Sul Principe di Machiavelli
Alle radici del contrasto fra etica e
politica
di Francesco Biscardi
Guerre, crisi, contrasti
diplomatici, tensioni fra gli stati,
sono soliti porre al centro
dell’attenzione una tematica: il
rapporto fra etica e politica.
Sull’argomento si sono espressi
illustri pensatori di varie epoche,
ma un autore merita forse più di
ogni altro un’attenta analisi:
Niccolò Macchiavelli. La sua opera
principale,
Il principe,
è infatti ancora un pilastro per chi
si occupa di storia del pensiero
politico e la sua lettura non finirà
mai di giovare nella comprensione
delle intricate questioni
geopolitiche di ieri come di oggi.
Il trattato, diviso in ventisei
capitoli, fu scritto nel pieno delle
Guerre d’Italia, in un’epoca dove la
penisola italiana aveva visto
confrontarsi, oltre ai suoi vari
stati e staterelli, almeno tre
potenze: l’Impero tedesco, la Spagna
e la Francia. Venne dedicato a
Lorenzo di Piero de’Medici, signore
di fatto a Firenze attorno al 1513,
dopo che la stessa signoria era
stata cacciata dalla città (a
seguito della discesa di Carlo VIII
nel 1494), quando Machiavelli era
stato allontanato per i suoi
trascorsi nella repubblica
fiorentina.
Gli argomenti discussi spaziano
dalla distinzione dei vari tipi di
principato, materia che occupa i
primi undici capitoli, a una
seconda, nei capitoli dal XII al
XIV, dedicati al problema del potere
militare signorile, a una terza,
fino al XXIII capitolo, che vede una
rassegna delle virtù e dei vizi per
i quali i principi sono lodati o
biasimati, fino a una finale che
racchiude una riflessione sulla
realtà politica italiana.
L’intero trattato è un capolavoro
sia dal punto di vista linguistico,
che stilistico, che
storico-argomentativo, ma il lascito
probabilmente più significativo e
duraturo del
Principe
è racchiuso nella terza parte
dell’opera, dove il fiorentino
ragguagliò sul rapporto fra politica
e delitto per poi passare a una più
generale meditazione sul nesso
esistente con il campo dell’etica.
Machiavelli ragionò lucidamente su
come un principe, in casi
particolari, non possa fare a meno
di compiere atti delittuosi, e gli
esempi, tratti dalla storia presente
e passata, sono vari (non da ultimo
quello di Cesare Borgia, verso cui
lo scrittore non disdegnò
ammirazione). Tuttavia, ammonì, la
forza va usata solo in determinate
circostanze e “tutta in una sola
volta”, perché violenze sporadiche e
non decisive offrono segno di
debolezza che potrebbero dare adito
a rivolte e congiure. A questa
osservazione ne fece seguire
un’altra sui vizi e la natura umana:
gli uomini dimenticano più
facilmente la morte, anche per
assassinio, di un genitore che la
confisca del patrimonio.
Passò così alla riflessione sulle
due macro entità, l’etica e la
politica, che reputò distanti e non
necessariamente coincidenti, dal
momento che un principe propenso a
tenere sempre un comportamento
eticamente inappuntabile in
politica, a lungo andare finirebbe
con il rovinare se stesso e lo
Stato. La sfera della politica fu
così ritenuta distante e distanziata
da quella della morale: compito
precipuo del principe è quello di
mantenere lo Stato, sacrificando
tutto per esso. Celebre la
riflessione contenuta nel XVIII
capitolo: «quanto
sia laudabile in uno principe il
mantenere la fede e vivere con
integrità e non con astuzia,
ciascuno lo intende; nondimanco si
vede per esperienzia ne’ nostri
tempi quelli principi avere fatto
gran cose, che della fede hanno
tenuto poco conto»,
come celebre la precisazione di come
il primo dovere di un principe sia
quello «di vincere e mantenere lo
stato: e’ mezzi sempre fieno
iudicati onorevoli e da ciascuno
saranno laudati». Da
quest’ultima massima è stato
estrapolato il detto “il fine
giustifica i mezzi”, erroneamente e
troppo semplicisticamente attribuito
a Machiavelli.
L’autore completò il suo arguto
ragionamento con due estensioni di
pensiero. Da un lato, alla domanda
se sia meglio per un principe essere
temuto per la sua crudeltà o amato
per la sua pietà, sottolineò come
sia meglio esser temuti che amati,
giacché gli uomini sono all’uopo
pronti più a volgersi contro chi
ispira amore che verso chi incute
paura. Dall’altro lato, puntualizzò
su come due sono i modi con cui si
combatte: con la legge e con la
forza, il primo proprio dell’uomo,
il secondo degli animali. Tuttavia
il principe, in casi estremi, può
essere costretto all’uso della forza
e della ferocia; pertanto questi
deve essere come un “centauro”, per
metà uomo (rispettoso dei patti e
legislatore) e per metà bestia
(pronto all’uso della forza). Solo
un signore che abbia le qualità del
“lione” e della “golpe” potrà avere
pieno successo: la forza propria del
leone gli servirà contro la minaccia
di eventuali “lupi”, l’astuzia
propria della volpe contro le
trappole dei più deboli.
Il pensiero machiavellico viene
generalmente considerato come il
nucleo originario della dottrina
“della ragion di stato”, ovvero di
quella branca di pensiero che reputa
come la sfera della politica abbia
delle ragioni e delle
giustificazioni diverse e a sé
stanti rispetto a quelle del singolo
individuo che agisce in ragione dei
propri interessi. Di contro si può
ravvisare l’altra faccia del
principe machiavellico in Erasmo da
Rotterdam: nell’Educazione del
principe cristiano scrisse «se
vuoi mostrarti ottimo principe, stai
attento a non lasciarti superare da
alcun altro in quei beni che
veramente saranno tuoi propri, la
magnanimità, la temperanza e
l’onestà»; la soddisfazione del
buon principe, in altre parole,
risiederebbe, nell’ottica erasmiana,
sempre nell’esser giusto, non nel
fare “grandi cose”.
Riguardo a questo contrasto fra
morale e politica, una delle
principali spiegazioni sorte,
giustifica la divergenza sulla base
della differenza fra regola ed
eccezione: la buona morale vale per
tutti indistintamente, ma in casi
eccezionali possono essere ammesse
delle deroghe. Questa è stata anche
la riflessione di Machiavelli: le
azioni dei politici visibilmente
contrarie alle condotte morali
sarebbero da spiegarsi come
“deroghe” dovute a situazioni
eccezionali. La pseudo massima
machiavellica “il fine giustifica i
mezzi” rappresenterebbe non tanto
l’impossibilità di ridurre la
politica entro l’ordine dell’etica,
quanto la maggiore estensione dei
vincoli che la condotta politica
incontra sulla sua strada e la
maggiore frequenza, in politica, di
azioni che divergono dall’obbligo di
osservanza delle regole morali.
Sulla questione si sono espressi
illustri pensatori, alcuni dei quali
collocandosi sulla scia di pensiero
dello scrittore fiorentino, seppur
con argomentazioni e sfumature di
ragionamento differenti (possiamo
collocare qui Bodin, Hobbes e
Hegel), altri hanno invece negato
tale teoria o piuttosto subordinato
sempre e comunque la politica alla
morale (fra questi il sopraccitato
Erasmo e Kant).
Già Machiavelli si rendeva conto che
la sua opera correva il rischio di
essere generalizzata, e la cosa è
avvenuta, visto che sin nelle decadi
successive alla diffusione del
Principe, il termine
“machiavellico” divenne quasi
sinonimo di “complottista”,
“cinico”, “meschino”, acquisendo una
valenza semantica che ha conservato
in parte ancora oggi.
Comunemente si fanno risalire i
pregiudizi verso gli italiani agli
ultimi secoli (basti pensare
all’accusa di essere un popolo di
anarchici fra Otto e Novecento o di
mafiosi nel pieno Ventesimo secolo),
mentre in realtà una storia di
dicerie e di rappresentazioni
negative dei nostri connazionali
cominciò nella prima Età moderna e
ne fu chiamato in causa lo stesso
Machiavelli.
Infatti, nel Cinque-Seicento, gli
immigrati italiani spesso non furono
i benvenuti in vari lembi d’Europa,
come in Inghilterra. Giordano Bruno,
ne La cena delle ceneri,
testimoniò come le accuse rivolte
agli italici spaziavano qui
dall’essere “parassiti”, sempre al
servizio di chi li remunerava
meglio, a quelle di “furfanti” alla
ricerca di qualcosa da rubare,
pronti a vendersi persino al nemico
di chi li ospitava o meditando di
arricchirsi alle sue spalle e
Machiavelli si prestò all’occasione
per incarnare il prototipo, in
negativo, dei nostri concittadini.
Sulla falsariga di questi
pregiudizi, in Francia,
un’importante giurista, Innocent
Gentilet, sentenziò come il pensiero
del fiorentino avesse suggerito ai
toscani la strage di San Bartolomeo
del 24 agosto 1572 nel pieno delle
guerre di religione (reggina
reggente era Caterina de’Medici) e
di aver insegnato loro come
allontanare i migliori francesi
dalla corte: «questi italiani o
italianizzati […] reputano vera la
massima di Machiavelli che non ci si
deve fidare degli stranieri […] non
vogliono innalzare alle cariche che
loro connazionali o qualche francese
bastardo e degenerato […] i buoni
francesi di nascita non li vogliono
innalzare».
Shakespeare riprese questa cinica
visione di Machiavelli nel
Riccardo III, facendo vantare il
protagonista di essere camaleontico
e maestro di dissimulazione al pari
dello scrittore fiorentino. Non
meglio andò nella Francia
secentesca, dove operò un uomo di
stato italiano come il Mazzarino,
che ai suoi detrattori apparve
essere l’incarnazione delle dottrine
e dei metodi di governo ragguagliati
dall’autore.
Se da un lato Machiavelli fu
inizialmente circondato in
prevalenza da un’aura sinistra,
successivamente fu enormemente
rivalutato, sebbene ancora in molti
critichino il suo pessimismo e le
sue estreme posizioni sulla condotta
di un principe/uomo di stato che
all’occorrenza può “simulare e
dissimulare”, non mantenere la
parola data e compiere atti
delittuosi. Tuttavia, è lecito
domandarsi se non sia innegabile che
concetti come l’ipocrisia, la
menzogna, il cinismo, la
manipolazione e l’inganno siano
strettamente interrelati con la
politica. È infatti difficile
confutare come la storia dei cinque
secoli successivi alla pubblicazione
del Principe non abbia fatto
che confermare le affermazioni in
esso contenute, allargando a
dismisura il repertorio degli esempi
a cui attingere per rendersene
conto, sia in tempo di pace che di
guerra.
Riferimenti bibliografici:
Bobbio N., Elementi di politica.
Antologia, a cura di Polito P.,
Einaudi, Torino 2010.
Machiavelli N., Il principe,
a cura di Inglese G., Torino 1995.
Sanfilippo M., Faccia da italiano,
Salerno Editrice, Roma 2011.