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[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 157 / GENNAIO 2021 (CLXXXVIII)


contemporanea

SULLA COSMOGONIA di HOWARD PHILLIPS LOVECRAFT

TRA ANGOSCIA e SAcralità

di Federico Fracassi

 

è forse più opportuno parlare di demone, anziché di genio, quando si loda la personalità del così soprannominato “Solitario di Providence”, anche se non propriamente nell’accezione socratica o romana dei termini. Autore dal profilo intellettuale variegato al punto d’apparire un mistero, lo statunitense Howard Phillips Lovecraft (1890-1937) è stato, ed è ancora oggi, un caso letterario d’eccezione, in grado di sposare con oscura delizia grande erudizione umanistica con un altrettanto grande dramma d’inquietudine personale, esistenziale e familiare.

 

Alcune coordinate fondamentali della sua biografia sono utili a comprendere come la sua formidabile sensibilità, unita a sventurate affezioni (peraltro fortuite per la letteratura), abbia gettato le basi della sua futura cosmogonia, recentemente rivalutata dal pubblico e dalla critica. Tale cosmogonia infatti, seppur profondamente diversa da quella del suo celeberrimo contemporaneo Tolkien, ordinato filologo di fede e ispirazione cristiana, può esservi liberamente paragonata, senza azzardo, per ricchezza e originalità.

 

Mai eccessivi quindi i pur brevi riferimenti a ulteriori pietre miliari della letteratura angloamericana, mentre indispensabili quelli più generali alla storia del pensiero filosofico, per uno sguardo d’insieme sul vasto tema.

 

Fin dalla tenera età Lovecraft assistette al graduale declino mentale del padre dovuto alla sifilide, che pervenne presto alla psicosi e alla morte. Egli visse il resto della sua infanzia con il nonno e la madre, rispettivamente appassionati di letteratura gotica e astronomia, dai quali venne profondamente influenzato: dall’uno nel gusto, dall’altra nei futuri toni contenutistici.

 

Si può individuare già in quel periodo un parallelismo importante tra esperienza onirica e letteraria, il quale caratterizzò la sua intera opera successiva. I racconti della madre sulla sgomenta infinità dello spazio cosmico fecero sorgere in lui quello che probabilmente Kant avrebbe definito sublime matematico: una sensazione di attrazione, riverenza e repulsione per ciò che si riconosce come infinitamente esteso e tremendo rispetto a sé.

 

Tali racconti fecondarono per la prima volta la fervida immaginazione di quello che sarebbe diventato un maestro dell’orrore, dando i natali ai Magri Notturni, creature aliene e immateriali che gli facevano visita in sogno afferrandolo per lo stomaco e trascinandolo tra le stelle, dalle cui altezze osservava città dalle architetture non euclidee. Tutto questo tra i sei e i sette anni di età, prima di ancora di confrontarsi a dieci anni con la lettura di un autore che lo formò nello stile e vessò nella mente: Edgar Allan Poe.

 

Lovecraft fu un uomo dalla salute cagionevole, ma anche gli equilibri finanziari della sua famiglia conobbero numerosi alti e bassi, ragione per cui presto l’autore abbandonò gli studi liceali. Ciononostante egli scrisse per la rivista Weird Tales e i suoi racconti ebbero una fama altalenante, fatto che non lo turbò oltremodo data la sua considerazione dell’attività letteraria: «un’arte elegante cui dedicarsi senza regolarità e con discernimento» [Lettere, 1925], affermazione densa che la sorte rese ironica, estremamente personale.

 

Sì, poiché Lovecraft detestò il suo ingresso nella maggiore età, alla quale dedicò un piccolo scritto intitolato L’età adulta è l’inferno. Lettere di un orribile romantico. Quello degli adulti infatti era un mondo che percepiva come ostile a una personalità come la sua, un mondo fatto di regolarità e noie, odiava e si sentiva braccato da un senso comune per lui limitante e materiale, fatto di responsabilità senza costrutto.

 

Molti riterrebbero strana tale posizione per via del fatto che la storia della letteratura parla di un Lovecraft ateo, cinico e materialista, molto legato alle sue origini e sprezzante verso le altre etnie, ma sbaglierebbero. Critiche e studi posteriori infatti evidenziano una certa flessibilità nell’antropologia lovecraftiana, flessibilità che si riflette nella sua cosmogonia e volendo perfino nella sua teratologia.

 

Dopo una generica ma utile disamina della persona è appena il caso di parlare dei principali personaggi che popolano l’universo di “colui che scriveva nelle tenebre”, altro felice appellativo dell’autore. A tutti i racconti soggiace un solo sfondo, una tremenda e caotica voragine che noi umani possiamo comprendere a costo della follia e di un destino peggiore della morte. Ai margini di questa c’è il mondo per come lo conosciamo, ci sono le dimensioni di spazio e tempo e la beata ignoranza degli uomini, ignorati a loro volta dagli orrendi e onnipotenti dèi esterni, ma minacciati da folli sacerdoti umani (e non) nascosti sulla Terra, impegnati senza posa in culti abominevoli volti all’inveramento di profezie dimenticate che prevedono l’implosione del cosmo stesso in un vortice sacro di eterna agonia la cui legge è l’assenza di qualsiasi legge, che il diavolo e la morte come noti all’uomo comune rifuggirebbero.

 

Un motto emblematico da ritrovarsi nei racconti del Necronomicon e nel Ciclo di Cthulhu recita: «non è morto ciò che in eterno può attendere, e col volgere di strani eoni perfino la morte può morire». In tale frase, cifra dell’orrenda teologia lovecraftiana, riecheggia in qualche modo quella di Nietzsche: «se guardi a lungo nell’abisso, l’abisso ti guarda dentro».

 

Tutto quel che esiste può non esistere al contempo e viceversa, e a presiedere tale indicibilità cosmica e anticosmica c’è l’idiota Azathot, il demone sultano: una massa gorgogliante e irrazionale che a sua volta pronuncia insulti verso l’ordine degli universi che sogna e contiene, provocando cataclismi. Esso sonnecchia cullato dalla cacofonia di flauti demoniaci.

 

A oggi non è affatto facile comprendere appieno a quali e quante fonti il Solitario di Providence possa essersi riferito per costruire il suo “sistema senza sistema”, ma sappiamo che egli ha rinnovato la letteratura horror/weird e si è dimostrato un filosofo esteta dell’angoscia e del sacro, un englishman a tutto tondo che ha fatto del pubblico una preda del suo stesso sconcerto, la sua stessa vita è stata il set romantico uno e irripetibile di una storia di terrore di cui l’umanità tutta partecipa e non può prescindere: «il sentimento più antico dell’animo umano è la paura, e la paura più grande è quella dell’ignoto».

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]