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N. 68 - Agosto 2013 (XCIX)

L’ESPRESSIONISMO CREATURALE DI VIANI
L’allegoria: ANALISI Di un’OPERa

di Francesco Diaco

L’opera analizzata, firmata dall'artista e scrittore Lorenzo Viani (Viareggio 1882- Ostia 1936), è composta da un dittico di incisioni su tavola, l’una costituente il verso, l’altra il recto. Il verso, di cui non ci occupiamo, è stato realizzato dopo alcuni anni rispetto al recto; esso raffigura un contadino e risulta cromaticamente più composito.

 

Allegoria (recto), 1905-1907 circa, incisione su tavola, 117 x 61.5 cm, collezione privata.

Opera esposta al Complesso Museale di Santa Maria della Scala di Siena in occasione della mostra

Arte Genio Follia, 31 gennaio/25 maggio 2009. L’immagine è presa dal relativo catalogo: Arte genio follia: il giorno e la notte dell’artista, Milano, Mazzotta 2009, p. 379.

 

Sul recto, le parti in nero appartengono al piano più esterno, alla superficie della tavola dipinta, mentre le zone color legno – un giallo scuro, un’ocra molto caldo – sono realizzate attraverso l’incisione, lo scavo nella materia. Un ampio e tragico fondo nero allestisce, dunque, l’ambiente della rappresentazione, suggerendo uno spazio orfano e vuoto, sotto il quale si muove un’umanità oppressa. Esso si estende soprattutto nella parte alta e destra dell’opera, per poi esaurirsi in due sottili cornici laterali.

 

La composizione determinata dalla forma e dalla posizione delle cinque figure ‘antropomorfe’, perciò, è fortemente sbilanciata verso il lato sinistro e si sviluppa lungo una diagonale alto-sinistra/basso-destra. La base, più larga, si restringe gradualmente, rastremandosi verso l’alto secondo uno schema ‘a triangolo rettangolo’, piuttosto che perfettamente piramidale. La luce circonda e unisce le figure, separandole dal fondo. Essa è come un manto che avviluppa e protegge ma nello stesso tempo isola e delimita. Si tratta di una luce teatrale, indirizzata e radente, che crea e delimita lo spazio scenico in cui si trovano i personaggi.

 

Lo stacco rispetto al fondo istituisce una cesura, un divario marcato, rilevato anche dalla profondità del solco. Il nero, però, è largamente utilizzato anche all’interno di ciò che potremmo chiamare il limen apotropaico, nelle superfici che sintetizzano i corpi e le vesti. Il ricorso a tonalità cupe, pur essendo in parte riferibile a un intento naturalistico e comunicativo (neri sono gli abiti indossati durante il lutto, nera è la Morte nell’iconografia tradizionale), è dovuto principalmente a una scelta espressiva ricorrente nell’artista: Viani, infatti, utilizza il nero in “impieghi casuali in quanto si identificano con l’oggetto d’uso […] con ciò puntando sulla ‘naturale’ capacità di questi vestimenti […] a esprimere il senso di tristezza, di scoramento, di rimpianti perpetui” (Paloscia).

 

Le linee di contorno, sempre presenti, di tratto spesso ed evidente, delimitano vaste campiture cromatiche, che possono ricordare la tecnica del cloisonnisme rievocata da Bernard e Gauguin. Sin dal primo sguardo emerge evidente un potente e talvolta morboso contrasto cromatico, ridotto all’elementare intensità di un’opposizione frontale, nero vs color legno (cioè, astraendo, nero vs bianco).

 

Il fortissimo contrasto cromatico è replicato e incrementato da un ulteriore contrasto stilistico e realizzativo, relativo cioè alla qualità della superficie: il piano esterno nero è compatto, omogeneo, come fosse una pennellata ben strutturata; l’ocra è invece materico, vivo, convulsamente lavorato, come fosse una pennellata virgolata.

 

Se si osserva l’opera da molto vicino, la riconoscibilità figurativa si perde in un labirinto di stratificazioni e solchi, linee e tratti. Pur consapevoli dell’evidente anacronisticità dell’affermazione, ci affascina la possibilità di riconoscere una componente quasi gestuale, di foga esecutiva, quasi vedessimo Viani nella sua azione, nei suoi colpi.

 

Tale componente va a unirsi alla consistenza materica, al rilievo realmente prodotto sul supporto. L’artista riesce così a esaltare le qualità peculiari del medium, valorizzando l’aspetto organico e pulsante dell’elemento naturale. L’incisione sulla sinistra, tra l’altro, può esser definita come “a legno di filo”, in quanto segue verticalmente l’andamento delle venature, il senso della fibra.

 

Tornando al discorso cromatico, dobbiamo precisare che, nonostante l’insistita opposizione binaria, Viani lascia che si percepiscano chiaramente i residui neri e superficiali anche nelle zone color legno, lasciando tracce sottili, linee accennate che formano un tessuto di schegge, tasselli irregolari che frammentano lo spazio e i corpi.

 

L’effetto è duplice: da un lato si realizza una effetto di omogeneità, di regolarità tissulare, di fitto ordito; dall’altra si propaga e si spande una vibrazione continua e inquieta, capace di coinvolgere anima e corpo dell’osservatore. È anche probabile che l’artista sia intervenuto con pennellate nere sugli strati già incisi, come si può inferire dalle più sfumate ombreggiature del cranio della personaggio identificabile come la Morte.

 

Rimane da enucleare una questione che sorge spontanea da quanto finora è stato detto: l’opera si risolve in una bidimensionalità bicromatica, nell’à plat delle vaste campiture, o viceversa riesce a rendere le tre dimensioni, lo spessore, la prendibilità dello spazio?

 

Si potrebbe rispondere che al nero del fondale – spazio assoluto, tragico e irreale- e a quello delle vesti corrisponda la bidimensionalità, con esiti talvolta decorativi; mentre il contrasto tra luce (legno) e ombra (nero) – rapido, improvviso, senza lumeggiature né sfumati passaggi chiaroscurali - e, soprattutto, la fisicità dell’incisione, dello scavo materico, rendono la profondità, scolpiscono i volumi e i piani, concentrando la luminosità sui volti e sulle mani.

 

Infine, notiamo che i tratti sono estremamente marcati, violentemente spezzati. Per queste caratteristiche di durezza sintetica si può accostare l’opera a certe xilografie Espressioniste, in particolar modo a Kirchner.

 

Le figure sono riassunte e fissate in un gesto, una smorfia, una cifra caratterizzante. Il tratto veicola, così, una forte carica espressiva ed emotivamente comunicativa. La deformazione esaspera i particolari, colpisce e distorce il cranio della Morte, il corpo della donna a sinistra, il mento della vecchia in basso, il grido del bambino; eppure i soggetti mantengono una loro monumentale austerità, una serietà che non si concede al risibile e al volgare, preservano una parvenza fiera e indomita, un piglio nobile. Riprenderemo tali cifre per spiegarle alla luce di un’interpretazione critica.

 

Iconografia

 

Sulla sinistra si erge, monolitica e ieratica, una donna che tiene in braccio un bambino (quasi certamente il figlio), statuaria come fosse la colonna portante della composizione. La donna ha l’arto rigido, piegato duramente ad angolo retto; sull’avambraccio si susseguono alcune linee spezzate, sviluppate nel senso dell’orizzontalità; dal braccio si dipartono sottili linee verticali, eleganti raggi leggermente convergenti verso l’alto, esili scanalature che formano un fascio ritmico e decorativo. Esse rappresentano le pieghe di un lungo abito nero, elemento iconografico carico di riferimenti e memorie che spaziano dal lutto alla toga antica fino al paramento liturgico.

 

Tale linearismo evidenzia il gotico e nobilitante allungamento della sagoma in senso longitudinale. Il volto, visto di tre quarti, è altamente espressivo nella sua drammaticità e conserva una primigenia fierezza: gli occhi vuoti, cornee cave prive di pupilla, sono scavati, messi in risalto dal veemente e spesso contorno nero; il mento è rialzato, lo sguardo è rivolto verso il cielo in un atteggiamento misto di implorazione speranzosa, protesta lancinante, ispirazione mistica.

 

Le sopracciglia convergenti verso l’alto, al centro – come in chi chiede ma con fermezza, senza umiliarsi, senza perdere dignità – introducono un elemento di pateticità scevro, però, da qualsiasi sentimentalismo paternalistico. Le labbra sono carnose, rigide, sintetizzate dal segno in rilievo; l’ombra posta sotto il mento suggerisce un senso di profondità.

 

Ponendo l’attenzione sul capo, forse coperto da un velo, notiamo una cesellatura di linee curve che suggeriscono l’ondeggiare di chiome increspate, la mobilità di capelli lunghi e ricci. Siamo, dunque, in presenza di un efficace sistema di trascrizione della natura in arte, di un codice di trasmutazione basato sull’astrazione e sulla semplificazione che ricorda il linearismo jugendstil. Le mani – ed è un tratto che accomuna tutti i soggetti raffigurati nella tavola – sono sproporzionate, irrealistiche, lontane da una trascrizione mimetica. Le dita sono estremamente oblunghe, affusolate ma compatte, come legnosi segmenti paralleli.

 

In una posa innaturale che potrebbe riprendere stilemi di Maternità gotiche, la donna – abbiamo detto – tiene in braccio suo figlio. Il volto del piccolo è presentato di tre quarti, ma con una prospettiva divergente rispetto a quella del volto materno (nel complesso, si ha una celata ma riscontrabile frammentazione prospettica).

 

Il corpo, invece, è pressoché frontale, un bozzolo rigido costruito da un contorno “a fuso” terminante, al fondo, in un fiocco; un blocco cadenzato e ritmicamente ripartito dalla serie di fasce sovrapposte. Calvo, un occhio accigliato e stretto in una smorfia, l’altro quasi inesistente; il naso deformato, aggettante verso il basso, la bocca nera e discendente, sconvolta da uno strillo; una mano avvicinata alle labbra in un gesto naturalisticamente veritiero, l’altra tesa e aperta forse allegoricamente tenta allontanare il terzo personaggio.

 

Al centro è posta una figura che credo di poter interpretare come la personificazione della morte. La grande campitura nera posta in basso rende, però, difficile capire who’s who, percepire le distinzioni, stabilire i confini tra i corpi (vedremo che, secondo alcuni filoni interpretativi, è plausibile si tratti di un accorgimento consapevole e programmatico). Infatti, la linea del bavero della Morte coincide con la linea che disegna la spalla del soggetto successivo.

 

Il volto è, ovviamente, un nudo teschio visto frontalmente, una maschera repellente e angosciosa. Il cranio glabro, esaltato dalla spessa e marcata linea di contorno, è terribilmente deformato in lunghezza, con l’occipite ribaltato anteriormente; il bavero è alzato, in una posa vagamente misteriosa e maudit; la bocca è dischiusa in una sorta di risolino sadico e duro, inflessibile e distaccato; i tratti sono spigolosi, gli zigomi sporgenti.

 

Ci pare utile, ora, introdurre alcuni rimandi all’opera narrativa di Viani. In Parigi, un suo romanzo, riscontriamo infatti frasi sorprendentemente conformi al suo immaginario figurativo: “ il cranio era d’avorio diacciato dalle ventate e superava in bianchezza la neve”. Le ossa delle tempie sono segnate da due ombreggiature, da un chiaroscuro insolitamente sfumato. Le orbite cave, il bulbo oculare vuoto, sono riassunti in due zone di nera ombra (solo l’occhio sinistro è accennato. Gli occhi oscuri sporgono minacciosi e inquietanti, anche per il rilievo materico, rivolgendosi anche all’osservatore.

 

Tale effetto percettivo è da ricondurre, oltre che all’aspetto cromatico, al valore psicologico insito nei codici segnici: in questo caso le due linee acute, spezzate e inarcate, si caricano di una connotazione torva e arcigna. La mano, che emerge sulla destra, è inesorabile e fredda, unghiata e mostruosa. Essa con violenza metallica, con implacabile brutalità, le ultime due figure, collocate in basso a destra. La Morte sembra, infatti, piegata nell’atto di afferrarle: si sporge in avanti come per condurle via con sé.

 

Queste ultime figure rappresentano, probabilmente, un uomo di umile condizione, ormai maturo, e l’attempata madre. Il marinaio-contadino-muratore è assimilabile alla figura del vàgero, centrale in Viani pittore e narratore, di cui riparleremo. Le sue spalle sono larghe ma provate dal logorio quotidiano, curvate dalla fatica di un lavoro pesante e frustrante; il braccio sinistro che protegge l’anziana genitrice pare cadente, stanco; la pesante mano è nodosa e segnata dall’usura, con le nocche prominenti. Il collo possente, la cui forza è accentuata dalla tensione del suo sporgersi in diagonale, è reso corposo dal contrasto chiaroscurale e dai profondi incavi nella materia. Intuiamo il sesso del soggetto, oltre che dalle caratteristiche somatiche, grazie al pomo d’Adamo; il naso è adunco, geometricamente schematizzato.

 

Nel complesso la figurazione appare la più sintetica e sommaria, quasi ridotta a solidi geometrici, squadrata come il marmo delle Alpi Apuane – “geologia dura, compatta, impenetrabile ed eterna” (Signorini) – dura come la frusta esistenza dei minatori versiliesi, temi familiari all’artista viareggino.

 

Sopra la testa indoviniamo un berretto, nero sul lato sinistro, perché in ombra, chiaro nel resto della sua estensione. Il volto, pertanto, è quasi visto di profilo, da sinistra, ma riceve illuminazione frontalmente: la stretta fessura del viso – intenso ed esausto – che intravediamo a destra del naso, perciò, risulta completamente in ombra. La bocca semiaperta, ansante, abbruttita dalla deformazione, emette come un gemito rassegnato, una lamentela sommessa di sconfitto. Gli occhi sono ridotti a due tagli, le ombre lunghe scendono segnano di scuro le guance. Riassumendo, una luce piena luce colpisce la parte bassa del mento, il naso e le labbra, la fronte e la guancia sinistra.

 

L’ultima figura è di nuovo femminile e vista di tre quarti: una vecchia madre ormai rimpicciolita, rinsecchita da una età prossima al trapasso. Si tratta di un’anziana vestita a lutto, come ancora è possibile scorgerne nel Sud Italia; la mano è giunta all’altra (non rappresentata) in atto di preghiera, forse in suffragio dei cari ormai defunti cui ella si ricongiungerà presto, o forse rivolta alla Madonna.

 

Le dita sono molto scavate e allungate attraverso l’operazione di distorsione cui abbiamo già fatto riferimento. Il suo corpo si confonde nel nero del corpo del figlio e della Morte. Perciò, è il fruitore a dover immaginare i particolari assenti, a ricostruire mentalmente l’integrità della figura a partire dai pochi tratti essenziali raffigurati. Il mento è prominente, il volto è smagrito e asciutto.

 

Nella cornea sinistra si intravede una piccola allucinata pupilla, ancora più angosciosa in quanto assente nell’occhio destro. La bocca non esiste; il naso è reso, con taglio eloquente, da due linee nere parallele.

 

Analisi critica

 

Terminate questa prime due sezioni introduttive – la prima dedicata alla costruzione formale dell’opera, la seconda al riconoscimento iconologico – non resta che indagare le ragioni storiche ed esistenziali, le matrici ideologiche ed epocali, la poetica personale che hanno dato vita a questo esito, manifestandosi compiutamente nella concretezza plastico-figurativa dell’opera.

 

Tutti i soggetti qui presentati si inseriscono pienamente al centro dell’iconografia tipica, della produzione immaginativa del viareggino: la donna rimanda alle solitarie “vedove del mare” degli anni 1912-1915 (“sulla cima del molo, ma solamente l’inverno, si danno convegno le donne dei marinai e dei pescatori, quelle possenti statue di pece, imbacuccate nei teli monacali, con la chiocciata dei figli attaccati alle gonne e quelle piccole in collo”); scene di maternità sono variamente attestate; ai bambini l’artista dedicò particolare attenzione negli anni di Montecatini1919-1923.

 

L’ossessione per la Morte, poi, emerge dalle parole di Viani stesso come nata già durante l’infanzia, una pulsione che pervade interamente il suo kunstwollen: “questa specie di chiodo fisso non mi è stato possibile toglierlo dal cervello. Intorno alle mie figure non aliterebbe sempre questa morte? A me sembra di sì. Credo che passino tutte le mie visioni d’arte attraverso questo antro buio del mio cervello e ne assumono il colore e l’intonazione”. Si veda, a titolo di esempio, Il dittatore 1906-7. L’uomo, ancora, può appartenere alla categoria dei vageri, “uomini di bordo rotti a tutti i perigli e a tutte le navigazioni, gente d’onore e di rispetto”; cioè, in senso lato, a tutti i “ vagabondi terrazzani” ben attestati nell’idioletto di Viani: “chiuso nel mio studio della Camera del Lavoro di Viareggio, contornato da bandiere nere, vermiglie ed eroiche, giuravo a me solo sulla mia volontà indomabile sola […] che quanti avevano lasciato sui sassi della strada o sulle spine della siepe un brandello della loro carne, e nell’officine un fiore della loro giovinezza, o nel carcere un soffio di un vasto affetto umano, dovevano aver la gloria in una ferma visione di comune dolore e di comune terrore”.

 

Contestualizziamo, ora, l’opera con maggiore precisione. Come si evince da quest’ultima citazione, Viani era un’artista “impegnato”, che lavorava mantenendo sempre una stretta relazione con la situazione sociale, col contesto politico-economico in cui viveva: “l’anarchismo coronato di fiamme riscaldò la mia anima […] l’entusiasmo della rivolta e della distruzione”.

 

Troviamo l’artista – un giovane e fervente militante di umile origine – in prima linea in tutte le battaglie combattute dal movimento operaio in Versilia, ad esempio a capo di varie rivendicazioni sindacali: “ non c’è agitazione nella fascia apuo-tirrenica che non lo veda presente, e spesso tocca a lui tenere comizi alle manifestazioni e intervenire negli scioperi” (Sereni).

 

Frequenta il gruppo anarchico Delenda Carthago, conosce Roccatagliata Ceccardi, Pea, Deledda, Ungaretti, Gori; legge con entusiasmo autodidatta Marx, Bakunin, Zola, Hugo, l’Unico di Stirner, Michelet, poi Nietzsche. Direi che l’atteggiamento di Viani possa essere ricondotto nel più vasto ambito del ribellismo piccolo-borghese che si diffondeva, anche tra molti artisti, agli inizi del Novecento: per esempio, egli celebra le gesta di Cipriani (un anarchico romagnolo) e si esaltava alla notizia di attentati.

 

È ardente, colmo di slancio, “mazziniano e risorgimentale […] oscillante quindi tra un individualismo incendiario, e propositi umanitari […]; tali suggestioni, date anche le condizioni ambientali, non lo allineano certo con il socialismo legalitario […] ma lo spingono a un costante stato insurrezionale – ciò che contava […] era l’atto rivoluzionario, di qualsiasi natura fosse; appunto la teoria dell’azione del Cipriani, la rivoluzione come fatto emotivo” (Signorini).

 

Egli, cioè, non si inquadra nella prospettiva storica e organizzativa di un partito, ad esempio di quello socialista; anzi, egli rifiuta qualunque paternalismo, disprezza il riformismo graduale e moderato, ritenendo che solo l’atto violento, la rottura completa e improvvisa possano sollevare le dure condizioni in cui versavano le persone sfruttate sotto i suoi occhi. Questi sono anche i temi trattati dal Viani scrittore nei suoi romanzi: Parigi, Gli Ubriachi, I Vageri, Angiò uomo d’acqua.

 

Pittoricamente, egli si è formato con l’anziano macchiaiolo Fattori e col divisionista Plinio Nomellini – altro pittore particolarmente sensibile alle questioni sociali. Il linguaggio di Viani, all’altezza cronologica 1905-1907, ha, però, già maturato una certa autonomia.

 

Egli comprende che, per veicolare con efficacia le proprie idee, non può più servirsi di un patetismo naturalista indulgente alla compassione, né di un bozzettismo dialettale: “in un certo senso è proprio la lingua che crea i contenuti, li cointesse nella struttura, gonfiandosi, spezzandosi, colorandosi.

 

La specificità dei temi che Viani tratta sta esattamente, in primo luogo, nel modo in cui il linguaggio li dipinge, li fa emergere, li anima” (Ortolani). Dal 1908 al 1910 – quindi dopo la composizione dell’opera analizzata – Viani soggiorna a Parigi; si sposta, cioè, da un luogo periferico al principale centro culturale mondiale, al fulcro della modernità.

 

Proprio per questa ragione – seguendo i consigli metodologici di Crispolti – pur accennando alcuni parallelismi, non discorreremo compiutamente delle relazioni, suggestive ma da verificare, che si potrebbero creare tra Viani e i Fauves, il contemporaneo gruppo Die Brucke, i caricaturisti e grafici Forain, Galantara, Steinlen, i vari Ensor, Meunier, Van Dongen, Munch, Kokoschka, Toulouse-Lautrec, Rouault, Daumier, etc.

 

Con un’ulteriore precisazione: “non che non abbia avuto degli incontri, e li ha avuti proprio con gli artisti che si sono detti, e non ne abbia tratto tutti i vantaggi che se ne potevano sperare, ma non li ha cercati. Una volta trovati, non li ha inseguiti, non se ne è fatta una bandiera” (Masciotta).

 

Potremmo, dunque, parlare per Viani di espressionismo (“sociale e visionario” secondo Ciccuto) come categoria critica, senza però far diretto riferimento all’Espressionismo tedesco inteso come movimento definito quanto a cronologia, collocazione geografica, gruppi riconosciuti (ad esempio, il Die Brucke), esponenti individuati.

 

Non bisogna però dimenticare che nel 1907 il giovane viareggino aveva esposto alla Biennale di Venezia i Dispersi e gli Ossessi, opere che ci spingono alla valutazione di una certa, seppur minoritaria, componente decadente: “ un’umanità da sottosuolo che filtra dai lidi del simbolismo europeo, il satanico e il visionario, il repellente, il luciferino, l’inconscio” (Signorini).  

 

Consideriamo ora alcune questioni che riguardano da vicino la nostra opera. In primis, si tratta appunto di un’incisione: “come tutti gli espressionisti veri, Viani si dedica anche all’arte incisoria: il suo corpus grafico è vastissimo […] è la tecnica che meno di ogni altra si lascia cogliere dalla tentazione d’una rappresentazione naturalistica” (Ortolani). È, in altri termini, la tecnica che più di ogni altra induce, per la durezza del materiale, a tratti rotti, a crudezze dirompenti e spigolose.

 

Relativamente alla bicromia, l’artista stesso confida: “Se prepari un nero sei costretto a definirti; il nero vuol essere ben impostato. I celesti, i blu, gli smeraldi, gli ametisti, i colori vistosi sono ingannevoli; parlano della nostra sensualità. Il nero, il colore austero, è materia prediletta del costruttore; è forza-sostanza delle cose e circoscrive in una figura geometrica la nostra visione”.

 

Molto complessa, poi, è la spiegazione delle ragioni plurime che motivano il ricorso alla deformazione, ma probabile è anzitutto un legame alla costruzione geometrica appena ricordata: “nei suoi quadri […] i colori sono gridati sulla tela a grandi campiture, larghe masse, sintesi audaci. La figura umana […] subisce deformazioni convulse, esasperate: lo scheletro si gonfia, il cranio si allunga, le orbite si infossano, gli occhi sono feritoie, le articolazioni si protendono […] tutto il corpo umano urla, in una tensione formale continua tra superficie e volume” (Ortolani).

 

Della centralità di tale procedimento ci informa direttamente Viani: “l’artista deve essere sproporzionato, solo a questo patto egli sarà eloquente. Io, perciò, ho sempre pensato che la caricatura sia la forma più profonda dell’arte; chi non ha in sé questo sguardo compenetrante delle eccezionalità delle cose, non può essere artista”.

 

Si tratta di un’istanza anti-borghese, anti-intellettualistica, anti-estetizzante; la sintassi compositiva, così come quella verbale nei suoi romanzi, deve essere stravolta, distorta: “le difficoltà erano per me il superare tutte le leggi borghesi, distruggerle, rinnovarle”, in arte come in politica. Scrive Baioni a proposito di Kafka, “espressione ideologica di un potere che usa il linguaggio come strumento di sudditanze e di subordinazioni, la parola rappresenta così […] la sfera delle dipendenze e dei rapporti alienati ” mentre la “gestualità disperata e grottesca, ribadisce sia la muta angoscia di una condizione umana che la parola consunta dall’istituzione borghese non è più in grado di interpretare, sia lo sgomento sordo e inclemente di un mondo ormai privo di significati nel vedersi improvvisamente confrontato con una verità che ha tenuto nascosta dietro la maschera della propria ideologia”.

 

Seguendo questa interpretazione dell’espressionismo come rivelazione di una dura verità sotto il velo menzognero delle visioni accettate, citiamo Ortolani: “la categoria del grottesco […] assume per lui [Viani] la fondamentale funzione di viatico per mezzo del quale il suo atteggiamento di rivolta e di denuncia si realizza e si rende immediatamente visibile”; “questa funzione disvelante […] è in un certo senso una funzione storica. La satira […] ha da sempre assunto il compito di mostrare, attraverso il ribaltamento della norma, quegli aspetti della realtà altrimenti esorcizzati”; egli così “si assume il compito di dis-velare, de-mistificare il reale, rovesciandolo, allucinandolo, decostruendolo”.

 

Sempre Ortolani fa riferimento al capitale lavoro di Bachtin su Rabelais per evidenziare il legame tra satira, carnevalesco, cultura popolare, polifonia e critica sociale, espressioni di una “funzione rigeneratrice dal basso, oppositiva alla lingua della cultura alta, ed efficace nel contrapporsi […] agli stereotipi mistificanti del potere”. Tale “ grimaldello per scardinare le porte dell’apparenza” attua uno smascheramento delle finzioni, additando la recita, rivelandone la farsesca inautenticità: è impossibile non pensare a Ensor (ma per certi versi anche a Pirandello), alla mostruosità di una società perennemente mascherata). Il meccanismo, però, è intrinsecamente paradossale, dato che una deformazione ne denuncia un’altra come nota acutamente Domenichelli: “la satira […] mette la maschera carnevalesca, folle, abnorme, e, con ciò, reale, materiale per sconfessare l’altra maschera, quella della norma, di legge e codice”.

 

Tuttavia, per quanto lo spunto di Ortolani sia sicuramente da tenere in considerazione, non ci trova però del tutto consenzienti a una proiezione meccanica delle categorie bachtiniane su Viani. Il carnevalesco, infatti, costituisce una mentalità ben definita storicamente, tipica di quel momento del Rinascimento in cui cultura popolare e cultura dotta si incontrano in Rabelais, nella sua gioiosa teoria del gigantismo, nei suoi corpi enormi e nei suoi pasti sproporzionati, in un ribaltamento festoso delle gerarchie.

 

In Viani, uomo nato vari secoli dopo, rimane poco di quel clima, sopravvissuto solo come residuo in seguito alla Controriforma; la sua caricatura sarebbe giudicata intellettuale e astratta da Bachtin, in quanto separata da quella seconda vita, da quella teoria della storia. Semmai, potremmo collegare la deformazione alla carica di protesta ed eversione che l’artista immette nelle proprie opere, a un violenza di denuncia polemica che potrebbe leggersi con le lenti degli scritti psicoanalitici di Ernst Kris sul riso (pur precisando, come diremo ancora, che tali tratti valgono più per gli espressionisti tedeschi o, in seguito, per gli artisti della Nuova Oggettività quali Dix e Grosz, che per Viani).

 

A proposito del rifiuto avanguardistico del Verismo sociale, della riproduzione immediata e fedele, può essere proficuo un rapido richiamo alla tesi espressa da Worringer in Astrazione e Empatia, 1908, fondamentale per spiegare la progressiva acquisizione di autonomia formale e costruttiva compiuta dall’arte contemporanea.

 

Riassumendo, l’arte propenderebbe alla mimesi, alla raffigurazione riconoscibile, quando l’uomo si percepisce in simbiosi armonica con l’universo, quando si ha, appunto, empatia, corrispondenza fiduciosa, confidente dialogo, vibrazione all’unisono; viceversa, si tenderebbe all’astrazione nel momento in cui prevale lo iato, la frattura, l’incomunicabilità disorientata, la separazione incolmabile, l’angoscia dell’orfano.

 

Scrive Contini su Pascoli (e bisogna notare che molti dei riferimenti riportati sono delimitabili in un arco cronologico abbastanza ristretto): “quando si usa un linguaggio normale, vuol dire che dell’universo si ha un’idea sicura e precisa, che si crede in un mondo certo, ontologicamente molto ben determinato […] dove i rapporti stessi tra l’io e il non-io, tra l’uomo e il cosmo sono determinati, hanno dei limiti esatti, delle frontiere precognite. Le eccezioni alla norma significheranno allora che il rapporto fra l’io e il mondo […] è un rapporto critico […] è caduta quella certezza assistita di logica”.

 

Tuttavia, se andiamo a guardare con più attenzione la lettera delle enunciazioni programmatiche, delle esplicitazioni di poetica dell’epoca, scopriamo un rapporto più complesso tra espressionismo, come stravolgimento e deformazione, e realismo, come aderenza all’essenza dell’esistente.

 

Annota Viani: “non penso che la mia sia arte sociale nel senso gretto della parola, può essere, mi lusingo che sia, nel senso vasto della parola solamente. Evito sempre la composizione e la cronaca”; e altrove: “per me realismo è un senso profondo delle cose, poesia che pulsa e solleva le apparenze per rivelare la vita”.

 

In ultima analisi, perciò, l’allontanamento dall’impressione superficiale delle cose si configura come una ricerca della loro verità più profonda, come una fedeltà a un intento realista spinto fino alle estreme conseguenze, oltre il mero dato percettivo visivo. Secondo Ortolani, “il mondo di Viani è il suo ‘modo di vedere il mondo’, di ricrearlo”; un mondo “trasfigurato, drammatizzato, martirizzato, fino a ottenere da esso quelle verità non apparenti che pure ne sono l’essenza”.

 

È necessario, dunque, ripulire l’immagine dagli orpelli superficiali, dai particolari ininfluenti, così come il Viani adolescente scopriva il vero volto dei clienti radendone la barba: “soltanto uno che ha sbarbato la gente può conoscere gli uomini”. Significativamente, l’operazione compiuta dal viareggino collima con quelle tipiche dell’Espressionismo.

 

Leggiamo Eschmid: “una casa non è più un oggetto, non più solo pietra […] si cerca tanto più a lungo nella sua essenza autentica fino a che si attingerà la sua forma più segreta, fino a che sorgerà la casa […] anche a spese della somiglianza esteriore”.

 

Sulla stessa lunghezza d’onda De Micheli, che così parla dell’Espressionismo: “visione purificata dagli accidenti deteriori, […]l’urgente istanza a colpire il centro della realtà, a non restarne alla periferia, veniva da una giusta reazione verso l’arte ufficiale, epidermica per costituzione; veniva per contrasto verso un impressionismo sempre più esteriore. Si trattava di premere sulla realtà perché da essa ne sgorgasse il latente segreto. In questo premere è l’origine tipica della deformazione espressionista”.

 

Non si tratterebbe, dunque, come spesso è stato affermato, di un’interiorità prepotente che piega a sé il mondo espandendosi, bensì di una visione interiore attinta “ ex natura rerum […]; tale soggettivismo è anche messo al servizio dell’accentuazione della verità contenuta nella situazione del reale”.

 

Ci pare, però, essenziale ricordare che i criteri critici con cui comprendere e valutare le opere del passato non possono essere desunti tautologicamente dalle poetiche che le hanno create e supportate. In altre parole, per quanto sia importante esaltare queste autodefinizioni dell’Espressionismo come Realismo ulteriore (formulazione che paradossalmente ricorda il pur lontanissimo Lukacs, quando contrapponeva il grande Realismo al Naturalismo fotografico), è innegabile che l’esito concreto, nella materialità delle enunciazioni figurative, si presenta come una rottura (non un semplice tendersi) di quell’elastico con cui potremmo figurare il campo, lo spettro, che il senso comune riconosce come realismo.

 

Si tratta di un elastico teoricamente indifendibile, eppure dotato di un suo valore pragmatico, persino banale: la Verità del Reale può certo essere lontanissima dalle apparenze, ma lo stile che la raffigura attraverso una forte distorsione della percezione non potrà, per questo, dirsi mimetico o realistico; anzi, spesso il soggettivismo, espunto dall’iconologia, dal contenuto ‘oggettivo’ e impersonale, si annida – tanto più potente quanto più nascosto e teoricamente negato – a monte, cioè nel linguaggio stesso, nella forma dell’espressione, idoletto privato o di gruppo, non langue collettiva e riconoscibile.

 

Come risvolto formale del fenomeno appena discusso (cioè la deformazione come svelamento dell’essenza), si può rimandare a Ortolani, il quale nota come la tendenza espressionista all’ “urlo originario”, all’iperbole di protesta, al grido primitivo che rifiuta le convenzioni di una cultura fallimentare (definito da Luzi “grumo di non accettazione del mondo”), si congiunga a una forte tendenza a sintesi, semplificazione, riduzione a ‘geometria’, in quanto “si cerca nelle forme apparentemente semplici, ma in realtà cariche di tensioni che vengono solo suggerite, il modo di esprimere ciò che non affiora alla superficie”.

 

Dovessimo, concludendo le riflessioni sull’ espressionismo di Viani, instaurare alcuni rapidi confronti, diremmo forse che il viareggino ci pare più emotivamente coinvolto e meno retorico di Meunier, meno torbido di Munch, e lontano da Kirchner in quanto la deformazione di quest’ultimo spesso regredisce i propri soggetti a un’animalità abbrutita, a una ferinità meccanica.

 

Nel macrotesto del viareggino, invece, la figura umana – e il sentimento di umanità – si pone, incontrastata, quale centro gravitazionale privilegiato, punto focale imprescindibile. Scrive Masciotta: “queste sue inclinazioni sono sempre derivate dalla commozione che lo spettacolo del mondo gli offre e dalla pietà […] per gli uomini […], dall’aderenza a tutto quello che di impervio presenta la natura […]; ritraeva quei tipi [...] con la pietà che gli espressionisti tedeschi non hanno mai sentito per i loro personaggi […] il suo espressionismo è nell’accettazione del reale, non nella sua negazione […] l’asprigno talvolta si riduce fin quasi a placarsi in una stesura raddolcita”.

 

Abbiamo sinora delineato l’accostamento, e lo scarto, tra Viani e il Naturalismo, tra Viani e l’Espressionismo. Avevamo, però, anticipato che anche il Decadentismo e il Simbolismo giocano in lui un ruolo non trascurabile, soprattutto nella sua produzione giovanile.

 

Si era riscontrata tale influenza a proposito dei disegni del 1907; scrive, in merito, Signorini: “un simbolismo pure coltivato, ricco di legami e interferenze; fondamentalmente però protestatario […] è il momento del furore incontrollato […] che gli umori simbolisti caricano di allucinazioni e letterarietà”.

 

Inserita in tale parabole, allora, ci sembra che sia possibile leggere l’opera Allegoria come un importante momento di svolta: qui Viani si libera dalla morbosità e dall’estetismo, pur assimilandone alcuni elementi che andranno a formare il suo vocabolario personale; qui Viani supera il Decadentismo utilizzandone gli strumenti espressivi per veicolare un messaggio di impegno civile.

 

Siamo di fronte a uno snodo culturale, tra la lunga scia del tardo Decadentismo e l’irruzione delle novità novecentesche (Avanguardie e Modernismo), che Luzi riassume perfettamente in questa frase: l’Italia, “proprio quando si affermava il pregiudizio che, satura di cultura, non potesse dare più nulla che non fosse viziato dall’estetismo, in Viani, in Tozzi, in Rosai mostrava di non poter far sue le ragioni liberamente formali dell’arte né speculare in astratto sul linguaggio della creazione”.

 

Quali, dunque, gli elementi dal sapore fin de siècle? La morte, ad esempio, che è una presenza costante tra fine ‘800 e i primi del ‘900 (Redon, Klinger, De Maria, Klimt, etc), così come la Maternità (divisionismo italiano, Segantini, Previati, o ancora Klimt).

 

Permangono, poi, alcune eredità formali: il raffinato bicromatismo che riporta la memoria al decorativismo delle stampe giapponesi, a Beardsley e Valloton; la sinuosità Jugendstil dei capelli della donna; la composizione dei gruppi di personaggi sviluppata in senso verticale, come in molti quadri di Klimt; l’eleganza del ritmo che scandisce religiosamente la lenta e cadenzata processione delle figure.

 

Ortolani scrive: “egli deve alla grafica Liberty l’uso della linea come limite e contorno, come sintesi della struttura delle forme […]; proprio nell’estenuato ritmo grafico delle creazioni Liberty troviamo i rimandi diretti di certe sue forme (soprattutto nella grafica, nelle incisioni e nelle xilografie) nelle quali si fonde la drammaticità delle linee gotiche, allungate, spigolose, con un’essenzialità prosciugata, una sintesi quasi da arabesco”.

 

Nonostante ciò, a nostro parere a prevalere sono i segni di modernità novecentesca. Il titolo stesso dell’opera, Allegoria, si ricongiunge a quanto precedentemente esposto con riferimento a Worringer: tra uomo e natura non è più data continuità, non si odono correspondences sussurrate da boschi familiari, non si danno intuizioni immediate, l’universale non è più insito nel particolare, nessuna epifania rivela la Verità.

 

La modernità è il regno dell’allegoria, della faticosa costruzione di risposte, della difficile ricerca di senso smarrito. Per questo, l’indagine di Viani è lucida, combattiva, collettiva; sebbene agli inizi eccessivamente fiduciosa in un avvenire messianico, la sua proposta non ha nulla di fumoso ed esoterico.

 

Tipico di questo atteggiamento allegorico – a cui, di nuovo, è riconducibile la deformazione, come straniamento antinaturalistico – è un duplice movimento, di rottura e di tensione alla ricostruzione. Come in numerosi membri delle Avanguardie – o, forse meglio, soprattutto del Modernismo, se ricordiamo come molte Avanguardie si siano fermate alla pars destruens incendiaria – coesistono in Viani una pulsione di forzatura deflagrante, di esplosione palingenetica, e una prospettiva di rinascita, un progetto di società rinnovata.

 

Scrive Viani: “da elementi frammentari voglio che l’osservatore ricostruisca in cuor suo il significato animatore dell’opera. Come da macchie di colore discordanti voglio creare un’armonia”; o ancora, quasi programmaticamente: “deformare per armonizzare – decomporre per ricostruire”.

 

L’equilibrio strutturale, l’ordine compositivo, riscattano – anche nella nostra opera – la frammentazione dilagante. La spinta alla frantumazione si registra a partire dalle microstrutture (linee spezzate, tratti duri, schegge lignee) per arrivare alle macrostrutture (dimensione spaziale, prospettiva).

 

Tali cifre stilistiche sono rispecchiamento (o, nel lessico di Bourdieu, rifrazione) della realtà introdotta dalla modernità: a essere lacerate e dilaniate sono la società – divisa in monadi individualiste, arriviste, reciprocamente estranee e ostili, priva di un tessuto connettivo –, la psiche, l’esperienza – ridotta a una serie di choc incoerente e scomposta, come ricostruito da Benjamin nel suo studio su Baudelaire –, i modi di produzione – l’alienazione, la catena di montaggio che nega l’unitarietà organica del lavoro artigianale. La deformazione, perciò, è anche mimesi dell’orrore della società capitalistica moderna.

 

Viani, dunque, avverte acutamente il dolore del presente. L’accostare il bambino piangente alla Morte significa connotare la vita come esperienza segnata costitutivamente dalla sofferenza. Un dolore, però, di natura prevalentemente non metafisico-esistenziale, cui ci si abbandona con impotente fatalismo, bensì una miseria provocata soprattutto dalla storia, un’indigenza che ha cause terrene ben individuabili, responsabili da giudicare, un contesto da modificare radicalmente.

 

Ma qual è, allora, il significato dell’opera analizzata? La luce, in Allegoria, si concentra sul cranio della Morte, personaggio che è prosopopea, incarnazione della “sostanza tragica del mondo […] senza maschera e tutta in luce” (Luzi): che non sia essa l’unica certezza?

 

Infatti, la Morte è lo sfruttamento quotidiano subito dai poveri, l’ingiustizia, l’oppressione iniqua; la Morte è la modernità autodistruttiva che tutto travolge, che accelera vorticosamente il passo del mondo conducendolo a una fine apocalittica; la Morte è il male di vivere, l’angoscia esistenziale, il Nulla; la Morte è il dramma della perdita d’identità in un contesto di “natura artefatta e alienante”, è “l’oscurità di fantasmi ben presenti nella vita di tutti” (Gianfranco Bruno).

 

La Morte, cioè, “si destituisce di spiritualità e si traspone invece nell’immanenza della realtà mondana: presenza nemica, agghiacciante, che abita l’uomo” (Ortolani). Inoltre, nello specifico della nostra tavola, la disposizione delle figure può essere letta come un anticlimax, dato dall’altezza decrescente dei personaggi. Inoltre, a causa della netta prevalenza del nero, il fruitore viene come sopraffatto emotivamente da un senso di affanno, di oppressione e sgomento, di fronte a quella che a prima vista pare una verità tragica senza scampo.

 

Rintracceremo, allora, un cupo pessimismo all’origine di Allegoria, silenzioso corteo della morte, condensata danza macabra (viene alla memoria il finale de Il settimo sigillo)? Crediamo di no. La luce, infatti, illumina il cranio della Morte ma rischiara anche la Maternità, l’intero corpo del bambino, inserendo una sorta di V, di cuneo che divide il gruppo monumentale di sinistra da quello, più dinamico, di destra (e, si potrebbe ipotizzare, il gruppo più allegorico di sinistra, Morte compresa, da quello più basso -realistico di destra).

 

Una possibile lettura dell’opera trova una risposta, una sublimazione dei contrasti, nell’eterno ritorno dell’uguale, nel tempo circolare, nella ripetizione biologica, nel ciclo vita-neonato/morte. La presenza delle diverse età dei soggetti, dalla prima infanzia a una vecchiaia rannicchiata in posizione quasi fetale, è da intendersi attraverso le parole di Ortolani: “il corpo umano è esso stesso tramite, aperto al mondo e in continuo scambio con esso, col fuori: il corpo nasce, e invecchia, e muore, perché solo così può far parte della trasformazione perpetua, del movimento vitale sempre in atto, di quel fluire che è proprio dell’esistenza stessa, e che ne attraversa tutte le forme”.

 

Appropriandosi di una peculiarità della cultura popolare, dunque, Viani renderebbe fisico e corporeo ciò che è ideale e spirituale, manifestando concretamente le leggi del divenire: “portare verso la terra vuol dire ricondurre tutto a un principio che è allo stesso tempo di vita e di morte, la terra è tomba, ma è semina e germogliazione”.

 

Alla luce di queste nozioni, potremmo anche interpretare meglio la confusione fra i corpi della Morte, del vagero e dell’anziana: “è un corpo che esce dai propri limiti, che è mescolato al mondo. Che penetra nel mondo, e dal mondo si fa penetrare”. Galimberti, in uno studio antropologico, così riassume: “mai […] il corpo nella sua isolata singolarità, ma sempre un corpo comunitario, per non dire cosmico”. In altre parole, una sorta di panismo onnicomprensivo, una totalità avvolgente che potrebbe essere rappresentata dal manto di luce pura che circonda le figure, quasi fosse un fiume eracliteo; un ciclo vitale espresso dalla composizione stessa, nella morbidezza del suo arco convesso.

 

Tuttavia, anche alla luce delle perplessità sopra espresse sull’applicazione di Bachtin a Viani, a nostro parere, la risposta del nostro pittore e romanziere allo scacco della Morte, del dolore e della povertà, si fonda soprattutto su altre basi: la solidarietà sociale; la creaturalità; l’arte impegnata.

 

Nell’opera analizzata, Allegoria, scorgiamo il respiro grandioso di una religiosità laica che si fonda su semplicità, umiltà, aiuto fraterno tra miseri, pietà storica universale: per questa ragione aprono e chiudono il ‘corteo’ una Maternità e l’abbraccio che un figlio dona all’anziana madre orante, quasi una Pietà a parti invertite.

 

Il Primitivismo di Viani, poi, è un aspetto complesso, che investe ideologia e stile. Per quanto concerne la forma, la legnosità, l’allungamento lineare e gotico, la deformazione antimimetica rivelati in questa e altre opere (ad esempio La benedizione dei morti del mare) coincide con un parallelo interesse degli Espressionisti tedeschi verso la scultura medievale. Anche la scelta dell’incisione si inserisce nel solco del recupero di una manualità artigianale pre-moderna. “Se l’Italia, con il suo patrimonio culturale, è paese estremamente adatto per quel ritorno al primitivo che sappiamo essere così importante […] ciò è particolarmente vero per l’ambito toscano, dove gli esempi illustri certo non mancano” (Ortolani).

 

Come al solito, alla forma è “consustanziale” il contenuto, il messaggio. Infatti Viani crede alla creaturalità, scopre il sacro nell’infimo, il puro nello sporco, il religioso nel corpo e nel popolare, l’autenticità nella naturalità primigenia, originaria, pre-morale, in un’umanità vitalistica, carica di energia, incorrotta dalla civiltà, libera da convenzioni, inibizioni, falsità. Questo il valore dei suoi vageri.

 

Si tratta di un grande filone della cultura italiana che, se certamente può essere ridotto a proiezione mitica e ingenua di un ricordo roussoiano (il buon selvaggio), ha però coinvolto grandi scrittori e poeti, come Saba, Slataper e Tozzi (contemporanei di Viani), e in seguito vari intellettuali sulla scia del Neorealismo e del populismo del secondo dopoguerra, tra i quali – pur nella sua originalità – possiamo inserire Pasolini. Il termine e l’idea di creaturale derivano soprattutto da una matrice cristiana tratteggiata da Auerbach nel suo capolavoro, Mimesis, in cui il critico tedesco nota come tale nozione abbia preso, a seconda dei casi, un colore positivo e ottimistico (la gioiosità della vita nelle sue funzioni più elementari) o, al contrario, un valore disforico (il destino comune di debolezza, malattia e morte).

 

Tornando a Viani, Masciotta scrive, a proposito dei vageri, che essi “non sono solo i derelitti, gli umiliati e gli offesi […] ma sono anche, per Viani, i custodi di una dignità e un’indegnità primordiale, l’una commista all’altra […] l’esaltazione e l’abiezione, la virtù e il peccato, il coraggio e la paura, l’ostentato sprezzo della morte, l’attaccamento furioso alla vita. Sono quello che sono […]”.

 

Signorini fa eco: “alito di poesia che idealizza questa razza fiera, ed eroica […] in una terra vergine, inesplorata […]; vita semplice e istintiva, una cultura autoctona, un fondo primordiale non artefatto e libero. Un momento di felice equilibrio […], ricerca dell’autentico vitale”.

 

Ci preme, però, ricordare che questa esaltazione della vita non ha nulla in comune con il culto del panismo dannunziano, superomistico ed estetizzante. Anzi, in parte si tratta di un autoritratto per interposta persona: infatti, nella modernità l’artista è inutile, escluso, ha perso l’aura e l’areola nel fango (Baudelaire), si è degradato e umanizzato, non è più profeta, vate e veggente, non è più la guida spirituale o il giudice di una collettività. Dunque, in quanto privo di mandato sociale, l’artista tra ‘800 e ‘900 si identifica con la prostituta e il saltimbanco (Starobinski), figure di emarginati che vendono e mercificano se stessi e i propri doni sacri (l’amore, il gioco o, appunto, l’arte).

 

Infine, la risposta che Viani dà alla Morte ci viene dal valore e dalla funzione che egli attribuisce all’arte: un’attività mai fine a se stessa, sempre intesa come intervento sul reale, azione impegnata, responsabilità civile.

 

Citiamo ancora Masciotta: “disegnare e dipingere sono, per lui, una necessità e un privilegio, ma non sono mai una dannazione”. L’arte come ribellione, accusa, ricerca della verità; come tributo e omaggio a chi a meno; come speranza (si pensi al neonato) di un possibile riscatto, come aspettativa di un futuro diverso.

 

Ai propri eroi del quotidiano, nobili eppur reali figure di straccioni, “grandi in ogni rischio, nella miseria, nel dolore, nella lotta” (Masciotta), il giovane e combattivo Viani offre piètà e senso di umanità, a loro consacra una capacità mitopoietica e utopica capace di contrastare ogni difficoltà presente. Questo è il fascino altero che ci inculca nel cuore il volto levato al cielo della monumentale donna-Madonna, questa la sua sacralità, questo l’ottimismo e la luce di una costruzione che, a questo punto, non potremo che leggere come ascendente, tesa verso il compimento.

 

Concludiamo il nostro articolo con una lunga citazione da Luzi, summa efficace di tutto il nostro percorso, e con un explicit affidato alla voce diretta di Viani stesso, entrambe incredibilmente adatte a commentare l’opera qui presentata: “Sappiamo che non fu uomo rassegnato; e anche non lo sapessimo l’asprezza, l’attrito, il sarcasmo delle sue figurazioni spettrali o ruvide non mancherebbe di darcene conto.

 

Ma al di là di quel tormentoso appuntarsi su una realtà sprizzante schegge dolorose e taglienti c’è nella parte più matura dell’animo un raccoglimento capace di vedere nelle vittime ben altro che l’oggetto corrispettivo della sua sofferenza o le povere teste di turco della sua denuncia: le figure, le teorie figurali della desolazione umana si sottraggono all’accanimento del pittore, acquistano autonomia, dignità dolorosa, diventano un pietoso alfabeto per leggere il mondo.

 

Più che figure della miseria, dello sconforto, della rivolta, sono allora figure del destino; e non c’è bisogno di pensare alla fatalità oscura, come si è fatto, ma al puro e nudo stato dell’uomo; una notizia universale, non particolare, anche se ricevuta in concreto dai volti e dalle membra della gente che dipende dal mare o lavora nella miniera. A questo livello direi che la deformazione cede all’intensificazione; all’aria maudite subentra un’aria assorta, intimamente interrogativa, come ha chi penetra un inesauribile mistero, appunto la vita.

 

Di essa Viani ci ha dato infatti il senso acre e duro ma anche il respiro grandioso; le sciabolate dei decisi segmenti, delle crude partiture cromatiche che spezzavano ogni idea pervenuta di quadro tendevano a una ricomposizione ardita; in qualche tela […] arriva a esprimere la faticosa bellezza, la tribolata religione”.

 

“Visitando l’opera mia, per meglio penetrarne l’intimo spirito, è necessario sapere l’identità effettiva di anima che io sento di avere coi vagabondi e coi déplacé; la comunanza di vita che io ho col popolo, il quale mi espresse dalle sue viscere e da cui non mi sono mai, mai staccato; perché col popolo e in mezzo al popolo io vivo e vivendo creo con amore i miei eroi”.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Ida Cardellini Signorini, Lorenzo Viani, Firenze, Centro Promozione & Stampa, 1978

Antonella Ortolani, La parola disarmonica, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2004

Mario De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Milano, Feltrinelli 1988, in partic. pp.144-147

Enrico Dei- Gianfranco Bruno (a cura di), Ai confini della mente: la follia nell’opera di Lorenzo Viani, Pistoia, Maschietto e Musolino, 2001, ( in partic. pp.20-25)

Enrico Dei (a cura di), Viani e il lavoro, Pistoia, Maschietto e Musolino, 2001

Tommaso Paloscia, Lorenzo Viani Segni di varia umanità, Città di Montevarchi; Assessorato alla cultura: Palazzetto Alemanni, 2001

100 opere di Lorenzo Viani, scritti di Mario Luzi e Michelangelo Masciotta, Prato, Galleria d’arte moderna Fratelli Falsetti, 1967



 

 

 

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