contemporanea
SULLA COSMOGONIA di HOWARD PHILLIPS
LOVECRAFT
TRA ANGOSCIA e SAcralità
di Federico Fracassi
è
forse più opportuno parlare di demone,
anziché di genio, quando si loda la
personalità del così soprannominato “Solitario
di Providence”, anche se non
propriamente nell’accezione socratica o
romana dei termini. Autore dal profilo
intellettuale variegato al punto
d’apparire un mistero, lo statunitense
Howard Phillips Lovecraft
(1890-1937) è stato,
ed è ancora oggi, un caso letterario
d’eccezione, in grado di sposare con
oscura delizia grande erudizione
umanistica con un altrettanto grande
dramma d’inquietudine personale,
esistenziale e familiare.
Alcune coordinate fondamentali della sua
biografia sono utili a comprendere come
la sua formidabile sensibilità, unita a
sventurate affezioni (peraltro fortuite
per la letteratura), abbia gettato le
basi della sua futura cosmogonia,
recentemente rivalutata dal pubblico e
dalla critica. Tale cosmogonia infatti,
seppur profondamente diversa da quella
del suo celeberrimo contemporaneo
Tolkien, ordinato filologo di fede e
ispirazione cristiana, può esservi
liberamente paragonata, senza azzardo, per
ricchezza e originalità.
Mai eccessivi quindi i pur brevi
riferimenti a ulteriori pietre miliari
della letteratura angloamericana, mentre
indispensabili quelli più generali alla
storia del pensiero filosofico, per uno
sguardo d’insieme sul vasto tema.
Fin dalla tenera età Lovecraft
assistette al graduale declino mentale
del padre dovuto alla sifilide, che
pervenne presto alla psicosi e alla
morte. Egli visse il resto della sua
infanzia con il nonno e la madre,
rispettivamente appassionati di
letteratura gotica e astronomia, dai
quali venne profondamente influenzato:
dall’uno nel gusto, dall’altra nei
futuri toni contenutistici.
Si può individuare già in quel periodo
un parallelismo importante tra
esperienza onirica e letteraria, il
quale caratterizzò la sua intera opera
successiva. I racconti della madre sulla
sgomenta infinità dello spazio cosmico
fecero sorgere in lui quello che
probabilmente Kant avrebbe definito
sublime matematico: una sensazione
di attrazione, riverenza e repulsione
per ciò che si riconosce come
infinitamente esteso e tremendo rispetto
a sé.
Tali racconti fecondarono per la prima
volta la fervida immaginazione di quello
che sarebbe diventato un maestro
dell’orrore, dando i natali ai Magri
Notturni, creature aliene e
immateriali che gli facevano visita in
sogno afferrandolo per lo stomaco e
trascinandolo tra le stelle, dalle cui
altezze osservava città dalle
architetture non euclidee. Tutto
questo tra i sei e i sette anni di età,
prima di ancora di confrontarsi a dieci
anni con la lettura di un autore che lo
formò nello stile e vessò nella mente:
Edgar Allan Poe.
Lovecraft fu un uomo dalla salute
cagionevole, ma anche gli equilibri
finanziari della sua famiglia conobbero
numerosi alti e bassi, ragione per cui
presto l’autore abbandonò gli studi
liceali. Ciononostante egli scrisse per
la rivista Weird Tales e i suoi
racconti ebbero una fama altalenante,
fatto che non lo turbò oltremodo data la
sua considerazione dell’attività
letteraria: «un’arte elegante cui
dedicarsi senza regolarità e con
discernimento» [Lettere, 1925],
affermazione densa che la sorte rese
ironica, estremamente personale.
Sì, poiché Lovecraft detestò il suo
ingresso nella maggiore età, alla quale
dedicò un piccolo scritto intitolato
L’età adulta è l’inferno. Lettere di un
orribile romantico. Quello degli
adulti infatti era un mondo che
percepiva come ostile a una personalità
come la sua, un mondo fatto di
regolarità e noie, odiava e si sentiva
braccato da un senso comune per lui
limitante e materiale, fatto di
responsabilità senza costrutto.
Molti riterrebbero strana tale posizione
per via del fatto che la storia della
letteratura parla di un Lovecraft ateo,
cinico e materialista, molto legato alle
sue origini e sprezzante verso le altre
etnie, ma sbaglierebbero. Critiche e
studi posteriori infatti evidenziano una
certa flessibilità nell’antropologia
lovecraftiana, flessibilità che si
riflette nella sua cosmogonia e volendo
perfino nella sua teratologia.
Dopo una generica ma utile disamina
della persona è appena il caso di
parlare dei principali personaggi che
popolano l’universo di “colui che
scriveva nelle tenebre”, altro
felice appellativo dell’autore. A tutti
i racconti soggiace un solo sfondo, una
tremenda e caotica voragine che noi
umani possiamo comprendere a costo della
follia e di un destino peggiore della
morte. Ai margini di questa c’è il mondo
per come lo conosciamo, ci sono le
dimensioni di spazio e tempo e la beata
ignoranza degli uomini, ignorati a loro
volta dagli orrendi e onnipotenti dèi
esterni, ma minacciati da folli
sacerdoti umani (e non) nascosti sulla
Terra, impegnati senza posa in culti
abominevoli volti all’inveramento di
profezie dimenticate che prevedono
l’implosione del cosmo stesso in un
vortice sacro di eterna agonia la cui
legge è l’assenza di qualsiasi legge,
che il diavolo e la morte come noti
all’uomo comune rifuggirebbero.
Un motto emblematico da ritrovarsi nei
racconti del Necronomicon e nel
Ciclo di Cthulhu recita: «non
è morto ciò che in eterno può attendere,
e col volgere di strani eoni perfino la
morte può morire». In tale
frase, cifra dell’orrenda teologia
lovecraftiana, riecheggia in qualche
modo quella di Nietzsche: «se guardi
a lungo nell’abisso, l’abisso ti guarda
dentro».
Tutto quel che esiste può non esistere
al contempo e viceversa, e a presiedere
tale indicibilità cosmica e anticosmica
c’è l’idiota Azathot, il demone
sultano: una massa gorgogliante e
irrazionale che a sua volta pronuncia
insulti verso l’ordine degli universi
che sogna e contiene, provocando
cataclismi. Esso sonnecchia cullato
dalla cacofonia di flauti demoniaci.
A oggi non
è affatto facile comprendere appieno a
quali e quante fonti il Solitario di
Providence possa essersi riferito per
costruire il suo “sistema senza
sistema”, ma sappiamo che egli ha
rinnovato la letteratura horror/weird e
si è dimostrato un filosofo esteta
dell’angoscia e del sacro, un
englishman a tutto tondo che ha
fatto del pubblico una preda del suo
stesso sconcerto, la sua stessa vita è
stata il set romantico uno e
irripetibile di una storia di terrore di
cui l’umanità tutta partecipa e non può
prescindere: «il sentimento più
antico dell’animo umano è la paura, e la
paura più grande è quella dell’ignoto». |