moderna
GENEALOGIA DI UN DESIDERIO
LE ORIGINI DEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE
DELL'ITALIA
di Giulia Iacovelli
È passato mezzo millennio da quando
Niccolò Machiavelli, costretto
all’esilio, nel 1513 compone il Il
Principe. Come sottolineato da
Massimo Cacciari, egli vive il passaggio
epocale dall’utopia, di cui l’Umanesimo
fiorentino era impregnato, al
realismo e fonda il concetto moderno di
politica. D’altronde è lo spirito del
tempo a chiedergli di indirizzare in tal
senso la propria ricerca. L'autore de
Il Principe conosce infatti
l’intersecarsi di tre conflitti: i
conflitti interni alla Repubblica
fiorentina; le guerre continue tra i
piccoli Stati italiani, che in questa
stagione affrontano anche la crisi delle
forme istituzionali dei Comuni e delle
Signorie; i contrasti che contrappongono
i singoli Stati della penisola alle
potenze europee.
Da Segretario della Repubblica
fiorentina (1498-1512), durante una
legazione, Machiavelli legge negli occhi
del più ammirato e temuto condottiero
dell’epoca, Cesare Borgia, la
ferma volontà di portare a compimento
l’unificazione degli Stati italiani. È
una storia provocatoriamente scandalosa
quella dell’ambizione di questo giovane
uomo romano di origini catalane, che
Machiavelli stesso in un resoconto del
loro primo incontro definisce “splendido
et magnifico”, profondamente
ispirato dalla storia del suo omonimo
Giulio Cesare.
Cesare Borgia vive una vita breve. Suo
padre, il Cardinale Rodrigo Borgia che a
partire dal 1492 sarà Papa con il nome
di Alessandro VI, riconoscerà
solo una volta asceso al soglio
pontificio i figli nati dalla relazione
con Vannozza Cattanei: Cesare, Juan,
Lucrezia e Goffredo. Cesare è il
maggiore e inizialmente viene destinato
alla carriera ecclesiastica, nella
speranza di dare continuità alla
presenza della famiglia nella Curia.
Dopo i primi anni dedicati agli studi
umanistici, si reca prima a Perugia e
poi a Pisa per approfondire il diritto
canonico. Entra nel Sacro collegio da
Cardinale di Valencia, titolo del quale
si spoglia nel 1498, convinto che il suo
destino sia legato all’impegno per la
costruzione di uno Stato italiano
unificato sotto le insegne dei Borgia.
L’avanguardia della famiglia catalana
sta nell’essere i primi a comprendere
che per unificare l’Italia sono
necessari tre elementi, che si
riproporranno puntualmente
nell’Ottocento nell’ultima fase del
processo di unificazione nazionale.
Innanzitutto, l’iniziativa di uno degli
Stati più potenti della penisola: nel
Cinquecento lo Stato pontificio,
nell’Ottocento il Regno di Sardegna. In
secondo luogo, la collaborazione tra un
garante politico dell’operazione e un
condottiero carismatico: nel Cinquecento
rispettivamente Papa Alessandro VI e suo
figlio Cesare, nell’Ottocento il Conte
di Cavour e Giuseppe Garibaldi. Infine,
il supporto di una potenza straniera:
Cesare, al contrario del padre, ancora
legatissimo alla terra natìa, è convinto
che la Francia, e non la Spagna, sia la
potenza che più può legittimare
l’unificazione nazionale. La storia darà
ragione al Duca Valentino: più di tre
secoli e mezzo dopo, l’Italia diventerà
uno Stato nazionale anche grazie al
supporto militare della Francia.
Nel 1498 Cesare parte quindi alla volta
dell’esagono. Il suo iniziale desiderio
è quello di ratificare l’alleanza con un
matrimonio con Carlotta d’Aragona,
nobildonna della corte francese. Lei lo
respinge, ma nei mesi in cui Cesare si
trattiene oltralpe per corteggiarla, la
sua vicinanza con il Re Luigi XII
aumenta: grazie al giovane Borgia, Luigi
ottiene l’annullamento del suo
matrimonio con Giovanna di Valois, che
egli desiderava per poter sposare Anna
di Bretagna, vedova del suo predecessore
Carlo VIII, e consolidare così il legame
con il Ducato bretone. Inoltre, gli
viene riconosciuto il titolo di Maestà
cristianissima, che lo pone appena un
gradino sotto ai Re cattolicissimi di
Spagna. In cambio, Luigi formalizza
l’alleanza con i Borgia combinando le
nozze di Cesare con Charlotte d’Albret,
sorella del Re di Navarra, e
concedendogli il prestigioso titolo di
Duca di Valentinois (oggi attribuito al
Principe di Monaco).
Pochi mesi dopo, all’inizio del 1499, lo
Stato pontificio e la Francia lanciano
insieme un’offensiva guidata da Cesare
nel nord Italia: dopo la conquista del
Ducato di Milano, l’armata prende il
controllo della Romagna, di cui il
Valentino (così ribattezzato al suo
ritorno dalla Francia) diventa Duca,
stabilendo a Cesena il suo quartier
generale. Qui porta avanti la creazione
di un esercito, il progetto di istituire
un’università e la costruzione di un
nuovo palazzo di giustizia: tutte
politiche tipicamente finalizzate alla
costruzione di una identità nazionale.
L’alleanza con i Francesi non è però
destinata a durare: Luigi XII è
consapevole che qualunque accordo
politico con lo Stato pontificio è per
natura instabile e legato alla vita e
alle posizioni politiche del singolo
Pontefice. Il Re garantisce a Cesare una
piccola porzione dell’esercito francese
in supporto alla sua campagna militare
per estendere il Principato di Romagna,
ma ha su di lui un’importante leva di
controllo: Luigi infatti nega a
Charlotte e a Luisa, la figlia che
intanto è nata dall’unione con Cesare,
di raggiungere il Valentino in Italia.
Le tiene di fatto in ostaggio:
condizione che si protrarrà fino alla
fine dei giorni del Borgia, che morirà
senza aver rivisto sua moglie né mai
conosciuto la bambina.
Sin dall’avvio del Pontificato, dal
canto suo Rodrigo Borgia dimostra la
volontà di riformare profondamente la
Curia. Istituisce una Commissione per le
riforme, finalizzata a diminuire i
privilegi dei Cardinali e più in
generale a contrastare la dilagante
corruzione presente in Vaticano.
Addirittura durante un periodo di ritiro
a Sermoneta nell’estate del 1501, il
Papa nomina sua figlia, la ventenne
Lucrezia, Reggente dello Stato
pontificio, seppur solamente nella sua
dimensione politico-amministrativa:
ancora oggi è l’unica donna ad aver
svolto tali funzioni nella storia del
Vaticano.
La non ereditarietà del soglio
pontificio, tuttavia, gioca un ruolo
cruciale nella storia di questo
tentativo di unificazione, fatto di cui
Alessandro VI è tanto consapevole che
impiega l’intero arco del proprio regno
a provare a consolidare le posizioni dei
figli da lui dichiarati legittimi,
dotandoli, mediante nomine o accordi
matrimoniali, di titoli trasmissibili
alla discendenza borgiana: Juan Duca di
Gandìa, Lucrezia prima Duchessa di
Bisceglie e poi Duchessa di Ferrara,
Goffredo Principe di Squillace.
Paradossalmente è proprio Cesare a
godere di meno tutele: ha conquistato il
titolo ereditario di Duca di Romagna, ma
in un contesto in cui la Romagna, in
quanto ampliamento dello Stato
pontificio, è sostanzialmente nella
disponibilità del Papa di turno. È di
fatto il figlio di un Re, ma non è un
Principe per diritto di nascita e, per
estensione, anche i suoi discendenti
sono nella medesima situazione.
Machiavelli, nel VII capitolo de Il
Principe,
in cui rende omaggio un’ultima volta al
suo grande eroe dall’animo grande
e dall’intenzione alta,
attribuisce alla “malignità di fortuna”
la causa del fallimento del progetto
borgiano di unificazione. Cesare
infatti, spiazzato nell’agosto del 1503
dall’improvvisa scomparsa del padre, la
cui notizia lo raggiunge nel momento in
cui è anche lui “malato a morte”, riesce
in prima battuta a far eleggere Papa un
Cardinale che non gli era avverso:
Francesco Piccolomini, originario della
Repubblica di Siena, eletto Papa con il
nome di Pio III. Tuttavia, questi muore
meno di un mese dopo il Conclave.
A quel punto, Cesare non ha più la forza
politica per contrastare l’ascesa al
soglio pontificio di Giuliano della
Rovere, storico nemico del padre.
Divenuto Papa con il nome di Giulio II
nel novembre del 1503, egli non dà più
seguito all’impresa borgiana e fa sì che
la Chiesa abbandoni la causa
dell’unificazione degli Stati italiani.
Rimuove in poco tempo Cesare da ogni
incarico e lo allontana dalla vita
pubblica dello Stato pontificio.
Machiavelli nel Decennale primo
afferma con convinzione il rapporto di
causalità diretta esistente tra la morte
di Alessandro VI e la distruzione del
suo grande progetto politico: “Poiché
Alessandro fu dal Cielo ucciso, | lo
stato del suo Duca di Valenza | in molte
parti fu rotto, e diviso”. Tuttavia,
Machiavelli va oltre. Giulio II inganna
colpevolmente Cesare: “Giulio sol lo
nutrì di speme assai, | e quel Duca in
altrui trovar credettte | quella pietà
che non conobbe mai”.
Dopo essere evaso dal carcere di Medina
del Campo in Castiglia, dove è stato
imprigionato per volere dello stesso
della Rovere, ed essere diventato
comandante dell’esercito del minuscolo
Regno del cognato, la Navarra, il 12
marzo 1507 il Valentino trova la morte
quasi alle idi di marzo (a pochi giorni
dall’anniversario dell’omicidio del suo
idolo omonimo Giulio Cesare) durante
l’assedio della piccola città di Viana.
Purtroppo, la damnatio memoriae
che investirà i Borgia e, per alcuni
secoli, anche Niccolò Machiavelli, non
si limiterà alla radicale contestazione
del loro operato e alla condanna dei
costumi della famiglia Borgia, ma
investirà anche la narrazione delle
circostanze in cui le rispettive
scomparse avevano avuto luogo.
Presto, facendo leva sul motto del Duca
Valentino, “aut Caesar aut nihil”,
verrà diffusa la voce secondo la quale,
data la rarità con la quale egli in vita
aveva avuto la peggio nei combattimenti,
il giovane Principe di Romagna avesse in
realtà scelto di andare incontro alla
morte, ingaggiando in solitudine una
lotta di notte in condizioni
meteorologiche avverse nella quale già
sapeva che non avrebbe potuto prevalere.
Una decisione dettata dalla convinzione
che non sarebbe più stato in grado di
ricominciare la propria ascesa politica
nella penisola né di compiere la
missione che si era dato. Non dissimile
è il tentativo di infangare la fine di
Machiavelli, per due secoli raccontata
come l’esito dell’assunzione di una dose
eccessiva di farmaci.
Non sfugge che far terminare con un atto
di suicidio le esistenze di due figure
così criticate dalla Chiesa implica una
condanna morale senza possibilità di
assoluzione, in grado di giustificare
persino l’assenza di esequie religiose e
il diniego di una sepoltura in
territorio consacrato. Nel pieno della
stagione della Controriforma,
l’Inquisizione stabilisce che i resti di
Cesare Borgia siano traslati fuori dalla
Chiesa di Santa Maria in Viana, dove
erano stati inizialmente sepolti.
Nella medesima occasione viene perduto
il lusinghiero epitaffio funebre che li
accompagnava: “Qui giace in poca
terra quel che tutta lo temeva, quel che
la pace e la guerra nella sua mano
teneva. O tu che intendi cercare cose
degne di lode, se vuoi lodare il più
degno, ferma qui il tuo cammino. Non ti
curar d’andar oltre”.
Nel 2007, nel cinquecentenario della
scomparsa, l’amministrazione comunale di
Viana proverà a chiedere che la tomba
sia riportata in suolo consacrato, ma
l’Arcidiocesi di Pamplona, di cui Cesare
stesso in gioventù era stato titolare,
negherà il consenso.
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