N. 20 - Agosto 2009
(LI)
volevo i pantaloni
il ruolo della donna in sudan
di Laura Novak
Lei
si
chiama
Lubna
Hussein.
Il
suo
abbigliamento,
la
sua
naturalezza
e la
sua
cultura
sono
frutto
di
una
brillante
mescolanza
tra
le
sue
origini,
ricordate
con
fierezza
dai
suoi
tratti
etnici,
e la
sua
carriera
di
giornalista
per
un
quotidiano
sudanese
d’avanguardia.
La
sua
storia
ha
però
dell’incredibile.
Due
settimane
fa
lei
ed
altre
dodici
donne
sono
state
arrestate
in
un
ristorante
di
Khartoum,
in
seguito
ad
una
retata
della
polizia
locale.
Il
reato,
per
la
loro
legge
locale,
è
gravissimo:
indossare
i
pantaloni,
abbigliamento
indecente
e
promiscuo
per
una
donna.
Condotte
alla
stazione
di
polizia,
alcune
di
loro
si
sono
trovate
costrette
a
dichiararsi
immediatamente
colpevoli.
Il
castigo,
così
come
il
delitto,
è
anacronistico
e
primordiale:
frustate.
Decine
e
decine
di
frustate.
Le
donne
che
all’indomani
del
fermo
si
sono
accordate
per
dichiararsi
colpevoli
hanno
avuto
in
realtà
“solo”
dieci
frustate
ciascuna.
Lubna,
donna
impegnata
per
i
diritti
sociali,
impegnata
presso
le
Nazioni
Unite
in
favore
di
alcune
missioni
umanitarie,
si è
invece
rifiutata
di
auto
condannarsi
all’umiliazione
ed
al
dolore
fisico.
In
questo
modo
è
andata
incontro
ad
un
processo
penale
pubblico.
La
donna,
che
in
qualità
di
funzionario
in
attività
all’ONU,
ha
diritto
all’immunità,
ha
però
intrapreso
una
battaglia
sociale
ammirevole.
Dopo
aver
deciso
di
rinunciare
all’immunità,
dimettendosi
dal
suo
incarico,
il 4
agosto
attenderà
che
il
suo
processo
possa
avere
luogo.
La
condanna
che
rischia
è
paragonabile
ad
atroci
torture
medievali:
40
frustate
(più
una
multa
monetaria
pari
a
quasi
100
euro).
Gesù
Cristo,
secondo
i
sacri
testi,
durante
i
suoi
giorni
di
passione
ne
avrebbe
ricevute
39,
il
massimo
previsto
dalla
legislazione
romana.
La
sua
vicenda
prende
quindi
l’aspetto
della
denuncia
politica.
Il
Sudan
delle
donne
è
tutto
da
scoprire,
inorridendo
della
sua
efferatezza.
Un
mondo
animalesco,
selvaggio,
maschilista,
rudimentale.
La
tradizione
sociale,
le
sue
regole
chiuse
ed
immutabili,
sono
il
maggior
ostacolo
ad
una
vita
normale
per
queste
piccole
donne.
La
figura
femminile
è
schiacciata
sotto
la
pressione
di
anni
di
schiavitù
sessuale
e
fisica,
in
favore
di
una
società
tribale,
ad
uso
e
consumo
dell’uomo.
Adolescenti
stuprate
e
condannate
a
punizione
corporali
per
aver
“concesso”
la
violenza;
mamme
vedove
troppo
presto,
rimaste
sole
a
crescere
bambini
senza
futuro
o
speranza;
donne
violentate
e
picchiate,
abbandonate
dagli
sposi,
uccise
per
qualche
dollaro,
orrendamente
mutilate.
Da
fonti
fornite
dall’Unicef,
circa
3
milioni
di
donne
all’anno
subisce
mutilazioni
genitali
in
molti
paesi
dell’Africa
sudsahariana.
Ma
la
cifra
potrebbe
essere
impietosamente
ancora
maggiore,
vista
la
pesante
imprecisione
dei
censimenti
della
popolazione
della
zona.
La
cosiddetta
pratica
della
E/MGF,
acronimo
di
“escissione/mutilazione
genitale
femminileӏ
una
pratica
dalle
profonde
radici
tribali,
una
convenzione
sociale.
La
mutilazione,
considerata
una
pratica
che
eleva
il
soggetto
femminile
ad
uno
status
sociale
prestigioso,
è
forse
solo
uno
degli
aspetti
più
crudeli
di
un
universo
macabro
L’età
più
idonea
per
effettuare
l’orrenda
operazione
è
variabile;
sono
però
le
bambine
fino
ai
dieci
anni
ad
esserne
statisticamente
vittime
predilette.
La
tipologia
di
E/MGF
può
cambiare
a
seconda
della
zona
e
delle
tradizioni
etniche
del
luogo.
Solitamente
le
più
praticate
sono
l’asportazione
totale
dell’apparato
genitale
o la
cosiddetta
infibulazione,
in
cui
i
lembi
vaginali
vengono
richiusi.
Di
certo
nè
io
né
tutti
coloro
che
si
sono
documentati
a
riguardo
possono
davvero
capirne
lo
strazio
di
una
tale
tortura.
L’immaginazione
però
viaggia
ed
arriva
in
un
paesino
lontano
dalla
memoria
umana,
abbandonato
tra
la
sabbia
e la
sporcizia,
senza
acqua
corrente,
possibilità
di
pulizia
quotidiana,
senza
cibo,
con
la
debole
assistenza
di
altri
animi
umani,
più
generosi
ed
altruisti,
di
certo,
di
coloro
che
ne
scrivono
o ne
leggono
seduti
su
una
poltrona,
in
una
stanza
comoda
ed
agiata,
con
l’aria
condizionata
accesa.
Nascere
donna
in
quel
villaggio
è
una
condanna
annunciata.
Se
la
fortuna
decidesse
infatti
di
far
sopravvivere
qualsiasi
bellezza
ingenua
ed
infantile
a
queste
ignobili
torture,
ci
penserebbero
la
malaria,
la
fame,
la
sete,
la
guerra
civile
del
Darfur,
le
infezioni
dovute
a
cure
primitive
(in
cui
si
usa
il
carbone
bollente
come
disinfettante),
a
chiudere
il
cerchio
della
morte.
Immersa
quindi
nella
storia
reale
del
suo
paese,
la
storia
di
Lubna
sembra
una
goccia
in
mare
immenso.
Ma
le
gocce,
pesanti,
di
piombo
e di
sangue,
fanno
male.
Lubna
con
il
sacrificio
della
sua
schiena
di
donna
libera
ed
evoluta,
diventa
il
corpo,
la
schiena,
gli
occhi
e
l’urlo
di
tutte
quelle
donne
dimenticate
dal
mondo:
dalle
altre
donne
occidentali,
reduci
da
anni
di
battaglie
femministe
(buttate
nel
trita-carne
moderno
di
cinema,
pubblicità
e
tv),
dalle
istituzioni
umanitarie
che
non
riescono
a
coprire
gli
strappi
di
secoli
di
brutalità,
dalla
pietà
umana
che
dovrebbe
risarcire
le
lacerazioni
nel
cuore
delle
vittime.
“Il
peggior
peccato
contro
i
nostri
simili
non
è
l'odio,
ma
l'indifferenza:
questa
è
l'essenza
della
disumanità”
(George
Bernard
Shaw)
Il
senso
di
colpa
dovrà
pur
schiacciarci,
prima
o
poi.