N. 107 - Novembre 2016
(CXXXVIII)
nuovo
passo
nella
lotta
alla
pedofilia
nel
clero
sul
Motu
Proprio
Come
una
madre
amorevole
di
Claudio
Gentile
Il 4
giugno
2016
Papa
Francesco
ha
compiuto
un
nuovo
passo
nella
lotta
alla
pedofilia
nel
clero,
dopo
gli
energici
interventi
di
San
Giovanni
Paolo
II e
di
Benedetto
XVI,
emanando
il
Motu
Proprio
“Come
una
madre
amorevole”.
Questo
nuovo
provvedimento
nasce
a
seguito
degli
scandali
scoppiati
in
varie
parti
del
mondo
che
hanno
visto
coinvolti
diversi
Vescovi
accusati
di
aver
“coperto”
i
sacerdoti
pedofili
della
propria
diocesi
o di
non
essere
intervenuti
abbastanza
in
fretta
in
difesa
delle
vittime.
Per
il
Papa
la
Chiesa,
«come
una
madre
amorevole»,
deve
curare
e
proteggere
«con
un
affetto
particolarissimo
quelli
più
piccoli
ed
indifesi»,
dedicando
«una
cura
vigilante
alla
protezione
dei
bambini
e
degli
adulti
vulnerabili».
Con
il
nuovo
testo
legislativo,
Francesco
ha
innanzitutto
precisato
che
tra
le
“cause
gravi”
per
cui
il
diritto
canonico
già
prevede
la
possibilità
della
rimozione
dall’ufficio
ecclesiastico
(cfr.
can.
193,
§ 1
CIC
e
can.
975,
§ 1
CCEO)
è
ricompresa
anche
«la
negligenza
dei
Vescovi
nell’esercizio
del
loro
ufficio,
in
particolare
relativamente
ai
casi
di
abusi
sessuali
compiuti
su
minori
ed
adulti
vulnerabili».
Ci
troviamo
dinanzi
ad
una
vera
e
propria
interpretazione
autentica
del
Supremo
Legislatore
della
Chiesa.
Tale
interpretazione,
però,
ai
sensi
del
can.
16,
§ 2
CIC
(«[...]
se
soltanto
dichiara
le
parole
di
per
sé
certe
della
legge,
ha
valore
retroattivo;
se
restringe
o
estende
la
legge
oppure
chiarisce
quella
dubbia,
non
è
retroattiva»),
estendendo
la
valenza
della
norma,
non
dovrebbe
essere
retroattiva.
D’altronde
finora,
per
“destituire”
i
Vescovi
accusati
di
aver
“coperto”
i
propri
sacerdoti,
è
stato
utilizzato
il
can.
401,
§ 2
CIC
(“Il
Vescovo
diocesano
che
per
infermità
o
altra
grave
causa
risultasse
meno
idoneo
all’adempimento
del
suo
ufficio,
è
vivamente
invitato
a
presentare
la
rinuncia
all’ufficio”),
che
prevede
la
presentazione
volontaria
al
Papa
(magari
dopo
un
severo
richiamo
ai
propri
doveri)
delle
dimissioni
da
parte
del
Vescovo
sotto
accusa
e
non
il
can.
193
(Ǥ1.
Non
si
può
essere
rimossi
dall’ufficio
che
viene
conferito
a
tempo
indeterminato,
se
non
per
cause
gravi
e
osservato
il
modo
di
procedere
definito
dal
diritto»).
Nei
casi
in
cui
si
verifichino
comportamenti
dannosi
per
la
comunità
gli
articoli
del
Motu
Proprio
stabiliscono,
per
la
prima
volta,
una
articolata
procedura,
così
come
prevede
lo
stesso
can.
193,
al
fine
di
giudicare
i
comportamenti
negligenti
e,
quindi,
giungere
alla
destituzione
dei
Vescovi
diocesani,
degli
Eparchi
e di
coloro
che
ad
essi
sono
equiparati
dal
diritto
(cfr.
can.
368
CIC
e
can.
313
CCEO).
È
necessario
specificare
che
tale
procedura
è
strettamente
amministrativa
e
non
penale.
Infatti,
i
Vescovi
potrebbero
anche
essere
accusati
del
delitto
di
“abuso
d’ufficio”
ex
can.
1389
CIC
(Ǥ1.
Chi
abusa
della
potestà
ecclesiastica
o
dell’ufficio
sia
punito
a
seconda
della
gravità
dell’atto
o
dell’omissione,
non
escluso
con
la
privazione
dell’ufficio,
a
meno
che
contro
tale
abuso
non
sia
già
stata
stabilita
una
pena
dalla
legge
o
dal
precetto.
§2.
Chi,
per
negligenza
colpevole,
pone
od
omette
illegittimamente
con
danno
altrui
un
atto
di
potestà
ecclesiastica,
di
ministero
o di
ufficio,
sia
punito
con
giusta
pena»),
ma
in
tal
caso
la
procedura
processuale
è
già
dettagliatamente
disciplinata
dal
Codice
e la
competenza
esclusiva
a
giudicarli
è
del
Papa
ai
sensi
del
can.
1405,
§ 1
CIC
(Ǥ1.
Il
Romano
Pontefice
stesso
ha
il
diritto
esclusivo
di
giudicare
[...]
nelle
cause
penali
i
Vescovi»).
L’art.
1
prescrive
che
il
Vescovo
(e
quelli
ad
esso
equiparati)
«può
essere
legittimamente
rimosso
dal
suo
incarico,
se
abbia,
per
negligenza,
posto
od
omesso
atti
che
abbiano
provocato
un
danno
grave
ad
altri,
sia
che
si
tratti
di
persone
fisiche,
sia
che
si
tratti
di
una
comunità
nel
suo
insieme»
(§
1).
Tale
danno
«può
essere
fisico,
morale,
spirituale
o
patrimoniale».
Il
paragrafo
2
puntualizza
che
il
Vescovo
«può
essere
rimosso
solamente
se
egli
abbia
oggettivamente
mancato
in
maniera
molto
grave
alla
diligenza
che
gli
è
richiesta
dal
suo
ufficio
pastorale,
anche
senza
grave
colpa
morale
da
parte
sua».
Il
grado
di
negligenza
diminuisce
da
“molto
grave”
a
“grave”
«nel
caso
si
tratti
di
abusi
su
minori
o su
adulti
vulnerabili»
(§
3).
Ma
veniamo
ora
alla
procedura
stabilita
dal
Papa
per
la
rimozione
dei
Vescovi,
ai
quali
sono
equiparati
espressamente
anche
«i
Superiori
Maggiori
degli
Istituti
religiosi
e
delle
Società
di
vita
apostolica
di
diritto
pontificio»
(art.
1, §
4),
che
altrimenti
sarebbero
stati
esclusi
in
quanto
non
sovraintendono
a
delle
Chiese
particolari.
L’articolo
2
prescrive
che
«in
tutti
i
casi
nei
quali
appaiano
seri
indizi
[...]
la
competente
Congregazione
della
Curia
romana
può
iniziare
un’indagine
in
merito,
dandone
notizia
all’interessato
e
dandogli
la
possibilità
di
produrre
documenti
e
testimonianze»
(§
1).
L’articolo
citato
descrive,
mutatis
mutandis,
l’inizio
di
“indagine
previa”,
disciplinata
genericamente
dal
can.
1717
del
Codice
di
Diritto
Canonico.
Trovandoci
al
cospetto
di
Vescovi
diocesani
il
competente
organismo
per
verificare
le
accuse
non
può
non
essere
la
Curia
Romana,
collaboratrice
del
Papa
nello
svolgimento
del
suo
supremo
ministero
di
Padre
e
Pastore
della
Chiesa
Universale.
Naturalmente
ad
indagare
deve
essere
“la
competente
Congregazione”,
la
quale
è
naturaliter
individuata
dal
diritto
stesso
(cfr.
Cost.
Ap.
Pastor
Bonus):
le
Congregazioni
per
i
Vescovi,
per
la
Propagazione
della
Fede
e
per
le
Chiese
Orientali
per
gli
Ordinari
delle
Chiese
di
rispettiva
afferenza
e la
Congregazione
per
gli
Istituti
di
Vita
Consacrata
e le
Società
di
Vita
Apostolica
per
i
Superiori
Maggiori
degli
Istituti
Religiosi.
In
capo
alla
Congregazione
competente
vige
l’obbligo
di
prendere
in
considerazione
“tutti
i
casi”
seriamente
fondati
che
in
qualsiasi
modo
gli
pervengono
e di
valutare
l’opportunità
di
iniziare
o
meno
un’indagine.
Se
vi è
un
obbligo
di
prendere
in
considerazione
tutti
i
casi
non
inverosimili,
tuttavia
non
vi è
un
obbligo
di
aprire
sempre
l’indagine
in
quanto
il
testo
pontificio
usa
il
verbo
“può”
e
non
“deve”.
Differentemente
dal
can.
1717
CIC,
però,
nel
caso
in
cui
la
Congregazione
decida
di
dar
inizio
all’indagine,
deve
darne
notizia
all’interessato
e
deve
dargli
«possibilità
di
produrre
documenti
e
testimonianze».
Questo
obbligo
permette
di
rispettare
il
principio
del
diritto
alla
difesa
e di
meglio
tutelare
la
posizione
del
Vescovo
indagato,
il
quale
avrà
sempre
«la
possibilità
di
incontrare
i
Superiori
della
Congregazione»
(§
2).
Le
modalità
di
difesa
del
Vescovo
sono
meglio
esplicitate
nel
§ 2:
oltre
alla
già
accennata
possibilità
di
incontrare
i
Superiori
della
Congregazione,
che
prenderanno
loro
stessi
l’iniziativa
dell’incontro
nel
caso
in
cui
non
lo
faccia
il
singolo
Vescovo,
vi è
la
possibilità
di
utilizzare
tutti
i
mezzi
previsti
dal
diritto
(presentare
documenti,
testimonianze,
prove
varie,
etc.)
ed
il
diritto
di
avere
comunicazioni
su
tutti
i
passaggi
dell’inchiesta.
Il
documento
tace
sulla
possibilità
di
essere
assistito
da
un
Patrono
e,
in
caso
positivo,
su
quali
requisiti
esso
debba
avere.
Credo,
tuttavia,
come
è
prassi
in
tutti
i
procedimenti
canonici,
anche
extra
iudicium,
che
la
presenza
di
un
difensore
tecnicamente
qualificato
non
solo
sia
permessa,
ma
anche
necessaria,
anche
se
la
sua
nomina
deve
essere
sottoposta
al
giudizio
della
Congregazione
stessa.
Parlando
genericamente
di
Congregazione,
il
documento
non
specifica
chi
possa
svolgere
e
quali
requisiti
debba
avere,
l’incarico
di
“inquisitore”
vero
e
proprio.
Pertanto
potrebbe
essere
uno
(o
più)
Membro
o
Officiale
della
Congregazione
o
qualcuno
incaricato
ad
actum
dai
Superiori
del
Dicastero,
purché
idoneo
all’incarico
e
competente
nella
materia
oggetto
di
indagine.
Naturalmente
il
soggetto
inquirente
dovrà
avere
sempre
come
riferimento
i
Superiori
della
Congregazione.
Trattandosi
comunque
di
indagini
in
cui
è in
gioco
la
fama
di
un
Vescovo,
analogamente
a
quanto
prescritto
dal
can.
483
CIC,
ritengo
che
sia
necessario
che
colui
che
svolge
l’indagine
sia
insignito
dell’Ordine
sacro,
salvo
esplicite
deroghe.
Quasi
sicuramente
sarà
doveroso
che
le
indagini
si
svolgano
in
tutto
o in
parte
anche
nei
luoghi
dove
si
son
svolti
i
fatti
al
fine
di
poter
visionare
gli
atti
ed i
luoghi
ed
ascoltare
de
visu
i
testimoni.
Non
è
escluso
che
possa
essere
nominato
un
incaricato
in
loco,
tendenzialmente
Vescovo
di
una
diocesi
viciniore,
o
predisposta
una
speciale
“rogatoria”.
Sarebbe
stato
opportuno
specificare
i
poteri
dell’inquisitore
e le
modalità
di
indagini
extra
Urbem.
Terminata
l’indagine
e
prima
di
assumere
le
proprie
determinazioni,
la
Congregazione,
oltre
a
decidere
lo
svolgimento
di
un
“indagine
supplementare”
nel
caso
in
cui
ve
ne
fosse
la
necessità
«in
seguito
agli
argomenti
presentati
dal
Vescovo»
(art.
2, §
3),
può
valutare
l’opportunità
di
incontrare
anche
altri
Vescovi
appartenenti
alla
Conferenza
Episcopale
della
quale
fa
parte
il
Vescovo
(o
al
Sinodo
dei
Vescovi
della
Chiesa
sui
iuris
della
quale
appartiene
l’Eparca)
e
discutere
con
loro
del
caso
(art.
3, §
1).
Riunita
in
Sessione
Ordinaria,
la
Congregazione
addiviene
alla
decisione
finale.
Oltre
alla
possibilità
di
archiviare
l’indagine
(p.
es.
per
morte
o
dimissioni
del
Vescovo),
la
Congregazione
inquirente
ha
due
opzioni:
“assoluzione”
o
“condanna”.
Nel
caso
in
cui
la
Congregazione
ritenga
che
il
Vescovo
sia
stato
negligente
ha
in
particolare
due
scelte:
1)
emettere
direttamente
il
decreto
di
rimozione;
2)
esortare
fraternamente
il
Vescovo
a
presentare
la
sua
rinuncia
in
un
termine
di
quindici
giorni,
passati
i
quali
emetterà
il
decreto
di
rimozione
(art.
4).
Il
decreto
di
rimozione,
tuttavia,
per
avere
efficacia
deve
essere
sottoposto
all’approvazione
specifica
del
Romano
Pontefice,
unico
a
poter
provvedere
alle
Chiese
diocesane.
Il
Papa
prima
di
assumere
una
qualunque
decisione
(approvare
o
non
approvare
il
decreto
della
Congregazione),
«si
farà
assistere
da
un
apposito
Collegio
di
giuristi,
all’uopo
designati»
(art.
5).
Questo
particolare
“secondo
grado
di
giudizio”
automatico,
che
va
ovviamente
ad
eliminare
la
possibilità
di
ricorrere
alla
Segnatura
Apostolica,
allenta
i
timori
di
una
lesione
al
diritto
di
difesa
del
Vescovo
“condannato”
(che
si
vedrebbe
arrivare
un
decreto
approvato
in
forma
specifica
dal
Papa
e
quindi
non
impugnabile)
in
quanto
vede
il
suo
caso
giudicato
dalla
Congregazione
ridiscusso
dal
Papa
e
dai
giuristi
suoi
consiglieri.
Tuttavia,
non
è
specificato
né
se
il
Vescovo
condannato
verrà
messo
a
conoscenza
del
decreto
emesso
nei
suoi
confronti,
né
se
avrà
o
meno
la
possibilità
di
presentare,
ed
in
che
modalità
e
tempi,
le
proprie
doglianze
al
Papa
e
quindi
al
Collegio
dei
giuristi
affinché
ne
prendano
visione
e
conoscenza
per
avere
così
ulteriori
(e
“altri”)
elementi
di
giudizio.
Ovviamente
la
decisione
ultima
presa
poi
dal
Papa
è
inappellabile.
Oltre
a
quanto
già
anticipato,
restano
ancora
alcuni
dubbi
che
la
prassi
e la
“giurisprudenza”
andranno
sicuramente
pian
piano
a
dipanare.
Un
dubbio
preliminare
riguarda
cosa
debba
intendersi
per
«negligenza
dei
Vescovi
nell’esercizio
del
loro
ufficio,
in
particolare
relativamente
ai
casi
di
abusi
sessuali
compiuti
su
minori
ed
adulti
vulnerabili».
Il
testo
specifica
che
il
Vescovo
deve
aver
«posto
od
omesso
atti
che
abbiano
provocato
un
danno
grave
ad
altri»
e
che
tale
danno
«può
essere
fisico,
morale,
spirituale
o
patrimoniale».
In
tale
categoria
di
atti
rientrano
solo
quelli
di
“copertura”
dei
sacerdoti
pedofili
(semplici
trasferimenti
o
modifiche
d’incarico
per
chi
ha
commesso
tali
delitti,
mancata
tutela
dei
parrocchiani,
accoglimento
nella
propria
Diocesi
di
seminaristi
e
sacerdoti
dediti
a
tali
orrende
pratiche,
etc.)
o
anche
il
non
aver
dato
seguito
alle
denunce
per
pedofilia
(rectius:
violazione
dei
delicta
graviora
contra
mores)
o il
non
aver
svolto
le
doverose
indagini
canoniche
o
per
averle
“insabbiate”
disponendone
l’archiviazione?
Data
la
genericità
del
testo
propendo
per
il
far
rientrare
nelle
cause
gravi
di
rimozione
ogni
tipo
di
“negligenza”,
comprese
le
mancanze
in
materia
processualpenalistica.
Il
non
aver
dato
seguito
alle
denunce,
il
non
aver
svolto
le
opportune
indagini
o,
ancor
peggio,
l’averle
archiviate
senza
tener
conto
della
verità,
infatti,
provoca
indubitabilmente
un «danno
grave»
agli
altri
ed
in
particolare
ai
minori.
È da
segnalare
al
riguardo
quanto
è
stato
discusso
e
proposto
dalla
Pontificia
Commissione
per
la
Tutela
dei
Minori
ed
approvato
poi
dal
Consiglio
dei
Cardinali
per
aiutare
il
Santo
Padre
nel
governo
della
Chiesa
universale
e
per
studiare
un
progetto
di
revisione
della
Costituzione
Apostolica
Pastor
Bonus
sulla
Curia
Romana,
giornalisticamente
chiamato
“il
C9”,
nella
riunione
dell’8-10
giugno
2015
sulla
necessità
di
colmare
il
vulnus
dell’assenza
di
norme
nell’ordinamento
canonico
in
materia
di
accountability
dei
Vescovi
istituendo
(rectius:
esplicitando
o
ridefinendo)
il
delitto
di
“abuso
d’ufficio
episcopale”
consistente
nell’inadempienza
nello
svolgere
le
indagini
per
i
delitti
cum
minore
(ricordo
che
il
can.
1389
CIC
già
prevede
e
punisce
con
la
destituzione
il
generico
delitto
di
“abuso
d’ufficio”).
Tale
proposta,
secondo
quanto
riferito
dalla
Sala
Stampa
della
Santa
Sede,
era
stata
approvata
anche
dal
Papa.
Non
si è
quindi
ben
capito
se
il
Motu
Proprio
“Come
una
madre
amorevole”
si
sostituisca
o si
aggiunga
all’iniziativa
della
Pontificia
Commissione
per
la
Tutela
dei
Minori.
Se
il
Motu
Proprio
dovesse
essere
la
soluzione
definitiva
da
una
parte
evita
di
instaurare
il
più
garantista
giudizio
penale,
dall’altra
permette
di
intervenire
per
tutte
le
varie
tipologie
di
“mancanza”
d’intervento
a
tutela
dei
minori
e
non
solo
quelle
processuali.
Il
progetto
prevedeva
nello
specifico
che
a
ricevere
ed
esaminare
le
denunce
per
il
delitto
di
abuso
d’ufficio
episcopale
(fase
dell’indagine
previa)
dovevano
essere
le
competenti
Congregazioni
(per
i
Vescovi,
per
l’Evangelizzazione
dei
Popoli
o
per
le
Chiese
Orientali),
mentre
alla
Congregazione
per
la
Dottrina
della
Fede,
specializzata
nei
delitti
cum
minore,
su
mandato
del
Papa,
spettava
giudicare
penalmente
i
Vescovi.
Per
fare
ciò
veniva
autorizzata
l’istituzione
di
una
nuova
Sezione
Giudiziaria,
sotto
le
direttive
di
uno
specifico
Segretario
ed
utilizzabile
anche
per
i
processi
penali
per
l’abuso
dei
minori
e
degli
adulti
vulnerabili
da
parte
del
clero,
all’interno
della
Congregazione
per
la
Dottrina
della
Fede
e la
nomina
di
personale
stabile.
Ricordo
che
la
Pontificia
Commissione
per
la
Tutela
dei
Minori
è
stata
istituita
dal
Papa
nel
2014
con
il
Chirografo
Minorum
tutela
actuosa
«con
lo
scopo
di
offrire
proposte
e
iniziative
orientate
a
migliorare
le
norme
e le
procedure
per
la
protezione
di
tutti
i
minori
e
degli
adulti
vulnerabili.
Le
differenze
tra
i
due
testi
sono
evidenti:
in
quello
della
Pontificia
Commissione
si
prevede
un
nuovo
delitto
canonico,
si
dà
la
competenza
di
indagine
alle
competenti
Congregazioni
e
quella
di
giudizio
ex
delegatione
alla
Congregazione
per
la
Dottrina
della
Fede,
già
competente
in
tutti
i
casi
di
delitti
contro
la
fede
e
delitti
più
gravi
nella
celebrazione
dei
sacramenti
e
contro
i
costumi;
nel
testo
del
Motu
Proprio,
invece,
non
si
istituisce
alcun
delitto,
ma
si
specifica
la
giusta
causa
per
la
rimozione
(amministrativa)
dall’ufficio
–
prevedendo
la
relativa
procedura
- e
si
lascia
la
competenza
di
indagine
e
giudizio
alle
varie
Congregazioni
(estendendo
il
tutto
anche
ai
Superiori
Religiosi
ed
alla
rispettiva
Congregazione).
Il
primo
dei
dubbi
sull’attuale
Motu
Proprio
riguarda
la
discrezionalità
che
ha
la
competente
Congregazione
sia
nel
valutare
che
vi
siano
“seri
indizi”
di
negligenza
sia
–
soprattutto
–
nel
decidere
di
iniziare
o
meno
l’indagine
nei
casi
in
cui
ve
ne
siano.
Ovviamente,
una
scelta
di
tal
genere
è
stata
fatta
per
non
oberare
le
Congregazioni
di
indagini
ed
evitare
che
si
debba
intervenire
sulle
più
disparate
denunce
che
potrebbero
arrivare.
Ma
in
base
a
quali
elementi
la
Congregazione
(e
tendenzialmente
il
Congresso)
prenderà
la
decisione
di
avviare
(o
non
avviare)
l’indagine?
Sarebbe
stato
opportuno
–
salvo
un
giudizio
preliminare
di
verosimiglianza
delle
accuse
come
previsto
dall’art.
16
delle
Normae
sui
delicta
reservata
(cfr.
M.
P.
Sacramentorum
sanctitatis
tutela)
-
prevedere
di
iniziare
sempre
l’indagine
e
decidere
il
da
farsi
al
termine
della
stessa
con
l’emanazione
di
un
decreto
di
archiviazione
debitamente
motivato.
Un
secondo
dubbio
è
sulla
modalità
di
valutazione
di
quanto
è
stato
collazionato
dall’inquisitore.
Gli
atti
e le
testimonianze
raccolte
sono
da
ritenersi
prove
piene
solo
se
viene
rispettato
il
principio
del
contraddittorio,
senza
cioè
aver
permesso
all’accusato
di
prenderne
visione
e
difendersi
con
prove
contrarie.
In
caso
contrario
resterebbero
collecta
elementa,
senza
alcuna
dignità
di
prova
piena.
Il
documento
pontificio
non
specifica
cosa
avviene
nel
caso
in
cui
il
Vescovo
non
prende
visione
delle
prove
e
dei
documenti
e/o
non
si
difende.
Un terzo dubbio riguarda, invece, le tempistiche: entro quanto la
Congregazione
deve
iniziare
e
concludere
l’indagine?
Può
pensarsi
ad
un
periodo
passato
il
quale
viene
meno
l’interesse
a
“perseguire”
il
Vescovo,
come
una
sorta
di
“prescrizione”?
Il
rischio
di
non
indicare
nessun
tempo
massimo
è
che
si
potrebbero
ingenerare
lungaggini
(contrarie
al
diritto
di
difesa)
e,
perché
no,
favoritismi.
Il
quarto
dubbio
riguarda
il
“collegio
dei
giuristi”
che
affiancherà
il
Papa
nei
giudizi
definitivi.
Oltre
a
quanto
già
detto
sopra,
il
testo
pontificio
non
specifica
se
questi
giuristi
opereranno
in
maniera
stabile
o
saranno
nominati
di
volta
in
volta,
così
come
se
si
pronunceranno
oltre
che
sulla
legittimità
anche
sul
merito.
Nulla
viene
detto,
inoltre,
sulle
modalità
del
loro
lavoro.
In
particolare
né
quanti
saranno,
né
se
si
riuniranno
in
“turni”
o
tutti
insieme,
né
se
predisporranno
un
voto
collegiale
o
singolo.
Resta,
infine,
la
scelta
di
fondo
dei
provvedimenti
di
questo
ultimo
periodo:
l’abbandono
della
più
garantista
via
giudiziale
e
l’utilizzo
della
via
amministrativa
non
impugnabile
a
causa
della
decisione
pontificia
finale.
Va
detto,
tuttavia,
che
i
Vescovi
negligenti
(e
non
solo
per
aver
coperto
gli
abusi,
ma
anche
per
mancanze
pastorali,
economiche,
etc.)
sono
stati
e
già
ora
vengono
sostituiti
dai
Papi
utilizzando
metodi
“snelli”
ed
in
maniera
non
proceduralizzata
(eventuale
inchiesta
di
un
Visitatore
Apostolico,
intervento
d’autorità
del
Papa,
etc).
Questo
provvedimento,
pertanto,
è
quanto
mai
utile
nel
dare
certezza
al
diritto
e
nel
garantire
l’essenziale
diritto
di
difesa,
anche
se
sarebbe
stato
opportuno
e
più
utile
disciplinare
meglio
e
più
nel
dettaglio
tutti
i
vari
passaggi
della
nuova
procedura
senza
lasciare
nulla
al
caso
o
alla
prassi.