moderna
IL “PESO” DELLA FORTUNA NELL’AGIRE
POLITICO
SULLA VISIONE DI NICCOLÒ MACHIAVELLI
di Rita Fratto
Il duca Valentin le vele sua
ridette a’ venti e verso ‘l mar di sopra
della sua nave rivoltò la prua,
e con sue genti fe’ mirabil
opra
Nei versi del Decennale Primo di Niccolò
Machiavelli emerge ancora l’ammirazione
per il contegnodello splendido e
magnifico duca Valentino. A lui,
oltre a una serie di qualità
d’eccezione, il Segretario fiorentino
riconobbeper un certo tempo – fino ai
ben noti rovesci subiti dal Borgia – la
prerogativa di essere favorito da una
perpetua fortuna (lettera alla
Signoria di Firenze: 26 giugno 1502).
Erail tempo in cui la teoria del
Principato, retto da un individuo munito
di quelle doti che tuttora sono additate
come essenziali nella leadership,
aveva sostituito nelle preferenze
diMachiavellila forma repubblicana,
amata e studiata nei classici
prediletti. Tale scelta, da molti
giudicata contraddittoria, potrebbe più
semplicementeconisderarsi frutto di un
robusto realismo, non ravvisandosi
all’epoca le condizioni minime per la
sopravvivenza di un regime repubblicano,
come i fatti storici ampiamente ebbero a
dimostrare.
A capo della Seconda Cancelleria dal
1498 come Segretario, egli fu
costantemente impegnato nel dipanare
intricate matasse afferenti la gestione
dei rapporti della Repubblica con gli
altri Stati e Nazioni. Ciò valse ad
ampliarne a dismisura gli orizzonti,
grazie alle frequenti missioni, ma anche
a mettere in luce le sue doti
diplomatiche e ad affinare il suo
pensiero politico e morale.
La situazione italiana appariva ai suoi
occhi sempre più chiara, in tutto il
florilegio dei suoiformidabili malanni,
da imputare sostanzialmente alla
frammentazione politica,
all’inadeguatezza della classe
dirigente, alla mancanza di milizie
cittadine, all’ingombrante potere della
Chiesa, dedita a praticare con
pertinacia il divide et impera.
Il tema della Fortuna non va disgiunto,
nell’ottica diMachiavelli, dalla
valorizzazione di quell’attitudine che
si concretizza nel facere de
necessitate virtuteme che, con buona
pace di San Girolamo, viene da lui
portata alle estreme conseguenze. La
Virtù infatti non si identifica con un
rigoroso codice morale, bensì con la
padronanza delle circostanze
contingenti, da affrontare adottando il
comportamento adeguato alle necessità
del momento specifico.
Unico imperativo a cui bisogna sempre
obbedire è la tensione continua verso
l’elemento teleologico, che consiste
nella salvaguardia della posizione
conquistata, cioè nel mantenimento del
potere finalizzato all’esistenzaduratura
dello Stato.
Illuminante a tal proposito è il
capitolo XXV del Principe (Quantum
fortuna in rebus humanis possit, et
quomodo illi sit occurrendum).
Dopo aver dimostrato che molti mali
subiti dai potentati italiani non sono
addebitabili alcapriccio della sorte
bensì, in larga misura, all’incapacità
dei governanti e all’aver fatto
affidamento nelle milizie mercenarie, il
Segretario sviluppa qui la sua
modernissima idea di Fortuna.
La dea bendata condiziona solo in parte
l’agire umano, lasciando spazio
sufficiente all’azione virtuosa, che,
attraverso opportune strategie e con uno
sforzo previsionale e precauzionale, può
scongiurarne gli effetti devastanti,
così come le esondazioni dei fiumi
possono essere contenute da argini saldi
e ben costruiti. Si badi che per vicere
le difficoltà e superare gli ostacoli la
Virtù necessita del concorso di
occasioniconvenienti e propizie, senza
le quali le competenze dell’accorto uomo
di governo resterebbero in potenza.
Vale anche il discorso inverso: le
migliori occasioni sarebbero infruttuose
senza un buon politico capace di
approfittarne. Una visione, dunque, che
non solo sgombrail campo dal principio
dell’influenza divina sugli eventi,
dimostrando aderenza alla concezione
umanistica, ma anche ben si armonizza
con il concetto di Virtù, come sopra
definita.
L’Umanesimo aveva ricollocato in primo
piano il valore dell’autàrkeia,
mutuato dai classici antichi, armatura
protettiva contro la precarietà e la
capricciosa mutevolezza degli eventi. È
tale padronanza che consente di
misurarsi faccia a faccia con la sorte,
sfruttando le qualità e le capacità
proprie dell’uomo virtuoso e
consapevole.
Oltre al dominio di sé Machiavelli
ritiene necessaria la
prudentia,
che si configura come strategica
accortezza di fronte all’avvicendarsi
dei diversi scenari ed esige, per
funzionare al meglio, anche una certa
abilità previsionale. L’uomo di governo
che vuole orientarsi nel modo più
efficace rispetto alle contingenze deve
saper modulare il proprio modo di agire,
imprimendosi un ritmo impulsivo oppure
cauto. Nei Discorsi, peraltro, le
diverse linee di condotta, nell’un senso
e nell’altro, sono incarnate da
personaggi concreti (ne sono esempi le
figure di Pier Soderini e di papa Giulio
II).
Rispetto a tale concezione non mancò chi
ritenne di prendere le distanze, per
esempio Francesco Guicciardini, secondo
il quale la Fortuna ha un peso maggiore
rispetto alla Virtù, poiché raggiunge i
suoi effetti indipendentemente dalle
umane condotte.
Orbene, è proprio la necessità di
dominare gli eventi e di tener conto di
tutte le possibili variabili che
ricorrono nei casi contingenti, che
impedisce a Machiavelli di propugnare la
validità assoluta di un sistema
politico, universalmente applicabile e
adatto a tutte le epoche.
Unica certezza è che la politica, intesa
come scienza,deve necessariamente
avvalersi della conoscenza della storia
e di u’adeguata esperienza. Per il resto
non
si può individuare e definire una forma
ideale di governo.
In tale ambito il pensiero del
Segretario rivela la sua indubbia
attualità. Oggi si dibatte sul fatto che
neppure la democrazia offre garanzie
sufficienti se il popolo non dispone di
strumenti efficaci di controllo
dell’operato dei suoi rappresentanti e
se questi ultimi non si confrontano
costantemente con le esigenze
collettive.
Risulta chiaramente che la Virtù non ha
connotati moralistici, poiché non
attiene affatto a quello che si dovrebbe
fare, in senso etico, poiché per l’uomo
di governo ciò significherebbe
perseguire piuttosto la ruina che la
preservazione sua.
La valorizzazione dell’essere rispetto
al dover essere, in cui risiede il
principio di verità effettuale, segna la
netta cesura tra la politica e l’etica,
una separazione esasperata da chi,
banalizzando il pensiero di Machiavelli,
lo sintetizza nella massima “il fine
giustifica i mezzi”.
Va detto che nell’ottica del Segretario
non tutti i mezzi sono accettabili, ma
solo quelli necessitati e proporzionati
all’elemento teleologico primario. Il
ricorso alla violenza, quando è
necessitato, rappresentando l’unica
soluzione possibile, non deve superare
il vaglio della morale e della
religione, tanto più che anche
quest’ultima è, nell’epoca in cui opera
Machiavelli, finalizzata alla
conservazione e all’implementazione del
potere temporale.
Diversa e quasi antitetica sarà la
concezione di
Erasmo, che successivamente dirà nell’Institutio
principis christiani, dedicata a
Carlo V: «Bonus
princeps non alio animo debet esse in
suos cives, quam bonus pater familias in
suos domesticos».
Il buon capo di governo assume qui le
qualità del philosophus Christi, dal che
appare evidente il platonismo dell’autore.
|