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N. 83 - Novembre 2014 (CXIV)

Lucio Licinio Lucullo
Dai campi di battaglia ai piaceri del corpo e della mente

di Andrea Contorni

 

Passò alla Storia come l’uomo dei banchetti e dei simposi, dedito al lusso più sfrenato, agli sfarzi esagerati e magnificamente ricercati. Trascorse gli ultimi anni della sua esistenza dedicandosi totalmente ai piaceri del corpo e della mente, rinchiudendosi in dorate gabbie e rifuggendo dalle ambizioni che gli erano state compagne fedeli spesso difficili da soddisfare.

 

Sto parlando di Lucio Licinio Lucullo, aristocratico romano della potente Gens Licinia non dimenticando che la mamma apparteneva invece all’altra grande famiglia romana dei Metelli.

 

Trovare nella Roma dell’epoca (117-56 a.C.) un aristocratico più aristocratico di Lucullo è impresa ardua. Egli era un perfetto esempio di nobile altezzoso, di fine intelletto, persino idealista in alcuni frangenti, appassionato di filosofia, talentuoso oratore della tribuna forense in grado di padroneggiare alla perfezione la lingua greca oltre che il latino.

 

Servì come tribuno nella Guerra Sociale (91-88 a.C.) scrivendoci persino un saggio in greco. Nell’88 fu l’unico ufficiale tra quelli di Silla ad appoggiare la marcia in armi su Roma del futuro dittatore, un atto scellerato, inconcepibile fino a qualche anno prima, inquadrato nell’ottica dell’immane scontro civile che si tenne nell’Urbe tra i “populares” dell’homo novus Gaio Mario e gli “optimates”, ovvero la fazione aristocratica conservatrice di Silla e compagnia bella.

 

Si dice che Lucullo, da ottuso classista perso nei suoi ideali oligarchici, incantato dalla personalità carismatica e rabbiosa del suo capo, abbia messo anima e corpo a disposizione di Silla senza nulla chiedere in cambio. A ben guardare però da questa alleanza fu proprio il nostro ad uscirne arricchito di carriera e sesterzi.

 

Non per nulla fu subito quaestor aggregato alla spedizione sillana in Grecia, preludio alla prima guerra contro il bizzoso re del Ponto, Mitridate. Dall’88 all’85 a.C. Lucullo fu impegnato in una serie di missioni atte a dotare di una flotta le truppe di Silla impegnate nell’assedio di Atene e del Pireo.

 

Vagò come un disperato per isole ed isolette e fino in Egitto, sfuggendo tra mille peripezie alle flottiglie piratesche del re pontico per tornare dal suo capo con un pugno di mosche in mano.

 

Nel frattempo inoltre, tanto perché i romani non si facevano mancare nulla, due legioni spedite in Oriente da Cinna (dittatore nell’Urbe nell’87 a.C. e nemico giurato degli “optimates”) per sbarazzarsi dello stesso Silla, erano passate di mano in seguito ad ammutinamento, dal generale Flacco a un tale Fimbria, braccio destro del legato in questione, che era un acceso mariano, uomo rozzo ed estremamente violento, uno sterminatore efferato di genti e nemici.

 

Questi si era messo a sua volta a far la guerra a Mitridate bloccandone l’esercito nei pressi di Pergamo. Fece pervenire la richiesta al nostro questore di bloccare con la sua misera flotta il porto della città schiacciando dunque l’avversario tra due fuochi. Ma l’aristocratico Lucullo non concesse il suo aiuto ad un truculento mariano, tradendo per di più colui al quale aveva giurato fedeltà, ovvero Silla.

 

Ne venne fuori che Mitridate se ne fuggì a Mitilene mentre al fedele quaestor veniva assegnato il compito di riscuotere le indennità di guerra nelle città ribellatesi e persino di coniare monete. Lucullo risentì di sicuro del doppio fallimento, sia nei confronti di Silla non avendo reperito nulla che assomigliasse ad una flotta, sia verso gli interessi di Roma stessa mancando l’appuntamento con Fimbria.

 

Tanto per soddisfare la sua frustrazione non si fece mancare l’occasione per assestare un altro deciso colpo agli odiati “populares” attraverso l’applicazione in tutta la provincia di un calmiere per i tassi d’interesse sul denaro a debito. In tal modo ad essere colpiti furono i pubblicani, membri della classe equestre addetti alla riscossione di tasse e tributi oltre che di soldi a strozzo. Mario li aveva sempre favoriti.

 

A Roma, anni dopo, gli stessi avrebbero saputo come vendicarsi dello svampito aristocratico. Svampito perché Lucullo sembrò sempre oscillare tra la figura di un gran furbone e quella di un goffo mestierante e questo dubbio mi rimane imperterrito andando avanti nella nostra Storia.

 

Nell’80 a.C. dopo tanto peregrinare, fece ritorno nell’Urbe dove lo attendeva la carica di edile curule oltre la nomina a tutore dei figli da parte di Silla che stancamente si avviava al suo declino politico.

 

Come edile, responsabile dei giochi fece quello che meglio poteva riuscire ad un aristocratico, ovvero nutrire gli umili e i poveracci di panem et circenses. Infine nel 74 a.C a 42 anni, dopo essere stato praetor e propraetor in Africa, raggiunse il tanto agognato consolato insieme all’inetto Marco Aurelio Cotta, un politicante di poco conto.

 

In ballo però c’era ancora l’Oriente, dove il solito Mitridate era, tanto per cambiare, tornato alla ribalta con una nuova guerra, la terza. Sfiga volle che a Lucullo fosse assegnato a sorte come comando proconsolare per l’anno successivo uno dei teatri di guerra più inutili e sfruttati del mondo conosciuto, ovvero la Gallia Cisalpina.

 

Di contro al buon Cotta era toccata in sorte la Bitinia e il comando delle legioni che sarebbero state impiegate contro Mitridate. Da Lucullo, così borioso ed altezzoso, intellettuale contrario ai compromessi mi sarei aspettato una muta rassegnazione al fato infausto, invece no... puntò un ex mariano convinto, un tale Cornelio Cetego facendo di tutto per entrare nelle sue grazie. Si abbassò persino a richiedere l’intercessione di Precia, amante del Cetego.

 

Riuscì con tanto zelo ad ungere ruote, fare e richiedere favori che alla fine il Senato con l’escamotage di assegnargli il posto vacante di governatore della Cilicia, gli concesse il mandato proconsolare per condurre la guerra contro il re del Ponto in virtù della sua maggiore esperienza militare rispetto al povero Cotta al quale venne assegnato il rimasuglio di flotta romana che era rimasto nel teatro orientale. Non sto qui a descrivere tutte le fasi del lunghissimo conflitto che impegnò le legioni di Lucullo fino al 68 a.C.; per usare ciò che gli storici romani scrissero delle strategie di Lucullo “egli sapeva colpire con la velocità di Scipione difendendosi con l’accortezza di Fabio Massimo il Temporeggiatore”.

 

In pratica ci troviamo dinanzi ad un genio della lampada. Che poi la cosa divertente è che Lucullo partì per l’Asia con un baule pieno zeppo di papiri che narravano delle battaglie di Alessandro Magno, di Scipione Africano, di Annibale etc etc e si narra che lungo il tragitto marittimo, si fece una tale chiusa di studi tattici e militari che sulla nave salì da recluta e ne discese condottiero. Inanellò una serie di vittorie notevoli contro Mitridate che nel 69 a.C. con le ossa rotte si rifugiò in Armenia dal genero Tigrane, un altro castigamatti non da poco; ovviamente a Roma, nessuno era contento della campagna in corso. Per i quiriti era imbarazzante che in così tanti anni di guerra ancora non si fosse giunti ad una conclusione. Inoltre si rimproverava al grande generale di farsi sfuggire il bizzoso avversario sempre per un soffio.

 

Quanto sarebbe convenuto al buon Lucullo archiviare una così importante guerra in poche battute, considerando le ricchezze in ballo, tra il tesoro di Mitridate e le risorse che potevano essere attinte nelle varie città conquistate?

 

A dirla tutta l’aristocratico di raro concesse ai propri legionari di far man bassa, saccheggiando a destra e a manca. Anzi si contraddistinse tra le popolazioni locali per magnanimità e clemenza, amministrando i nuovi territori come un buon padre e non come un pessimo padrone.

 

Sta di fatto però che le uniche a riempirsi di ori furono le sue saccocce nel generale malcontento dei legionari che sgamando che qualcosa non quadrava, cominciarono ad odiare quel pedante condottiero. Dall’alto del suo scranno inoltre Lucullo si distingueva anche per la severità delle pene, l’applicazione di un duro codice marziale e la convinzione che il suo esercito di plebei combattesse al fine di tornarsene a casa a zappare la terra come all’epoca della prima Repubblica.

 

Peccato che i legionari, tutti nullatenenti o quasi, si erano arruolati solo ed unicamente per un futuro migliore e per comprarsela la terra grazie ai frutti di bottini e concessioni. Tra i primi borbottii e avvisaglie di ammutinamenti, Lucullo mosse contro l’Armenia, dichiarando guerra ad un regno senza l’approvazione del Senato.

 

Non considerò inoltre che l’Armenia stessa era una sorta di confine naturale, una terra di nessuno posta tra i possedimenti romani ed il potente impero dei Parti. Chi avrebbe conquistato l’Armenia si sarebbe cacciato in un tale ginepraio che sia a Roma che alla corte di Hecatompylos iniziarono a seguire con mal celato timore le gesta luculliane.

 

Stavolta i fringuelli da inseguire erano due, Tigrane e Mitridate che pur sconfitti a raffica riuscirono a darsi sempre alla macchia in barba al nostro. Come spesso succede, la dea bendata concede molte occasioni per poi chiedere il conto; tra il 68 e il 67 a.C. le legioni in questione furono scosse da diversi ammutinamenti sobillati da Clodio (proprio quello che qualche anno dopo si intrufolò vestito da donna nella casa di Cesare durante la festa della Bona Dea) che arrestarono la marcia trionfante di Lucullo permettendo al redivivo re del Ponto di riprendersi tutti i suoi territori.

 

La commissione romana giunta in Oriente altro non fece che riferire dei gravi disordini tra gli uomini che erano stati sotto Fimbria e di come la situazione fosse sfuggita di mano al generale in carica. Nel 66 a.C. il novello Alessandro Magno, ovvero Pompeo giunse a Danala, in Anatolia per assumere il comando della guerra contro Mitridate mente nell’Urbe gli ambienti politici vicini agli affaristi e ai pubblicani facevano girare le accuse di malversazione e conduzione della guerra per scopi personali ai danni di Publio Licinio Lucullo.

 

Rientrato a Roma nel 66 a.C., gli fu negato il trionfo fino al 63. Fu coinvolto in tantissimi processi, alcuni inventati solo per fargli danno, e la sua carriera politica e militare ne uscì distrutta. Da qui il conseguente ritiro nelle sue meravigliose ville, coltivando quello sfarzo che solo nelle corti orientali aveva potuto gustare, con particolare attenzione per le prelibatezze culinarie come per le opere d’arte.

 

Morì intorno ai 60 anni, avvelenato lentamente da una pozione che un suo schiavo gli somministrava giornalmente per avere il favore del padrone.

 

Lucullo fece sicuramente il massimo profitto della guerra combattuta in Oriente, ammonticchiando una quantità immensa di ori e tesori. Prolungò il conflitto all’inverosimile sopperendo con il proprio tornaconto personale al fatto di non riuscire mai a chiudere la partita contro nessuno dei suoi avversari. Sfuggito Mitridate, sfuggito Tigrane, egli già mirava ad invadere direttamente la Parthia se non fosse sopraggiunto Pompeo a levargli il mandato.

 

Si potrebbe considerare l’ipotesi che Lucullo abbia per cupidigia opportunamente ricercato una guerra eterna?

 

Oppure l’andare ogni volta così vicino alla vittoria senza mai conseguirla potrebbe aver determinato in lui una sorta di ossessione da trionfo?

 

In ogni caso la sua fine determinò l’ascesa di Pompeo che si ritrovò tra le mani la grande fortuna di sconfiggere un avversario già fiaccato da anni di guerra, aumentando a dismisura il suo prestigio ed ergendosi così incontrastato al ruolo di difensore della Repubblica contro le future brame cesariane.

 

Tornando a Lucullo, ci troviamo dinanzi ad un condottiero di talento, in grado di trasporre in pratica e con successo quanto letto sui fogli di carta.

 

Una personalità di grande intelletto ma dal comportamento ambiguo per quanto esposto poco sopra, condito di una particolare ottusità mai fine a se stessa. Alle grandi prese di posizione in danno persino agli interessi di Roma, non corrispose egual sorte quando in ballo furono i suoi interessi personali o desideri di sorta.

 

Stesso discorso si potrebbe applicare al presunto “odio di classe” nei confronti di tutti coloro che non appartenevano al suo rango e dei “populares” in particolar modo, osteggiati all’inverosimile fin quando la brama di ottenere il comando non calpestò ogni principio ed etica morale.

 

La sua colpa più grave fu quella di non aver favorito nessun tipo di rapporto di fiducia con i propri legionari, rimanendo un condottiero da piedistallo, sprezzante nei confronti della plebaglia arruolata, errore che, anni dopo, non avrebbe compiuto Cesare che a suon di lasciti e comportamenti “da caserma” si sarebbe guadagnato la fedeltà delle proprie truppe fin oltre il Rubicone.

 

Lucullo può essere archiviato come un uomo dalle eccessive contraddizioni. Da molti fu additato come carente in personalità in seguito alla sua fuga dalla vita politica dell’Urbe con quel ridicolo rinchiudersi in un’esistenza artefatta che lo consegnò alla Storia come un tipo bizzarro e curioso, appiccicandogli un’immagine che non è quella del talentuoso e un po’ spocchioso condottiero romano.

 

Mi rimane però il dubbio che ogni sua mossa sia stata dettata unicamente da quell’unico fine di tornare a Roma talmente ricco da poter conseguire il sogno di vivere nell’ozio fino alla fine dei suoi giorni. In questo caso, dovrei sostituire l’aggettivo “svampito” che ho usato nel pezzo con un più appropriato “diabolico”.



 

 

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