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N. 74 - Febbraio 2014 (CV)

LA COMMOSSA MEMORIA DEL SUD
A proposito di LUIGI RUSSO

di Salvatore Ragonesi

 

Di Luigi Russo (Delia, Caltanissetta, 29 novembre 1892-Marina di Pietrasanta, Lucca, 14 agosto 1961) si sono perdute le tracce nelle attuali condizioni della critica letteraria italiana tutta spostata verso ineffabili lidi di oscura psicolinguistica, per la quale la nostra grande tradizione storicistica rischia di essere totalmente ignorata e pericolosamente cancellata.

 

Capisco la fatica intellettuale che comporta una necessaria riacquisizione del lavoro critico svolto dai nostri Francesco De Sanctis, Benedetto Croce, Giovanni Gentile, Michele Barbi, Alessandro D’Ancona, Francesco Flora, Attilio Momigliano e dallo stesso Russo, autore di una produzione davvero sterminata (tra cui, in particolare, si ricordano: Metastasio; Giovanni Verga; I narratori; Problemi di metodo critico; F. De Sanctis e la cultura napoletana; S. Di Giacomo; Elogio della polemica; Ritratti e disegni storici; La critica letteraria contemporanea; Carducci senza retorica; Il tramonto del letterato; Storia della letteratura italiana; De vera religione), ma anche vivace commentatore di classici e soprattutto acuto interprete dell’estetica desanctisiana, interlocutore di Croce e Gentile e paziente costruttore di un meridionalismo letterario lucido e battagliero, e non già decadente e piagnucoloso.

 

Il suo è un meridionalismo pugnace, che definisco “trascendentale” proprio per la forza non contingente, non immanente e non faziosa della proposta, e per la profondità libertaria della visione critica, per l’evidente spessore ideale delle ragioni culturali e per gli spazi di larga prospettiva storico-critica aperti alla letteratura.

 

Permane in Luigi Russo un afflato speciale per la Sicilia e per il Sud, dopo la sua partenza per il Nord, prima per frequentare la Scuola Normale Superiore di Pisa e poi per partecipare in trincea alla prima guerra mondiale, e successivamente, in seguito ad una breve parentesi napoletana grazie alla quale può conoscere personalmente Benedetto Croce, Giustino Fortunato ed altri intellettuali, per insegnare letteratura italiana al Magistero di Firenze e quindi all’Università di Pisa.

 

Così il “barbaro zolfataio” vissuto per diciassette anni “in un piccolo paese della provincia di Caltanissetta”, ulteriormente imbarbarito da tre anni di trincea sul Carso, si trapianta fuori dell’Isola e sposa Teresa Saracinelli di un’illustre famiglia perugina, “una fanciulla che era stata mia compagna all’università di Pisa”, “una fanciulla senza dote, ma di una famiglia nobilissima, una contessa di una vecchia famiglia decaduta”, una donna, insomma, destinata ad ammorbidire la sua barbarie:“Tu sei un barbaro e lei ti sbarbarirà” (L. Russo, Nascita di uomini democratici, in Dialogo dei popoli, Parenti, Firenze 1955, p. 281).

 

Il punto di vista meridionalista nella storiografia letteraria di Russo diviene una conquista durevole successivamente alla stesura della sua tesi di laurea sul Metastasio discussa a Pisa con Francesco Flamini nel 1914, e si esprime efficacemente già con l’elaborazione del saggio su Giovanni Verga edito inizialmente da Ricciardi nel 1919: “Questo volume apparve la prima volta, nell’ottobre 1919, edito dal Ricciardi di Napoli, e diede lo spunto per larghe discussioni e acclamazioni all’arte del Verga […] E invero è stata larga in quest’ultimo dodicennio la messe degli studi particolari e degli articoli, anche se spesse volte generici, ma tali in ogni modo da attestare che il Verga ormai è entrato nella coscienza e nel gusto dell’universale” (L. Russo, Avvertenza del 1933 alla seconda edizione del saggio su Giovanni Verga, Laterza, Bari 1959, p. IX).

 

Nel momento in cui del Verga si conosce solo la Storia di una capinera, il critico siciliano lancia la lettura completa delle opere verghiane, mette in discussione la nettezza della distinzione tra poesia e non poesia, afferma l’unità di arte, cultura e eticità, e introduce uno storicismo critico che fa vibrare cuore, passione e intelligenza e che affida ad una molteplicità di fattori unificati da un potente sguardo penetrativo, da una larga competenza cognitiva, da una profonda comprensione e da un gusto pieno dell’arte.

 

Nell’elaborazione del saggio in questione, per lui decisivo, Russo dimostra quanto il Verga gli sia organico e congeniale e quanto con lui egli possa recuperare la tremenda libertà della sua anima, del proprio io, del proprio patrimonio lessicale e sintattico, e tutta la capacità critica legata alla propria “sicilitudine” ancora allo stato puro, come quella dei personaggi crudi e schietti dei Malavoglia, di Mastro Don Gesualdo e delle Novelle.

 

In questa Sicilia verghiana Russo ritrova se stesso e il suo mondo, le sue radici di uomo e di intellettuale, la sua anima libertaria che sembrava quasi perduta nel composto e ben educato filologismo nordista. Il viaggio che egli adesso ricomincia è non più da Sud a Nord, ma da Nord a Sud in compagnia dei suoi Autori, del loro stile e dei loro personaggi più rappresentativi. Ed è un viaggio, bisogna sottolinearlo, finalizzato o destinato alla riconquista non solo della Sicilia come farà Elio Vittorini con le sue Conversazioni, ma dell’intero Sud, dove vivono, si muovono e si alimentano Croce ed i crociani, Gentile ed i gentiliani, Gramsci ed i marxisti-storicisti di Napoli, i massimi filosofi del secondo Ottocento e del primo Novecento, gli uomini del Risorgimento nazionale e soprattutto quel grande costruttore, creatore, teorico e critico che si chiama Francesco De Sanctis.

 

L’operazione critica che Russo compie con il saggio sul Verga consiste, dunque, nella rivendicazione della presenza attiva del Meridione nella vicenda culturale e politica azionale, con un inizio collocato nel 1861, nel momento dell’unificazione nazionale e della più larga socializzazione dei fatti letterari, artistici e filosofici della nuova Italia. Qui avviene la fusione della vita e della cultura, e la loro trasformazione in arte, come egli afferma con decisione già nel Verga del 1919 nel capitolo non rimosso in altre edizioni su La fama del Verga, in cui l’arte ha la sua fonte in una pluralità di sollecitazioni interiori organizzate da una sintesi a priori estetica, e la critica ne è la continuazione, e la poetica ne rappresenta la concreta esplicitazione.

 

L’operazione condotta a termine con il Verga è assunta da Russo a paradigma di letterarietà meridionalista non più cancellabile. Questo è anche il punto più alto della metodologia russiana, che risiede nell’intensità del bisogno di un riferimento costante alla totalità delle espressioni e dei fattori che contribuiscono a produrre l’arte. Che non è cosa facile a farsi, se manca la pluralità delle componenti costitutive e non si realizza il ventaglio di possibilità creative e ricettive, e se non si mette in campo la forte capacità emozionale di unificazione dei vari prodotti e delle varie funzioni dello spirito. E ciò lo allontana dalla metodologia crociana, che vorrebbe introdurre una distinzione netta tra le varie manifestazioni e realizzazioni dell’umana spiritualità. Non è questa, però, la sede per ridiscutere la genesi e la rottura dei rapporti intellettuali e umani tra Russo e Benedetto Croce. (vedi S. Ragonesi, Carlo Antoni e Luigi Russo. La revisione del crocianesimo nell’estetica e nella filosofia politica, in “Nuova Secondaria”, n. 10 del 15 giugno1997).

 

Sta di fatto che la frequentazione di casa Croce subito dopo la Grande Guerra, quando Russo accetta per qualche tempo l’insegnamento di italiano e latino nel Collegio militare della Nunziatella di Napoli, gli apre tutto un mondo di relazioni intellettuali e di amicizie importanti e di vere sollecitazioni culturali, a cominciare da quelle che provengono, oltre che dallo stesso Croce, da Adolfo Omodeo, Giustino Fortunato, Guido De Ruggiero, Salvatore Di Giacomo, Francesco Flora, Federico Chabod, Fausto Nicolini, ecc., e dalla presenza di una rivista come “La Critica”, che affronta con sistematicità e molta competenza sia le questioni storiografiche, filosofiche e letterarie più in vista che quelle meno frequentate dalla cultura ufficiale.

 

Entro il nuovo spazio intellettuale Russo può concepire un’opera fondamentale (e purtroppo oggi poco nota) come Francesco De Sanctis e la cultura napoletana pubblicata nel 1928, che rivela un interesse vivissimo per la storia e un sentimento di autentica simpatia per l’intero quadro di vita culturale del Meridione subito dopo l’unificazione nazionale. E De Sanctis viene posto al centro di questa vita, con le sue proposte, le sue azioni riformatrici e le sue ragioni estetiche, politico-culturali e filosofiche. Emergono così i patrioti meridionali dello spirito e dell’idea per il permanente valore del loro pensiero, ma soprattutto emerge la Napoli del secondo Ottocento, di cui il Russo fa una commossa rievocazione.

 

Il De Sanctis epura radicalmente l’università borbonica caduta in estrema miseria intellettuale, e non per rappresaglia politica, poiché mantiene in servizio i borbonici più intelligenti e preparati, quanto per fare opera di autentica riforma morale e intellettuale con gli uomini migliori e rimettere in piedi la cultura meridionale e nazionale con gli intellettuali detestati e perseguitati dal vecchio regime:il Settembrini, il De Meis, Paolo Emilio e Vittorio Imbriani, Bertrando e Silvio Spaventa, il Tari, il Tommasi, il Fiorentino e molti altri ancora. In particolare, Bertrando Spaventa spazza via i vaniloqui dei giobertiani sul primato italico e incita al vero lavoro di storia della filosofia, mentre il De Sanctis reagisce con forza ed efficacia alla decadente letteratura del tardo romanticismo, e tutti gli altri napoletani portano nell’insegnamento della loro disciplina concretezza e rigore.

 

Insomma, il Russo esalta la vitalità ed il rigore che sprigionano da quella che chiama “età desanctisiana” ed esprime un elogio a Napoli, che è la vera patria della nuova cultura italiana, contrapposta a Firenze, che ha solo l’eredità formale di una vecchia cultura filologica ormai al tramonto. Povera cosa di fronte alla grandezza dello storicismo napoletano.

 

Questa prospettiva densamente storicizzata, e assunta come modello, è la conquista più fertile e originale di Russo, che trae da Croce e da Gentile quanto gli serve nel campo della storiografia e dell’estetica, correggendone magari le deformazioni o le incongruenze nella critica letteraria con l’ausilio del suo vero ed unico Maestro, il De Sanctis, che gli fa ritrovare la vasta ispirazione di critica storica, la forte tensione morale e sociale e le larghe e profonde escursioni filosofiche e culturali.

 

Così si fanno più frequenti le punzecchiature a Croce a proposito di Dante o del Manzoni o del Leopardi, quando Russo afferma con decisione e sprezzante ironia che la struttura poetica della Divina Commedia fa parte della poesia, che l’oratoria manzoniana rientra organicamente nella organizzazione della poesia dei Promessi Sposi, che la filosofia intreccia intimamente, senza potersene separare, la lirica leopardiana. Che è un ritorno alla grandezza di visione del De Sanctis e un allungamento dello sguardo critico ad una profonda esperienza e competenza storica, filosofica e letteraria.

 

Ma il Russo riconosce infine che pure il Croce, su varie sollecitazioni e in particolare a seguito degli scontri terrificanti con Gentile, teorizza il carattere di totalità dell’espressione artistica, e ciò non può essere ignorato, giacché il filosofo napoletano scopre ciò che è comune all’attività logica ed a quella fantastica, e accenna a regolarne il rapporto in modo sempre più chiaro e ravvicinato nel volumetto La Poesia del 1936, ove si verifica la definitiva conquista della cultura che si fa arte e letteratura.

 

La definizione di una storia della letteratura come storia dello spirito umano considerato nella sua interezza appartiene, però, al De Sanctis e non poteva essere diversamente, dice il Russo, perché “la sua[di De Sanctis] storia letteraria fu al tempo stesso la storia morale del popolo italiano. E in verità quell’opera si colloca nella serie dei capolavori, poiché fu intelligenza dell’arte nella sua pienezza, nella sua totalità, poiché ogni opera d’arte è un mondo, e come tale essa esprime l’unità della vita[…]e non si può eseguire la storia del suo valore puramente estetico senza cadere nell’astrattezza” (L. Russo, La critica letteraria contemporanea, I, Sansoni, Firenze 1977, p. 206).

 

Non può essere ignorato il fatto che, nonostante i continui contrasti con Croce, il Russo a lui ritorna, perché da lui attinge, dopoVerga e De Sanctis, gli stimoli più importanti per il suo lavoro critico. E lui rimane uno dei pilastri della cultura filosofica e storiografica del Sud, assieme ai vari Antonio Labriola, Bertrando Spaventa, Francesco Fiorentino e altri intellettuali di straordinaria forza e vitalità come Camillo De Meis, Luigi Capuana, Federico De Roberto, Salvatore Di Giacomo, Giustino Fortunat, Pasquale Villari, Gaetano Salvemini, Guido De Ruggiero, Francesco Jovine, Francesco Flora, Adolfo Omodeo, Giuseppe De Robertis, ecc.

 

E non è davvero il caso di liquidare la forza speculativa di Giovanni Gentile fino al suo esaurimento, attorno alla metà degli anni Venti del Novecento, né l’importanza delle elaborazioni gramsciane come viene testimoniata nel De vera religione del 1949, che è inizialmente un discorso letto alla Scuola Normale di Pisa e che è dedicato ad “Antonio Gramsci e l’educazione democratica in Italia”.

 

Dall’amicizia con Giustino Fortunato e dalla frequentazione del salotto crociano nasce in Russo, e si fa sempre più forte, il bisogno di tornare mentalmente al Mezzogiorno “barbarico”, di recuperare Giambattista Vico e la libertà creativa dei primitivi, di approfondire le ragioni della grandezza e bellezza di un canto segreto e di una visione che nulla ha di decadente e che conserva la vibrazione religiosa e la forza etica.

 

“Io ero diventato molto amico di Giustino Fortunato, per un pungente motto con cui egli aveva ferito la mia ingenuità;capitato in quel salotto dopo quasi tre anni di trincea con un reggimento di toscani, e dopo che avevo compiuto un noviziato di quattro anni universitari a Pisa, io amavo toscaneggiare”.

 

Ma una domenica un vecchietto gli si avvicina e dice:“Chi è questo toscano?”. “Sentirmi dare del toscano in quel salotto napoletanissimo ferì la mia sensibilità e non posi tempo in mezzo a rimpastare da quel giorno in poi il mio linguaggio cotidiano nelle tradizioni delle parlate del Mezzogiorno” (L. Russo, Giustino Fortunato, in Il dialogo dei popoli, cit., p. 262).

 

Ma non si tratta solo di linguaggio, perché da quel momento, come si è detto, è tutto un mondo che viene recuperato e Verga avanza con prepotenza, ed è la sua potenza espressiva, ed è la sua forza morale, ed è tutta la cultura del Meridione. Russo si aggrappa allo scoglio verghiano-desancrtisiano-crociano, e questo scoglio è il suo punto di riferimento, il suo orizzonte ed il suo lume.

 

Questo è l’effetto reale dell’incontro di Russo con il “vecchietto” Giustino Fortunato. E certamente egli si muove ormai entro le nuove coordinate meridionalistiche che vengono poi consolidate dalla scoperta delle Lettere e dei Quaderni di Antonio Gramsci.

 

Egli guarda alla cultura meridionale con maggiore attenzione e può elaborare un definitivo giudizio sul Meridione non ispirato a boria intellettualistica o “nazionalistica”, ma puntigliosamente agganciato alla verità della sua originalità produttiva.

 

L’approccio libertario del meridionalismo è, però, l’aspetto per me più convincente dello storicismo russiano, che presenta una concezione unitaria e circolare della realtà letteraria e morale sulla base di uno sguardo sentimentale e intellettuale possente e omogeneo.

 

L’amore ritrovato per il Sud diventa, allora, il criterio generale della critica letteraria, che alla fine ritrova Aci Trezza, i Faraglioni, la casa del Nespolo, la piana di Catania e il Biviere di Lentini con l’entusiasmo di un amante appassionato e la struggente commozione rievocativa.

 

La commossa rievocazione che Russo fa del paesaggio verghiano è il grido di libertà che promana dalla purezza della sua anima e che viene ad integrare in modo perfetto la memoria intellettuale dei grandi personaggi del Sud che popolano, con altrettanta emozione, il suo percorso mentale.



 

 

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