti si riorganizzassero
nuovamente. È tuttavia importante
sottolineare come, nonostante i gruppi
jihadisti abbiano perso il controllo
delle regioni conquistate tra il 2012 e
il 2013, essi sono ancora fortemente
presenti sul territorio e, oltre a
dirigere ancora la guerriglia contro le
truppe regolari, sono anche i principali
gestori degli innumerevoli traffici
illeciti che transitano per l’area:
droga dal Sud America, armi ed esseri
umani verso l’Europa.
Lo scarso controllo esercitato dalle
truppe di Bamako sul proprio territorio
e la dilagante corruzione presente
nell’apparato statale ha portato gli
jihadisti a fare presa sulle popolazioni
locali, motivo per il quale la Francia
negli anni ha avuto enormi difficoltà a
sradicare il fenomeno da quest’area.
Inoltre, avendo perso le proprie basi di
operazioni dentro il Mali, gli islamisti
si sono spostati nei paesi vicini, come
Niger, Ciad o Burkina Faso, portando il
conflitto a una scala ben più ampia.
Dal punto di vista francese, Barkhane è
stata un’operazione militare di
difficile gestione nel corso degli anni.
Le truppe francesi infatti hanno perso
55 uomini, per non parlare degli immensi
costi che un’operazione militare del
genere comporta per la casse dello
stato. Ciò non toglie il fatto che siano
stati ottenuti anche alcuni discreti
successi, come l’uccisione lo scorso
anno del leader jihadista del Maghreb
Islamico, Abdelmalek Droukdel. Questo
tuttavia non deve far dimenticare in
alcun modo le ben più grandi sofferenze
della popolazione locale, che ha subito
perdite di gran lunga maggiori rispetto
ai numeri di Parigi.
Il ritiro dei militari francesi avviene
anche a valle di un processo graduale ma
costante di perdita di influenza
politica da parte dell’Eliseo nei
confronti delle nazioni francofone
dell’area. Il tutto è iniziato lo scorso
anno quando ad agosto 2020 un altro
colpo di stato in Mali ai danni del
presidente Keita ha rimescolato le carte
in tavola. In questa occasione Parigi
non intervenne direttamente, sperando
che la nuova giunta al potere potesse
garantire il mantenimento dell’influenza
francese al pari di quella precedente.
Ciò tuttavia non si è verificato.
Infatti lo scorso maggio 2021 un altro
colpo di stato perpetrato da parte del
generale Assimi Goita ha dato una svolta
completamente diversa al governo del
Mali. Non è un segreto infatti che
all’interno della nuova giunta vi siano
posizione filo-islamiste palesemente
dichiarate. Una prova fra tutte è il
nuovo primo ministro Choguel Makalla
Maiga, membro del “Movimento 5 giugno”
che l’estate 2020 aveva organizzato
proteste in tutto il paese le quali
avrebbero portato al colpo di stato
d’agosto. Il Movimento è stato ispirato
e portato avanti in gran parte dall’imam
Mahmoud Dicko, il quale non ha mai
nascosto di voler instaurare un dialogo
con i gruppi jihadisti presenti nella
regione e di instaurare conseguentemente
una società conservatrice in Mali.
Un altro grave colpo all’influenza di
Parigi è avvenuta giusto lo scorso
aprile 2021, con l’assassinio del
presidente del Ciad Idriss Déby. Il Ciad
è stato da sempre considerato uno degli
ultimi baluardi all’interno del Sahel e
il suo precipitare in un potenziale
vortice di instabilità ha colpito
l’Eliseo in maniera più profonda di
quanto si possa immaginare. Tanto grande
è stata la forza di questa alleanza che
il quartier generale dell’Operazione
Barkhane si trova proprio a N’Djamena,
la capitale del Ciad.
L’annuncio di Macron è avvenuto alle
porte di due eventi molto importanti per
la Francia. Il primo è stato il vertice
G7 in Cornovaglia, dove alcuni dei
presenti rientrano nel cerchio degli
alleati N.A.T.O. Il secondo invece sono
le imminenti elezioni francesi previste
per la primavera del 2022. Queste in
particolare hanno svolto un ruolo non da
poco nella scelta di Macron. È infatti
ormai noto da tempo che la presenza
francese in Mali e nel Sahel sia
fortemente impopolare tra gli elettori,
sia per il rischio che i militari
francesi corrono sia per i costi che lo
stato deve affrontare per proseguire le
operazioni. In aggiunta a questo, anche
le proteste svoltesi nei mesi scorsi sia
in Mali che in quasi tutti i paesi
dell’area avrebbero svolto un ruolo
cruciale nel portare all’annuncio
dell’Eliseo.
A seguito di questa decisione, già nelle
prossime settimane avverrà l’inizio
della smobilitazione dei 5.100 soldati
presenti in questo momento nel Sahel.
Verranno comunque lasciati dei
contingenti appartenenti alle forze
speciali con compiti di intelligence,
ricognizione ed eventuale addestramento
delle truppe locali, ma il grosso del
lavoro delle truppe transalpine sembra
essere volto al termine.
Sia Macron sia l’Eliseo in toto
hanno cercato di vendere questa
decisione all’opinione pubblica francese
e internazionale non come una ritirata,
ma piuttosto come un’opportunità per
un’azione a più ampio respiro nel Sahel
da parte di tutta la comunità europea.
Qui un chiaro riferimento all’Operazione
Takuba, in cui sono già impegnate
forze di diversi paesi tra cui anche a
breve 200 soldati italiani.
È inutile dirlo, nessuno si aspettava
nulla di diverso. Quando avvengono
questo tipo di annunci nessun leader
ammette mai la sconfitta o il non
raggiungimento degli obiettivi
prefissatisi all’inizio del conflitto.
Tutto per nascondere un fallimento
totale di un’operazione costata
centinaia di vite tra popolazione locale
e forze combattenti nonché miliardi di
euro dei contribuenti.
La verità spicciola è che la Francia non
ha più intenzione di sostenere i costi
un’operazione di sicurezza a così ampio
respiro che dopo anni non ha dato
praticamente alcun risultato. Da un lato
c’è anche un senso di “responsabilità
della sicurezza” da parte di Parigi che
non si sente più in grado di volersi
accollare. Questo nel senso che il
Sahel, da qualche decennio a questa
parte, non è solo un problema francese,
essendo qui la maggior parte degli stati
ex colonie di Parigi, ma ormai è
diventato un problema a tutti gli
effetti europeo.
Ciò che le dichiarazioni di Macron
volevano in parte affermare era che la
Francia non è più disposta a versare
sangue e a spendere energie per la
risoluzione di un problema il cui esito
influenza tutti gli stati al di qua del
Mediterraneo. La speranza della Francia
è che nel tempo si formi una specie di
“coalizione di volenterosi” di americana
memoria, ovviamente a guida francese,
che possa essere impiegata nel Sahel per
sradicare il problema del terrorismo.
Ciò rientra nella strategia di più ampio
respiro di Parigi di ergersi a guida
economica e anche militare dell’Unione
Europea post-pandemia, vista anche la
fuoriuscita della Gran Bretagna.
Tuttavia, per quanto gli sforzi francesi
sembrino andare in questa direzione, è
molto improbabile che attualmente gli
stati europei seguano la Francia in
questo approccio alla questione
africana, viste soprattutto le
ristrettezze economiche che stanno
iniziando a emergere a causa della
pandemia.
In conclusione, il ritiro della Francia
dall’Operazione Barkhane è sicuramente
uno dei più grandi smacchi in politica
estera dell’Eliseo degli ultimi decenni
a questa parte. Nel 2021 si assisterà
sia al ritiro definitivo degli Stati
Uniti dall’Afghanistan sia a quello
della Francia dal Sahel. Alcuni studiosi
parlano già di un “Occidente in ritirata
su tutti i fronti” che non riesce o non
vuole più sostenere i costi degli
impegni internazionali presi nei decenni
passati all’indomani della guerra contro
il terrorismo.
Gli effetti di queste ritirate tattiche
si vedranno solo con gli anni, tuttavia
è doveroso sottolineare l’importanza
cardine della regione del Sahel.
Infatti, per quanto molte cancellerie
considerino questa una delle tante
regioni del globo afflitte da
instabilità politica ormai
irrecuperabili, ciò che accadrà qui nei
prossimi anni avrà ripercussioni enormi
e soprattutto dirette su ciò che vedremo
in Europa. L’unica speranza è l’Unione
Europea come organizzazione unita e
parallelamente i singoli stati europei
se ne rendano conto in tempo e agiscano
di conseguenza. |