N. 95 - Novembre 2015
(CXXVI)
una tragica partita a scacchi
la lotta per l'egemonia in medio oriente
di Massimo Manzo
Era il 2011 quando sulla scia delle cosiddette primavere arabe anche la Siria sembrava sul punto di rovesciare il regime dittatoriale di Bashar Al Assad. Eppure, dopo più di quattro anni e un numero incalcolabile di morti e profughi, la situazione siriana è ancora al centro di tensioni internazionali dalle conseguenze imprevedibili, in grado di minacciare persino le capitali europee.
Il
brivido
di
terrore
che
ha
percorso
l’Europa
dall’efferata
strage
di
Parigi
è la
dimostrazione
di
come
le
schegge
impazzite
del
conflitto
siriano
siano
in
grado
di
colpire
a
migliaia
di
chilometri
di
distanza,
portando
la
guerra
in
casa
nostra.
Il
sedicente
stato
islamico,
longa
manus
degli
attentati
del
13
novembre,
è
infatti
nato
e
cresciuto
a
dismisura
proprio
in
conseguenza
del
caos
mediorientale,
che
vede
nella
Siria
uno
dei
suoi
epicentri
più
pericolosi.
Il
suo
sviluppo
è
l’effetto
collaterale
di
una
sordida
lotta
fra
stati
in
cui
potenze
regionali
si
contendono
sul
suolo
siriano
l’egemonia
del
Medio
Oriente,
riuscendo
a
condizionare
il
comportamento
di
superpotenze
come
USA
e
Russia.
Ma
chi
sono
gli
attori
di
questa
tragica
partita
a
scacchi?
Rispondere
è
essenziale
per
capire
alcune
elementari
dinamiche
con
le
quali
iniziare
a
orientarsi
nell’ingarbugliato
scenario
mediorientale.
E
nell’attuale
contesto
mediatico,
in
cui
l’overdose
di
cronaca
accorcia
i
tempi
della
riflessione,
riavvolgere
il
nastro
è
indispensabile.
Le
primavere
arabe.
Quando
nel
marzo
del
2011
la
popolazione
siriana
comincia
scendere
in
piazza
in
massa
contro
il
regime,
Bashar
Al
Assad
risponde
con
durezza,
utilizzando
la
forza
militare
per
reprimere
nel
sangue
la
ribellione,
che
in
breve
tempo
coinvolge
tutte
le
maggiori
città
del
paese.
L’insofferenza
dei
siriani
per
il
loro
governo
è in
realtà
parte
di
un
grande
movimento
sorto
un
anno
prima
in
tutto
il
mondo
arabo
e
ribattezzato
dai
media
occidentali
“Primavera
araba”.
Tale
movimento
è in
aperto
contrasto
con
le
leadership
autoritarie
di
molti
stati
del
Medio
Oriente
e
del
Nord
Africa,
dalla
Tunisia
di
Ben
Alì
all’Egitto
di
Mubarak,
fino,
appunto,
alla
Siria
di
Assad.
Contrariamente
a
quanto
divulgato
dai
media
occidentali,
il
fenomeno
non
è
semplicemente
una
lotta
per
ottenere
maggiori
spazi
di
democrazia,
ma,
più
in
generale,
una
protesta
nata
dalla
povertà
estrema
di
gran
parte
delle
popolazioni
arabe,
la
quale
ha
in
sé
una
fortissima
componente
tradizionalista
(influenzata
da
gruppi
islamici
come
i
Fratelli
musulmani
egiziani).
In
Siria
come
in
altri
paesi,
la
primavera
araba
è
anche
conseguenza
della
frammentazione
etnica
e
religiosa.
La
classe
dirigente
e lo
stesso
dittatore
sono
espressione
del
partito
Baʿth,
nato
negli
anni
’40
e
legato
al
nazionalismo
arabo
(laico),
le
cui
fondamenta
ideologiche
sono
messe
in
crisi
dalla
nuova
ondata
di
revanscismo
tradizionalista.
Bashar
Al
Assad
d’altronde
è
uno
sciita
in
un
paese
a
stragrande
maggioranza
sunnita
e il
suo
autoritarismo
nasce
da
una
esigenza
concreta:
mantenere
l’unità
statale.
Equilibri
a
rischio.
Figlio
del
dittatore
Ḥāfiẓ
Al
Assad,
al
potere
dal
1971
al
2000,
Bashar
ha,
come
il
padre,
amicizie
potenti,
pronte
a
spalleggiarlo
diplomaticamente
e
militarmente.
Con
la
sua
ostilità
allo
stato
di
Israele
e il
finanziamento
della
fazione
degli
Ḥezbollāh
in
Libano
e di
Hamas
in
Palestina,
l’Iran
sciita
vede
in
lui
un
alleato
prezioso
nella
sua
eterna
ambizione
egemonica,
soprattutto
da
quando,
caduto
il
regime
iracheno
di
Saddam
Hussein,
si è
instaurato
in
Iraq
un
governo
sciita
filoiraniano.
Oltre
all’Iran
c’è
poi
il
gigante
russo,
con
cui
Damasco
ha
strettissimi
rapporti
fin
dall’epoca
della
guerra
fredda.
Sul
fronte
opposto
i
principali
paesi
interessati
al
rovesciamento
del
regime
sono
la
Turchia,
l’Arabia
Saudita
e il
Qatar
(decisi
a
contenere
l’espansionismo
iraniano)
e le
potenze
occidentali
(Stati
Uniti,
Francia
e
Gran
Bretagna
in
primis),
che
supportano
i
ribelli
anti-Assad.
Mentre
lo
schieramento
“legittimista”
è
compatto,
però,
quello
dei
ribelli
è
diviso
in
una
miriade
di
gruppi
(per
gli
esperti
i
corpi
armati
sarebbero
addirittura
qualche
migliaio).
Curdi,
turcomanni,
ribelli
filoamericani
e
formazioni
islamiste
sono
tutti
in
spietata
concorrenza
tra
loro.
Per
farla
breve,
una
parte
dei
finanziamenti
occidentali,
dirottati
anche
attraverso
gli
alleati
dell’area,
finiscono
per
essere
gestiti
a
seconda
degli
interessi
di
questi
ultimi.
La
Turchia
ad
esempio,
fa
di
tutto
per
indebolire
i
curdi,
da
sempre
perseguitati
dal
regime
di
Ankara,
appoggiando
le
frange
di
opposizione
a
lei
più
vicine.
Terzo
incomodo.
A
complicare
le
cose
c’è
anche
una
terza
forza
in
gioco,
al
contempo
ostile
sia
alle
forze
di
altri
ribelli
(in
primo
luogo
i
curdi)
sia
all’esercito
governativo.
Si
tratta
dell’ISIS,
che
sotto
la
guida
dell’autoproclamato
califfo
Al
Baghdadi
occupa
militarmente
un
zona
posta
tra
Siria
e
l’Iraq
divenuta
nel
tempo
sempre
più
consistente,
fino
a
comprendere
oggi
una
superficie
di
250.000
km2.
Inizialmente
sottovalutati
e
strumentalizzati
(sia
da
Assad
contro
l’opposizione
che
dai
turchi
e i
sauditi
contro
lo
stesso
Assad)
i
terroristi
dell’ISIS
divengono
presto
una
minaccia
globale,
in
grado
di
perpetrare
atti
di
violenza
inaudita
“cedendo”
il
proprio
marchio
e
intessendo
pericolosi
rapporti
con
altre
formazioni
estremistiche
sparse
in
aree
come
la
Libia
e il
Mali
e
organizzando
attentati
che
arrivano
fino
al
cuore
dell’occidente.
Nonostante
la
coalizione
russa
e
quella
americana
effettuino
raid
aerei
contro
di
loro,
il
mancato
coordinamento
tra
le
forze
militari
e la
perdurante
divergenza
di
obiettivi
strategici
rende
la
lotta
al
Califfato
ancora
difficile.
Nel
frattempo,
come
un
mostro
famelico,
lo
stato
islamico
si
ciba
del
caos
della
guerra
civile,
approfittando
della
lunga
condizione
di
stallo
per
fare
proseliti
e
seminare
morte.
Nodi
irrisolti.
Dopo
i
terribili
attentati
di
Parigi,
avvenuti
mentre
sui
tavoli
diplomatici
di
Vienna
si
cercava
una
soluzione
alla
crisi
siriana,
la
Francia
ha
iniziato
a
svolgere
un
ruolo
di
raccordo
tra
i
russi
e
gli
americani
al
fine
di
moltiplicare
gli
sforzi
per
combattere
in
modo
più
efficace
il
Califfato.
Se
Francois
Hollande
lavora
per
raggruppare
attorno
a sé
una
coalizione
omogenea,
dall’altro
lato
stati
come
la
Turchia
continuano
a
giocare
la
loro
egoistica
lotta
per
l’egemonia
con
atti
spregiudicati
e
pericolosi,
come
il
recente
abbattimento
del
jet
russo,
che
ha
messo
a
repentaglio
i
rapporti
tra
Putin
e i
paesi
Nato.
Dal
punto
di
vista
diplomatico
i
nodi
da
sciogliere
sono
pochi,
ma
difficili.
In
primo
luogo
il
destino
di
Assad,
l’eventuale
durata
della
fase
di
transizione
successiva
al
cessate
il
fuoco
e,
più
in
generale,
il
riassetto
politico
della
Siria.
Nessuno
di
questi
problemi,
per
quanto
spinoso,
potrà
essere
risolto
senza
un
accordo
diretto
tra
la
superpotenza
americana
e
quella
russa,
che
abbia
la
forza
di
imporre
un
compromesso
tra
gli
stati
mediorientali
frenandone
le
smanie
egemoniche.