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N. 136 - Aprile 2019 (CLXVII)

un testo di economia aziendale del Quattrocento

Sulla Summa de arithmetica, geometria, proportioni

et proportionalità di Luca Pacioli

di Titti Brunori Zezza

 

È comparsa sulla stampa la notizia che il 12 giugno 2019 a New York presso la casa d’aste Christie’s verrà eccezionalmente battuto un solo lotto, partendo da un prezzo base aggirantesi tra un milione e un milione e mezzo di dollari. Sembrerebbe una cifra eccessiva anche per un testo della fine del Quattrocento, ma si tratta in questo caso di un’opera singolare: una vera e propria enciclopedia del sapere matematico quale fu la Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalità del frate francescano Luca Pacioli.

 

Data alle stampe a Venezia nel 1494 in duemila copie presso una delle molteplici tipografie allora esistenti in città, quella di Paganino de’ Paganini, creatore di un minuto ed elegante corsivo, l’opera ebbe subito una diffusione incomparabile rispetto ai trattati d’abaco manoscritti allora in circolazione, divenendo presto il testo di riferimento per tutti coloro che avevano a che fare con i problemi della mercatura. Venezia, a seguito della allora recente ideazione della stampa a caratteri mobili, si stava imponendo come centro internazionale dei libri in competizione con Roma e in città ferveva un’intensa attività editoriale che a partire da questi primi incunaboli presto avrà il merito di diffondere in tutta Europa molteplici contenuti culturali.

 

Era quello un particolare momento della storia economica del nostro Paese in cui si andava diffondendo in ambito commerciale l’applicazione di principi e regole che permangono ancora nella contabilità contemporanea nonché nella scienza aziendale. Allora mercanti e uomini di banca erano in grado di leggere la trattazione di temi economici anche in chiave scientifica evidenziando una superiorità culturale rispetto ai loro concorrenti europei. E per molto tempo a seguire il primato italiano nei commerci e nella finanza deriverà proprio da quella supremazia culturale che era propria dei suoi mercanti e banchieri.

 

D’altra parte esistevano allora le Scuole umanistiche che offrivano un programma di studi fondato sulla consapevolezza dei reciproci legami che uniscono i vari campi della conoscenza umana: un intreccio tra arti liberali ed interessi scientifici che mirava alla formazione dell’uomo “completo”, animato da un senso laico ed operoso dell’agire umano. Una visione, che pur non rinnegando il passato, si opponeva all’ascetismo medievale e si traduceva nella esaltazione di quelle passioni utili e feconde che spingevano le città ed i singoli individui ad arricchirsi e prosperare.

 

Già nel tredicesimo secolo il pisano Leonardo Fibonacci aveva messo a disposizione dei mercanti, al cui ceto anch’egli apparteneva, i nuovi metodi aritmetici che aveva appreso in Tunisia, offrendo un contributo rilevante per la tenuta della contabilità, per la conversione di pesi e di misure, per il calcolo degli interessi e per quello delle monete. Il suo Liber Abaci, scritto dall’autore a mano in tre copie e riscoperto dalla matematica finanziaria in tempi moderni, aveva introdotto la cosiddetta numerazione indiana che noi conosciamo come numerazione araba e che per merito suo sostituirà quella romana.

 

Le scuole d’abaco di allora, destinate in generale agli appartenenti allo strato culturale intermedio della società, avevano consentito a costoro, esercizio dopo esercizio, tutti derivanti dall’opera di Fibonacci, di impadronirsi non solo dei principi dell’aritmetica, ma anche di risolvere problemi che quotidianamente essi potevano concretamente incontrare come il calcolo degli interessi o il cambio delle monete e delle misure, nonché problemi di geometria pratica.

 

Fibonacci e Pacioli, il quale ultimo assimilerà nel suo testo anche le nozioni diffuse dal primo, possono considerarsi i padri della finanza moderna. Ai loro tempi essi si rivolgevano con i loro scritti soprattutto ai mercanti, ma anche ai letterati, matematici, uomini di chiesa facenti parte di quel ceto ristretto ed omogeneo nel cui ambito le innovazioni scientifiche si diffondevano velocemente pure tra chi non si occupava specificatamente di scienza. Si dice che Sant’Antonino, vescovo di Firenze attorno alla metà del XV secolo, sapesse discutere di cambi e di complicate operazioni finanziarie come un consumato mercante.

 

Luca Pacioli, il cui spirito inquieto lo porterà ad errare nel corso della sua vita per varie Università e Corti italiane insegnando i principi della matematica, era approdato la prima volta a Venezia diciannovenne e per un lungo periodo vi era rimasto al servizio del ricco commerciante di pellicce Antonio Rompiasi ai cui figli insegnerà le regole del calcolo e i rudimenti della geometria pratica. Presso costui egli ebbe modo di conoscere da vicino il mondo della mercatura accompagnandolo anche in alcuni suoi viaggi e di impadronirsi delle tecniche della contabilità d’impresa. In un successivo suo soggiorno sempre a Venezia, privilegiando lo studio della matematica pura che l’Umanesimo aveva riscoperto attraverso gli scritti di Euclide, egli si troverà invece a gravitare nell’ambito della cosiddetta Scuola di Rialto, non dissimile dalle altre Scuole umanistiche del tempo.

 

Questa, fondata nel 1408 grazie ad un lascito testamentario, colmava un vuoto cittadino che aveva costretto sino ad allora i giovani veneziani desiderosi di intraprendere studi di livello superiore a recarsi presso i centri universitari di Padova, Bologna o Pavia. Una scuola pubblica di istruzione avanzata, non religiosa, in cui, secondo il vincolo testamentario, si dovevano avviare i giovani, attraverso un percorso filosofico, allo studio della medicina, della matematica e dell’astronomia. Tra i suoi illustri docenti verrà annoverato anche il matematico Luca Pacioli, in seguito ritenuto il fondatore della scienza contabile.

 

Egli in quella sua Summa de Arithmetica, che andrà all’asta a giugno, raccoglie infatti in maniera sistematica e chiara, mettendoli a disposizione dei lettori, tutti i contenuti scientifici dei corsi universitari e delle botteghe d’abaco dell’epoca relativamente all’aritmetica, all’algebra e alla geometria, illustrando, però, dettagliatamente anche la loro applicazione pratica nel campo della mercatura. Particolarmente interessante risultava la nona Distinzione, ovvero la nona suddivisione del suo testo, avente per titolo Tractatus de computis et scripturis, in cui il Pacioli introduce il cosiddetto metodo della “partita doppia” e descrive dettagliatamente quello che anche oggi è uno strumento essenziale nella contabilità d’impresa.

 

Si giustifica così lo slogan con cui Christie’s ha annunciato ora la messa all’asta del libro: The birth of Modern Businnes. Si tratta di una tecnica contabile che permetteva ai mercanti di stabilire se da un’operazione commerciale si traeva un profitto o si sopportava una perdita in base alla registrazione delle entrate e delle uscite, dei debiti e dei crediti da inserire nei bilanci.

 

Alcuni storici, però, in base a documenti oggi a disposizione, ritengono che tale metodo “della partita doppia” fosse già utilizzato nella gestione delle imprese in città mercantili come Firenze, Genova e Venezia e che Luca Pacioli non ne sia stato l’ideatore, ma abbia avuto il merito di aver insegnato con estrema chiarezza ed efficacia a tenere i libri contabili in base a quel metodo, traducendo tale pratica in disciplina di insegnamento. In effetti Venezia godeva già di alta reputazione in Europa in fatto di registrazione delle voci di un bilancio commerciale.

 

I suoi insegnanti di contabilità erano giunti ad un livello di raffinatezza e di stilizzazione di quelle voci tale da rendere più facili i riscontri e il calcolo aritmetico. A ciò si aggiunga la flessibilità del cosiddetto metodo veneziano che consentiva al mercante di regolare in modo semplice, quando ne avvertisse il bisogno, i suoi profitti e le perdite tenendo una registrazione accurata e chiara delle sue obbligazioni e dei suoi debitori. Le radici italiane della ”partita doppia”, in precedenza sottovalutate in ambito europeo in quanto non diffuse da testi stampati, come poi avvenne attraverso il libro di Luca Pacioli, trovarono così ampia divulgazione ed egli se ne vide attribuire la primogenitura.

 

Certo è che l’opera, scritta in volgare e utilizzando i numeri arabi, procurò grande fama a quel frate matematico, umanista e filosofo e a pochi anni di distanza se ne stampò una nuova edizione. Anche oggi qualsiasi elenco riguardante antichi trattati di ragioneria prende l’avvio dalla sua Summa de Arithmetica attribuendo così all’Italia un primato indiscutibile.

 

La fama acquisita determinerà l’invito rivoltogli dal Duca di Milano Ludovico Sforza a ricoprire l’incarico di pubblico lettore di matematica e in quel contesto milanese nascerà l’amicizia e la collaborazione tra Pacioli e Leonardo da Vinci che disegnerà quei 59 mirabili poliedri per la successiva sua opera, stampata nel 1509 sempre da Paganino de’ Paganini e intitolata De divina proporzione, in cui egli illustra le applicazioni della sezione aurea nell’ambito delle arti figurative e della matematica.

 

Di lui esiste un celeberrimo ritratto conservato nel Museo nazionale di Capodimonte e realizzato dal pittore veneziano Jacopo de’ Barbari un anno dopo la pubblicazione dell’opera, vale a dire nel 1495. In esso Luca Pacioli è ritratto all’interno di uno studio con accanto il giovane Guidobaldo da Montefeltro di cui era al momento il precettore e a cui aveva dedicato quel testo. Costui diventerà duca d’Urbino alla morte del padre Federico, reso immortale con la moglie Battista dal dittico dipinto da Piero della Francesca che tutti sappiamo essere stato valente pittore, ma non anche molto competente matematico.

 

Conterraneo del frate, in quanto nati entrambi a Borgo San Sepolcro, il pittore si firmava per questo Piero del Borgo e probabilmente, essendo più anziano del Pacioli, nella sua bottega quest’ultimo dette avvio alla sua formazione culturale. Nel dipinto il frate, che occupa il centro della composizione, è colto mentre illustra all’allievo presumibilmente una teoria relativa ai corpi regolari presente nella seconda parte della sua opera che era incentrata sulla geometria e in cui vengono individuate in cinque corpi regolari le strutture gerarchiche dell’universo: tetraedro-fuoco; esaedro-terra; ottaedro-aria; icosaedro-acqua; dodecaedro-essenza trascendente, segreto modello dell’etere. Sul tavolo sono raffigurati due tomi dei quali, quello chiuso, a destra dell’osservatore, è proprio la Summa de Arithmetica data alle stampe l’anno prima, mentre quello al centro, aperto, si presume invece possa essere un testo di Euclide, edito sempre a Venezia nel 1482, oggetto, in seguito, di lungo e approfondito studio da parte del frate sollecitato da quella riscoperta e valorizzazione dei classici greci e latini che connotò il Rinascimento italiano.

 

Ebbene i malevoli del tempo, e anche il Vasari nelle sue famose Vite, apparse nel 1550, sostenevano che il Pacioli nel redigere la sua opera avesse attinto a piene mani senza dichiararlo proprio a due testi matematici scritti dal suo conterraneo, morto nel 1482, la qual cosa ricerche recenti sembrano confermare. Piero della Francesca, infatti, aveva scritto prima di morire, senza riuscire a darlo alle stampe, un Libellus de quinque corporis regularis relativo a una sua teoria delle strutture gerarchiche dell’universo e prima ancora un “Trattato d’Abaco” che si presentava proprio come la “Summa de Arithmetica” del Pacioli, un compendio di aritmetica, algebra e geometria da cui il frate attinse anche molti dei problemi che si ritrovano nella sua opera.

 

Tralasciando di dare un giudizio sull’Autore per il suo mancato riconoscimento dell’altrui proprietà intellettuale, che allora forse era un concetto più vago rispetto all’oggi, è indiscutibile che questa sua opera rivesta ancora notevole importanza in quanto non solo è il primo trattato in assoluto di scienze matematiche stampato, ma costituisce una preziosa testimonianza di un particolare momento della storia economica del nostro Paese da cui trarre forse anche qualche suggerimento mentre di questi tempi una profonda crisi attanaglia pubblico e privato.

 

Il testo del Pacioli dimostra come l’aritmetica e il ragionare con metodo rigoroso possano sempre giovare nel campo degli affari, siano quelli inerenti ad una modesta bottega artigiana oppure ad una impresa di dimensioni maggiori. La “partita doppia”, così chiaramente delineata dal Pacioli, esigeva che debiti e crediti fossero registrati per quello che erano, mentre gli economisti epigoni del frate spesso manipoleranno a loro piacimento voci attive e passive dei loro bilanci dimenticando che il controllo sistematico della gestione delle imprese, ancor oggi il cuore della ragioneria, produce sempre risultati virtuosi.

 

Se poi si confrontano la vastità della cultura e degli interessi, nonché la varietà delle esperienze di vita del frate umanista e della classe imprenditoriale del suo tempo con certa limitata specializzazione di alcuni attuali economisti si capisce il fallimento di tante imprese. Oggi si auspica da parte di molti di noi che il numero di imprenditori dalla forte personalità e dalla altrettanto forte formazione professionale, capaci di favorire il gioco di squadra e di incoraggiare la creatività, siano sempre più numerosi. Saranno artefici della rinascita del nostro Paese.  



 

 

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