N. 120 - Dicembre 2017
(CLI)
Lucio Flavio Arriano
STORIA DI un COMANDANTE del II secolo - PARTE I
di Mauro Difrancesco
Tralasciando per un istante l’insieme di grandi conquiste e vittorie che portò una piccola città sulle sponde del Tevere a diventare la prima superpotenza conosciuta, bisogna anzitutto andare a ripercorrere la storia di quegli uomini che formavano il grande apparato bellico che Roma creò, modificò e impiegò nel corso dei lunghi secoli che la videro contrapposta a praticamente tutte le altre civiltà che si affacciavano sul Mediterraneo.
Fu
una
storia
di
grandi
generali
e
mediocri
comandanti,
impressionanti
vittorie
e
tremende
disfatte;
ma
soprattutto
fu
la
storia
di
come
questa
formidabile
macchina
da
combattimento,
generalmente
(e
non
a
torto)
ritenuta
come
il
miglior
esercito
dell’età
antica,
seppe
affrontare
e
vincere
i
nemici
di
Roma.
Partiamo
infatti
dal
presupposto
che
Roma
di
nemici
ne
ebbe
sempre
molti,
sin
dall’inizio:
pensiamo
ad
esempio
alle
popolazioni
che
abitavano
il
centro
Italia
all’epoca
dei
re,
alle
tre
guerre
combattute
contro
il
bellicoso
popolo
dei
Sanniti;
pensiamo
a
Pirro,
il
primo
che
seppe
tenere
in
scacco
le
legioni
repubblicane
nel
sud
Italia.
Immaginiamo
infatti
un
elefante
che
ci
viene
incontro,
barrendo
furiosamente
mentre
i
soldati
armati
di
lunghe
lance
e
giavellotti
cercano
di
colpirci
dall’alto
del
suo
dorso,
spesso
corazzato:
impensabile
battere
un
avversario
del
genere.
Eppure
le
legioni
riuscirono
in
questa
impresa
e in
quella
di
sconfiggere
il
grande
nemico
africano,
Cartagine
e i
suoi
generali,
primo
fra
tutti
Annibale
Barca.
Irriducibile
nemico
di
Roma,
nel
218
a.C.
il
generale
Cartaginese
riuscì
nell’impresa
di
portare
in
Italia
(attraversando
niente
di
meno
che
la
catena
delle
Alpi),
un
esercito
di
circa
cinquantamila
uomini
che
comprendeva
anche
trentasette
elefanti,
dopo
essersi
scontrato
e
aver
sottomesso
le
sfortunate
tribù
galliche
e
alpine
che
invano
gli
si
opposero.
La
disastrosa
battaglia
di
Canne
è
ricordata
come
una
fra
le
più
cocenti
sconfitte
patite
dall’esercito
romano
nell’età
repubblicana.
Ci
volle
un
genio
militare
della
statura
di
Publio
Cornelio
Scipione,
conosciuto
poi
con
l’appellativo
di
“Africano”,
per
sconfiggere
nella
battaglia
di
Zama
(202
a.C.)
l’odiato
nemico.
Passando
attraverso
i
secoli
di
lotte
contro
Iberi,
Galli,
Britanni,
Greci
e
Germani,
popolazioni
iraniche,
grandi
imperi
come
quello
dei
Parti
e
usurpatori,
da
Saturnino
a
deboli
meteore
come
Postumo
e i
Macriani,
potenti
rivali
quali
la
regina
Zenobia
di
Palmira
o
gli
altri,
innumerevoli
pretendenti
al
trono
imperiale
durante
la
grande
crisi
del
III
secolo,
arriviamo
alle
grandi
invasioni
barbariche
del
IV,
che
crearono
alcuni
dei
presupposti
per
la
caduta
dell’Impero
Romano
d’Occidente,
nel
476
d.C.
In
contrapposizione,
pensiamo
ora
a
innovatori
come
il
brillante
tattico
Scipione
o
Gaio
Mario,
che
creò
il
primo
esercito
di
tipo
professionale
sotto
la
minaccia
che
incombeva
su
Roma
da
parte
delle
popolazioni
barbare
di
Cimbri
e
Teutoni,
pensiamo
a
Giulio
Cesare
e
Ottaviano
Augusto;
a
riformatori
come
gli
imperatori
Gallieno,
il
primo
a
individuare
nella
cavalleria
un’arma
efficace
per
contrastare
le
incursioni
dei
barbari
entro
i
confini
dell’impero;
Diocleziano
e
Costantino
(più
noto
come
Costantino
il
Grande),
che
ristrutturarono
l’esercito
creando
una
nuova
macchina
bellica
basata
sulla
dicotomia
limitanei
–
comitatenses
(truppe
di
frontiera
–
esercito
mobile
da
campagna.
Capacità
di
adattamento
alle
situazioni
contingenti,
innovazione
e
caparbietà
nel
ricercare
una
soluzione,
ecco
quali
erano
le
doti
o
peculiarità
fuse
insieme
che
i
Romani
seppero
sfruttare
nel
corso
della
loro
storia.
Già
perché,
se i
Romani
non
avessero
compreso
la
necessità
di
passare
dal
sistema
oplitico
a
quello
manipolare,
se
non
fossero
stati
in
grado
di
creare
armi
come
il
pilum,
utilizzare
e
migliorare
le
spade
iberiche,
rinnovare
il
proprio
apparato
militare,
insomma,
nel
momento
e
nello
spazio
in
cui
si
presentava
un
nemico
diverso
dagli
altri
fino
a
quel
momento
combattuti,
Roma
non
avrebbe
potuto
sopravvivere
né
tantomeno
conquistare
un
impero.
Passando
ora
al
fulcro
del
discorso,
per
rispondere
a
questa
domanda
più
nel
dettaglio,
prenderò
in
esame
lo
studio
di
un
singolo
personaggio
del
primo
impero,
vissuto
all’epoca
di
grandi
imperatori
quali
Traiano
e
Adriano,
che
ricoprì
incarichi
di
alto
livello
nel
cursus
honorum
romano
e
che
a
tutt’oggi
viene
indicato
dagli
storici
come
un
personaggio
fondamentale
a
livello
politico
e
militare
nel
panorama
del
I
secolo
d.C.:
Lucio
Flavio
Arriano.
Il
nostro
personaggio
nasce
a
Nicomedia,
nella
provincia
romana
della
Bitinia,
fra
l’85
ed
il
90
d.C.
da
una
famiglia
della
ricca
aristocrazia
provinciale
che
godeva,
fra
l’altro,
della
cittadinanza
romana.
Durante
la
permanenza
a
Nicomedia
fu
sacerdote
di
Demetra
e
Core,
le
dee
protettrici
della
città.
Svolse
anche
funzioni
amministrative,
percorrendo
in
tutto
o in
parte
il
cursus
honorum.
Nel
108
d.C.,
trasferitosi
a
Nicopoli,
conobbe
il
filosofo
Epitteto,
al
quale
dedicò
un’opera
letteraria
(i
Discorsi
o
Diatribai).
Lo
vediamo
poi
prestare
servizio
militare,
forse
nella
militia
equestris
e
probabilmente
nelle
provincie
di
confine
della
Pannonia
e
del
Norico.
Lo
troviamo
poi
al
seguito
di
C.
Avidio
Nigrino,
propretore
dell’Acaia,
l’uomo
che
per
un
breve
periodo
sembrò
essere
il
candidato
alla
successione
imperiale
dopo
Traiano.
Intorno
al
110
d.C.
avviene
l’incontro
con
il
futuro
imperatore
Adriano,
che
segnerà
una
svolta
decisiva
nella
carriera
di
Arriano:
una
volta
divenuto
imperatore,
Adriano
favorì
il
cursus
honorum
dell’amico
fino
ai
vertici
delle
cariche
pubbliche,
fino
ad
elevarlo
alla
carica
senatoriale.
Fu
quindi
proconsole
della
Baetica,
nella
Spagna
romana
(a
testimonianza
del
quale
abbiamo
un’iscrizione
in
greco
ritrovata
a
Cordova
risalente
al
125
d.C.).La
parte
più
importante
della
vita
di
Arriano,
per
quanto
riguarda
il
presente
scritto,
inizia
nel
129
d.C.,
al
momento
della
sua
elevazione
a
Console
e
successivamente,
fra
il
131
ed
il
137
d.C.,
quando
va a
ricoprire
il
prestigioso
e
delicato
incarico
di
governatore
della
provincia
orientale
di
Cappadocia,
minacciata
costantemente
da
nemici
quali
i
Parti
e,
più
recentemente,
il
popolo
iranico
degli
Alani.
Nello
scacchiere
nord-orientale
in
cui
Arriano
era
chiamato
ad
operare,
poté
contare
su
almeno
due
legioni:
la
XV
Apollinaris,
di
stanza
sul
Mar
Nero,
e la
XII
Fulminata
presso
l’Eufrate,
accompagnate
dalle
rispettive
unità
ausiliarie.
Esaminando
la
cartina,
si
nota
innanzitutto
la
posizione
della
provincia
governata
da
Arriano:
situata
sulla
frontiera
nord-orientale
dell’impero,
bagnata
dal
Mar
Nero
(Pontus
Euxinus
nell’antichità)
e
confinante
a
sud
con
l’impero
dei
Parti
e a
nord
con
il
regno
d’Armenia.
Quest’ultima
compagine
territoriale
costituì
lungamente
fonte
di
contese
egemonico/territoriali
fra
Roma
e i
Parti,
in
quanto
per
la
prima
esercitava
il
ruolo
di
“stato
satellite”
e
cuscinetto,
mentre
per
i
secondi
era
uno
scenario
fondamentale
per
la
guerra
contro
i
Romani.
Da
qui
i
vari
tentativi
degli
uni
e
degli
altri
di
annettere
il
regno,
ponendovi
a
capo
un
re
fantoccio
da
poter
manovrare,
le
occupazioni
militari
e
gli
invii
di
spedizioni
di
“soccorso”
per
assicurarsene
la
lealtà.
Arriano
era
quindi
governatore
di
una
provincia
vitale
per
l’impero,
così
esposta
agli
attacchi
e
porta
orientale
per
una
possibile
invasione
della
penisola
anatolica.
Quando,
nel
135
d.C.,
gli
Alani
tentarono
di
penetrare
nella
provincia,
furono
respinti
da
Arriano.
Da
qui
nacque
il
suo
trattato
di
arte
militare
in
cui
viene
descritta
la
formazione
di
marcia
e lo
schieramento
in
battaglia
da
lui
utilizzato
per
respingere
un
popolo
che
faceva
largo
uso
di
cavalleria
pesante,
corazzata
e
armata
di
lunghe
lance
(contus,
così
come
descritto
dalle
fonti
letterarie
romane):
Ektaxis
kata
ton
Alanon
(intesa
come
formazione,
schieramento
di
battaglia
contro
gli
Alani).
Tale
scritto,
giunto
a
noi
in
maniera
frammentaria,
sarebbe
secondo
alcuni
parte
di
una
più
complessa
opera,
un
possibile
Trattato
sugli
Alani,
andato
perduto,
in
cui
Arriano
descrive
questa
tribù
nomade
di
stirpe
iranica.
Il
soggetto
principale
di
quest’opera
(che
andremo
ad
analizzare
nel
dettaglio)
è
l’esercito
romano
contemporaneo
ad
Arriano,
schierato
e
utilizzato
(in
un’ipotetica
marcia
di
avvicinamento
con
successiva
battaglia
campale)
contro
quel
popolo
che
cercava
di
penetrare
in
Cappadocia.
Successiva
a
quest’opera
di
carattere
militare,
Arriano
scrive
un
più
complesso
trattato
suddiviso
in
due
parti
distinte:
la
Techne
taktike
o
Arte
tattica.
Pubblicata
fra
il
136
ed
il
137
d.C.,
essa
vede
la
suddivisione
fra
la
prima
parte
(cap.
dal
I al
XXXII)
in
cui
l’autore
descrive
il
“modo
di
fare
la
guerra”
e
gli
schieramenti
adoperati
da
Greci
e
Macedoni,
analizzandone
tattiche
e
formazioni
di
combattimento,
e la
seconda
parte
(cap.
dal
XXXIII
al
XLIV)
dove
Arriano
contrappone
alle
prime
le
tattiche
utilizzate
dai
Romani.
Nel
dettaglio
possiamo,
però,
vedere
che
Arriano
si
cimenta
nella
trattazione
delle
tattiche
utilizzate
dalla
cavalleria
romana,
tralasciando
lo
studio
sulla
fanteria.
Questa
anomalia,
tanto
più
che
l’esercito
romano
fondava
la
propria
storia
proprio
sulla
fanteria
pesante
legionaria,
può
essere
compresa
nel
momento
in
cui
leggiamo
al
cap.
XXXII
di
come
l’autore
avesse
già
parlato
della
fanteria
in
uno
scritto
dedicato
all’imperatore
Adriano,
purtroppo
perduto.
Si
tratta,
comunque,
perlopiù
di
esercizi
e
manovre
più
che
di
reali
formazioni
di
combattimento.
Entrambe
le
opere
sono
scritte,
quindi,
da
un
militare
di
professione
che
conosceva
bene
ciò
che
andava
a
tradurre
in
parole
scritte.
Perlopiù,
infatti,
buona
parte
degli
scrittori
di
cose
militari
nell’antichità
come
in
epoca
moderna,
erano
uomini
colti
che
si
cimentavano
nell’impresa
di
creare
una
propria
concezione
di
arte
bellica
attingendo
ai
pregressi,
fondendo
insieme
le
tattiche
vecchie
con
quelle
nuove,
oppure
semplicemente
copiando
modelli
già
esistenti
(si
pensi
a
Machiavelli,
ad
esempio:
nel
suo
Arte
della
guerra
lo
scrittore
propone
la
fusione
della
falange
di
picchieri
svizzera
insieme
ad
una
fanteria
equipaggiata
alla
romana,
con
spada
e
scudo
oblungo,
di
modo
da
poter
sfruttare
la
capacità
di
sfondamento
del
quadrato
svizzero
con
l’abilità
in
combattimento
corpo
a
corpo
degli
spadaccini.
Nella
teoria
un
ottimo
sistema,
nella
pratica
la
nuova
milizia
fiorentina
fu
letteralmente
spazzata
via
dagli
spagnoli
nell’assedio
di
Prato).
Essendo
la
trattazione
della
Techne
taktike
degno
di
poter
essere
argomentato
in
un
unico
saggio
a
parte,
mi
limiterò
ad
esporre
ed
analizzare
l’opera,
se
vogliamo,
minore
ma
forse
più
nota
per
il
fatto
di
essere
stata
composta
sia
per
un
pubblico
letterario
(ma
scritta
in
maniera
che
la
maggior
parte
delle
persona
potesse
comprenderla,
in
un
linguaggio
concreto,
asciutto
e
diretto)
che
da
colleghi
militari
che
si
fossero
trovati
nella
situazione
di
dover
affrontare
popoli
come
quello
Alano.
Tornando
ad
Arriano:
dopo
il
governatorato
di
Cappadocia,
non
si
hanno
più
fonti
certe
sulla
sua
carriera,
se
non
che
nel
145/146
d.C.,
dopo
essersi
recato
ad
Atene,
ricevette
la
cittadinanza
onoraria
da
parte
di
questa
città,
diventandone
arconte
eponimo.
Dopo
non
si
ha
più
alcuna
traccia
di
Arriano.
Secondo
alcuni,
dopo
la
morte
del
suo
protettore,
l’imperatore
Adriano,
egli
cadde
in
disgrazia;
mentre
secondo
altri
avrebbe
governato
altre
provincie
come
la
Siria,
ma
di
ciò
non
si
ha
alcuna
fonte
storiografica
certa.
Secondo
fonti
tarde,
Arriano
sarebbe
vissuto
fino
al
regno
di
Marco
Aurelio
e in
effetti
un
Flavius
Arrianus
è
citato
nell’elenco
dei
pritani
ateniesi
per
gli
anni
166/167
e
169/170
d.C.,
ma a
quell’epoca
Arriano
aveva
già
passato
gli
ottant’anni
e la
carica
di
pritano"
era
pur
sempre
troppo
modesta
per
un
uomo
che
aveva
ricoperto
le
cariche
di
console
di
Roma
e
Arconte
di
Atene.
Più
probabilmente
tale
citazione
si
riferisce
ad
un
suo
figlio
o
nipote.