N. 68 - Agosto 2013
(XCIX)
L’ESPRESSIONISMO CREATURALE DI VIANI
L’allegoria: ANALISI Di un’OPERa
di Francesco Diaco
L’opera
analizzata,
firmata
dall'artista
e
scrittore
Lorenzo
Viani
(Viareggio
1882-
Ostia
1936),
è
composta
da
un
dittico
di
incisioni
su
tavola,
l’una
costituente
il
verso,
l’altra
il
recto.
Il
verso,
di
cui
non
ci
occupiamo,
è
stato
realizzato
dopo
alcuni
anni
rispetto
al
recto;
esso
raffigura
un
contadino
e
risulta
cromaticamente
più
composito.
Allegoria
(recto),
1905-1907
circa,
incisione
su
tavola,
117
x
61.5
cm,
collezione
privata.
Opera
esposta
al
Complesso
Museale
di
Santa
Maria
della
Scala
di
Siena
in
occasione
della
mostra
Arte
Genio
Follia,
31
gennaio/25
maggio
2009.
L’immagine
è
presa
dal
relativo
catalogo:
Arte
genio
follia:
il
giorno
e la
notte
dell’artista,
Milano,
Mazzotta
2009,
p.
379.
Sul
recto,
le
parti
in
nero
appartengono
al
piano
più
esterno,
alla
superficie
della
tavola
dipinta,
mentre
le
zone
color
legno
– un
giallo
scuro,
un’ocra
molto
caldo
–
sono
realizzate
attraverso
l’incisione,
lo
scavo
nella
materia.
Un
ampio
e
tragico
fondo
nero
allestisce,
dunque,
l’ambiente
della
rappresentazione,
suggerendo
uno
spazio
orfano
e
vuoto,
sotto
il
quale
si
muove
un’umanità
oppressa.
Esso
si
estende
soprattutto
nella
parte
alta
e
destra
dell’opera,
per
poi
esaurirsi
in
due
sottili
cornici
laterali.
La
composizione
determinata
dalla
forma
e
dalla
posizione
delle
cinque
figure
‘antropomorfe’,
perciò,
è
fortemente
sbilanciata
verso
il
lato
sinistro
e si
sviluppa
lungo
una
diagonale
alto-sinistra/basso-destra.
La
base,
più
larga,
si
restringe
gradualmente,
rastremandosi
verso
l’alto
secondo
uno
schema
‘a
triangolo
rettangolo’,
piuttosto
che
perfettamente
piramidale.
La
luce
circonda
e
unisce
le
figure,
separandole
dal
fondo.
Essa
è
come
un
manto
che
avviluppa
e
protegge
ma
nello
stesso
tempo
isola
e
delimita.
Si
tratta
di
una
luce
teatrale,
indirizzata
e
radente,
che
crea
e
delimita
lo
spazio
scenico
in
cui
si
trovano
i
personaggi.
Lo
stacco
rispetto
al
fondo
istituisce
una
cesura,
un
divario
marcato,
rilevato
anche
dalla
profondità
del
solco.
Il
nero,
però,
è
largamente
utilizzato
anche
all’interno
di
ciò
che
potremmo
chiamare
il
limen
apotropaico,
nelle
superfici
che
sintetizzano
i
corpi
e le
vesti.
Il
ricorso
a
tonalità
cupe,
pur
essendo
in
parte
riferibile
a un
intento
naturalistico
e
comunicativo
(neri
sono
gli
abiti
indossati
durante
il
lutto,
nera
è la
Morte
nell’iconografia
tradizionale),
è
dovuto
principalmente
a
una
scelta
espressiva
ricorrente
nell’artista:
Viani,
infatti,
utilizza
il
nero
in
“impieghi
casuali
in
quanto
si
identificano
con
l’oggetto
d’uso
[…]
con
ciò
puntando
sulla
‘naturale’
capacità
di
questi
vestimenti
[…]
a
esprimere
il
senso
di
tristezza,
di
scoramento,
di
rimpianti
perpetui”
(Paloscia).
Le
linee
di
contorno,
sempre
presenti,
di
tratto
spesso
ed
evidente,
delimitano
vaste
campiture
cromatiche,
che
possono
ricordare
la
tecnica
del
cloisonnisme
rievocata
da
Bernard
e
Gauguin.
Sin
dal
primo
sguardo
emerge
evidente
un
potente
e
talvolta
morboso
contrasto
cromatico,
ridotto
all’elementare
intensità
di
un’opposizione
frontale,
nero
vs
color
legno
(cioè,
astraendo,
nero
vs
bianco).
Il
fortissimo
contrasto
cromatico
è
replicato
e
incrementato
da
un
ulteriore
contrasto
stilistico
e
realizzativo,
relativo
cioè
alla
qualità
della
superficie:
il
piano
esterno
nero
è
compatto,
omogeneo,
come
fosse
una
pennellata
ben
strutturata;
l’ocra
è
invece
materico,
vivo,
convulsamente
lavorato,
come
fosse
una
pennellata
virgolata.
Se
si
osserva
l’opera
da
molto
vicino,
la
riconoscibilità
figurativa
si
perde
in
un
labirinto
di
stratificazioni
e
solchi,
linee
e
tratti.
Pur
consapevoli
dell’evidente
anacronisticità
dell’affermazione,
ci
affascina
la
possibilità
di
riconoscere
una
componente
quasi
gestuale,
di
foga
esecutiva,
quasi
vedessimo
Viani
nella
sua
azione,
nei
suoi
colpi.
Tale
componente
va a
unirsi
alla
consistenza
materica,
al
rilievo
realmente
prodotto
sul
supporto.
L’artista
riesce
così
a
esaltare
le
qualità
peculiari
del
medium,
valorizzando
l’aspetto
organico
e
pulsante
dell’elemento
naturale.
L’incisione
sulla
sinistra,
tra
l’altro,
può
esser
definita
come
“a
legno
di
filo”,
in
quanto
segue
verticalmente
l’andamento
delle
venature,
il
senso
della
fibra.
Tornando
al
discorso
cromatico,
dobbiamo
precisare
che,
nonostante
l’insistita
opposizione
binaria,
Viani
lascia
che
si
percepiscano
chiaramente
i
residui
neri
e
superficiali
anche
nelle
zone
color
legno,
lasciando
tracce
sottili,
linee
accennate
che
formano
un
tessuto
di
schegge,
tasselli
irregolari
che
frammentano
lo
spazio
e i
corpi.
L’effetto
è
duplice:
da
un
lato
si
realizza
una
effetto
di
omogeneità,
di
regolarità
tissulare,
di
fitto
ordito;
dall’altra
si
propaga
e si
spande
una
vibrazione
continua
e
inquieta,
capace
di
coinvolgere
anima
e
corpo
dell’osservatore.
È
anche
probabile
che
l’artista
sia
intervenuto
con
pennellate
nere
sugli
strati
già
incisi,
come
si
può
inferire
dalle
più
sfumate
ombreggiature
del
cranio
della
personaggio
identificabile
come
la
Morte.
Rimane
da
enucleare
una
questione
che
sorge
spontanea
da
quanto
finora
è
stato
detto:
l’opera
si
risolve
in
una
bidimensionalità
bicromatica,
nell’à
plat
delle
vaste
campiture,
o
viceversa
riesce
a
rendere
le
tre
dimensioni,
lo
spessore,
la
prendibilità
dello
spazio?
Si
potrebbe
rispondere
che
al
nero
del
fondale
–
spazio
assoluto,
tragico
e
irreale-
e a
quello
delle
vesti
corrisponda
la
bidimensionalità,
con
esiti
talvolta
decorativi;
mentre
il
contrasto
tra
luce
(legno)
e
ombra
(nero)
–
rapido,
improvviso,
senza
lumeggiature
né
sfumati
passaggi
chiaroscurali
- e,
soprattutto,
la
fisicità
dell’incisione,
dello
scavo
materico,
rendono
la
profondità,
scolpiscono
i
volumi
e i
piani,
concentrando
la
luminosità
sui
volti
e
sulle
mani.
Infine,
notiamo
che
i
tratti
sono
estremamente
marcati,
violentemente
spezzati.
Per
queste
caratteristiche
di
durezza
sintetica
si
può
accostare
l’opera
a
certe
xilografie
Espressioniste,
in
particolar
modo
a
Kirchner.
Le
figure
sono
riassunte
e
fissate
in
un
gesto,
una
smorfia,
una
cifra
caratterizzante.
Il
tratto
veicola,
così,
una
forte
carica
espressiva
ed
emotivamente
comunicativa.
La
deformazione
esaspera
i
particolari,
colpisce
e
distorce
il
cranio
della
Morte,
il
corpo
della
donna
a
sinistra,
il
mento
della
vecchia
in
basso,
il
grido
del
bambino;
eppure
i
soggetti
mantengono
una
loro
monumentale
austerità,
una
serietà
che
non
si
concede
al
risibile
e al
volgare,
preservano
una
parvenza
fiera
e
indomita,
un
piglio
nobile.
Riprenderemo
tali
cifre
per
spiegarle
alla
luce
di
un’interpretazione
critica.
Iconografia
Sulla
sinistra
si
erge,
monolitica
e
ieratica,
una
donna
che
tiene
in
braccio
un
bambino
(quasi
certamente
il
figlio),
statuaria
come
fosse
la
colonna
portante
della
composizione.
La
donna
ha
l’arto
rigido,
piegato
duramente
ad
angolo
retto;
sull’avambraccio
si
susseguono
alcune
linee
spezzate,
sviluppate
nel
senso
dell’orizzontalità;
dal
braccio
si
dipartono
sottili
linee
verticali,
eleganti
raggi
leggermente
convergenti
verso
l’alto,
esili
scanalature
che
formano
un
fascio
ritmico
e
decorativo.
Esse
rappresentano
le
pieghe
di
un
lungo
abito
nero,
elemento
iconografico
carico
di
riferimenti
e
memorie
che
spaziano
dal
lutto
alla
toga
antica
fino
al
paramento
liturgico.
Tale
linearismo
evidenzia
il
gotico
e
nobilitante
allungamento
della
sagoma
in
senso
longitudinale.
Il
volto,
visto
di
tre
quarti,
è
altamente
espressivo
nella
sua
drammaticità
e
conserva
una
primigenia
fierezza:
gli
occhi
vuoti,
cornee
cave
prive
di
pupilla,
sono
scavati,
messi
in
risalto
dal
veemente
e
spesso
contorno
nero;
il
mento
è
rialzato,
lo
sguardo
è
rivolto
verso
il
cielo
in
un
atteggiamento
misto
di
implorazione
speranzosa,
protesta
lancinante,
ispirazione
mistica.
Le
sopracciglia
convergenti
verso
l’alto,
al
centro
–
come
in
chi
chiede
ma
con
fermezza,
senza
umiliarsi,
senza
perdere
dignità
–
introducono
un
elemento
di
pateticità
scevro,
però,
da
qualsiasi
sentimentalismo
paternalistico.
Le
labbra
sono
carnose,
rigide,
sintetizzate
dal
segno
in
rilievo;
l’ombra
posta
sotto
il
mento
suggerisce
un
senso
di
profondità.
Ponendo
l’attenzione
sul
capo,
forse
coperto
da
un
velo,
notiamo
una
cesellatura
di
linee
curve
che
suggeriscono
l’ondeggiare
di
chiome
increspate,
la
mobilità
di
capelli
lunghi
e
ricci.
Siamo,
dunque,
in
presenza
di
un
efficace
sistema
di
trascrizione
della
natura
in
arte,
di
un
codice
di
trasmutazione
basato
sull’astrazione
e
sulla
semplificazione
che
ricorda
il
linearismo
jugendstil.
Le
mani
– ed
è un
tratto
che
accomuna
tutti
i
soggetti
raffigurati
nella
tavola
–
sono
sproporzionate,
irrealistiche,
lontane
da
una
trascrizione
mimetica.
Le
dita
sono
estremamente
oblunghe,
affusolate
ma
compatte,
come
legnosi
segmenti
paralleli.
In
una
posa
innaturale
che
potrebbe
riprendere
stilemi
di
Maternità
gotiche,
la
donna
–
abbiamo
detto
–
tiene
in
braccio
suo
figlio.
Il
volto
del
piccolo
è
presentato
di
tre
quarti,
ma
con
una
prospettiva
divergente
rispetto
a
quella
del
volto
materno
(nel
complesso,
si
ha
una
celata
ma
riscontrabile
frammentazione
prospettica).
Il
corpo,
invece,
è
pressoché
frontale,
un
bozzolo
rigido
costruito
da
un
contorno
“a
fuso”
terminante,
al
fondo,
in
un
fiocco;
un
blocco
cadenzato
e
ritmicamente
ripartito
dalla
serie
di
fasce
sovrapposte.
Calvo,
un
occhio
accigliato
e
stretto
in
una
smorfia,
l’altro
quasi
inesistente;
il
naso
deformato,
aggettante
verso
il
basso,
la
bocca
nera
e
discendente,
sconvolta
da
uno
strillo;
una
mano
avvicinata
alle
labbra
in
un
gesto
naturalisticamente
veritiero,
l’altra
tesa
e
aperta
forse
allegoricamente
tenta
allontanare
il
terzo
personaggio.
Al
centro
è
posta
una
figura
che
credo
di
poter
interpretare
come
la
personificazione
della
morte.
La
grande
campitura
nera
posta
in
basso
rende,
però,
difficile
capire
who’s
who,
percepire
le
distinzioni,
stabilire
i
confini
tra
i
corpi
(vedremo
che,
secondo
alcuni
filoni
interpretativi,
è
plausibile
si
tratti
di
un
accorgimento
consapevole
e
programmatico).
Infatti,
la
linea
del
bavero
della
Morte
coincide
con
la
linea
che
disegna
la
spalla
del
soggetto
successivo.
Il
volto
è,
ovviamente,
un
nudo
teschio
visto
frontalmente,
una
maschera
repellente
e
angosciosa.
Il
cranio
glabro,
esaltato
dalla
spessa
e
marcata
linea
di
contorno,
è
terribilmente
deformato
in
lunghezza,
con
l’occipite
ribaltato
anteriormente;
il
bavero
è
alzato,
in
una
posa
vagamente
misteriosa
e
maudit;
la
bocca
è
dischiusa
in
una
sorta
di
risolino
sadico
e
duro,
inflessibile
e
distaccato;
i
tratti
sono
spigolosi,
gli
zigomi
sporgenti.
Ci
pare
utile,
ora,
introdurre
alcuni
rimandi
all’opera
narrativa
di
Viani.
In
Parigi,
un
suo
romanzo,
riscontriamo
infatti
frasi
sorprendentemente
conformi
al
suo
immaginario
figurativo:
“ il
cranio
era
d’avorio
diacciato
dalle
ventate
e
superava
in
bianchezza
la
neve”.
Le
ossa
delle
tempie
sono
segnate
da
due
ombreggiature,
da
un
chiaroscuro
insolitamente
sfumato.
Le
orbite
cave,
il
bulbo
oculare
vuoto,
sono
riassunti
in
due
zone
di
nera
ombra
(solo
l’occhio
sinistro
è
accennato.
Gli
occhi
oscuri
sporgono
minacciosi
e
inquietanti,
anche
per
il
rilievo
materico,
rivolgendosi
anche
all’osservatore.
Tale
effetto
percettivo
è da
ricondurre,
oltre
che
all’aspetto
cromatico,
al
valore
psicologico
insito
nei
codici
segnici:
in
questo
caso
le
due
linee
acute,
spezzate
e
inarcate,
si
caricano
di
una
connotazione
torva
e
arcigna.
La
mano,
che
emerge
sulla
destra,
è
inesorabile
e
fredda,
unghiata
e
mostruosa.
Essa
con
violenza
metallica,
con
implacabile
brutalità,
le
ultime
due
figure,
collocate
in
basso
a
destra.
La
Morte
sembra,
infatti,
piegata
nell’atto
di
afferrarle:
si
sporge
in
avanti
come
per
condurle
via
con
sé.
Queste
ultime
figure
rappresentano,
probabilmente,
un
uomo
di
umile
condizione,
ormai
maturo,
e
l’attempata
madre.
Il
marinaio-contadino-muratore
è
assimilabile
alla
figura
del
vàgero,
centrale
in
Viani
pittore
e
narratore,
di
cui
riparleremo.
Le
sue
spalle
sono
larghe
ma
provate
dal
logorio
quotidiano,
curvate
dalla
fatica
di
un
lavoro
pesante
e
frustrante;
il
braccio
sinistro
che
protegge
l’anziana
genitrice
pare
cadente,
stanco;
la
pesante
mano
è
nodosa
e
segnata
dall’usura,
con
le
nocche
prominenti.
Il
collo
possente,
la
cui
forza
è
accentuata
dalla
tensione
del
suo
sporgersi
in
diagonale,
è
reso
corposo
dal
contrasto
chiaroscurale
e
dai
profondi
incavi
nella
materia.
Intuiamo
il
sesso
del
soggetto,
oltre
che
dalle
caratteristiche
somatiche,
grazie
al
pomo
d’Adamo;
il
naso
è
adunco,
geometricamente
schematizzato.
Nel
complesso
la
figurazione
appare
la
più
sintetica
e
sommaria,
quasi
ridotta
a
solidi
geometrici,
squadrata
come
il
marmo
delle
Alpi
Apuane
–
“geologia
dura,
compatta,
impenetrabile
ed
eterna”
(Signorini)
–
dura
come
la
frusta
esistenza
dei
minatori
versiliesi,
temi
familiari
all’artista
viareggino.
Sopra
la
testa
indoviniamo
un
berretto,
nero
sul
lato
sinistro,
perché
in
ombra,
chiaro
nel
resto
della
sua
estensione.
Il
volto,
pertanto,
è
quasi
visto
di
profilo,
da
sinistra,
ma
riceve
illuminazione
frontalmente:
la
stretta
fessura
del
viso
–
intenso
ed
esausto
–
che
intravediamo
a
destra
del
naso,
perciò,
risulta
completamente
in
ombra.
La
bocca
semiaperta,
ansante,
abbruttita
dalla
deformazione,
emette
come
un
gemito
rassegnato,
una
lamentela
sommessa
di
sconfitto.
Gli
occhi
sono
ridotti
a
due
tagli,
le
ombre
lunghe
scendono
segnano
di
scuro
le
guance.
Riassumendo,
una
luce
piena
luce
colpisce
la
parte
bassa
del
mento,
il
naso
e le
labbra,
la
fronte
e la
guancia
sinistra.
L’ultima
figura
è di
nuovo
femminile
e
vista
di
tre
quarti:
una
vecchia
madre
ormai
rimpicciolita,
rinsecchita
da
una
età
prossima
al
trapasso.
Si
tratta
di
un’anziana
vestita
a
lutto,
come
ancora
è
possibile
scorgerne
nel
Sud
Italia;
la
mano
è
giunta
all’altra
(non
rappresentata)
in
atto
di
preghiera,
forse
in
suffragio
dei
cari
ormai
defunti
cui
ella
si
ricongiungerà
presto,
o
forse
rivolta
alla
Madonna.
Le
dita
sono
molto
scavate
e
allungate
attraverso
l’operazione
di
distorsione
cui
abbiamo
già
fatto
riferimento.
Il
suo
corpo
si
confonde
nel
nero
del
corpo
del
figlio
e
della
Morte.
Perciò,
è il
fruitore
a
dover
immaginare
i
particolari
assenti,
a
ricostruire
mentalmente
l’integrità
della
figura
a
partire
dai
pochi
tratti
essenziali
raffigurati.
Il
mento
è
prominente,
il
volto
è
smagrito
e
asciutto.
Nella
cornea
sinistra
si
intravede
una
piccola
allucinata
pupilla,
ancora
più
angosciosa
in
quanto
assente
nell’occhio
destro.
La
bocca
non
esiste;
il
naso
è
reso,
con
taglio
eloquente,
da
due
linee
nere
parallele.
Analisi
critica
Terminate
questa
prime
due
sezioni
introduttive
– la
prima
dedicata
alla
costruzione
formale
dell’opera,
la
seconda
al
riconoscimento
iconologico
–
non
resta
che
indagare
le
ragioni
storiche
ed
esistenziali,
le
matrici
ideologiche
ed
epocali,
la
poetica
personale
che
hanno
dato
vita
a
questo
esito,
manifestandosi
compiutamente
nella
concretezza
plastico-figurativa
dell’opera.
Tutti
i
soggetti
qui
presentati
si
inseriscono
pienamente
al
centro
dell’iconografia
tipica,
della
produzione
immaginativa
del
viareggino:
la
donna
rimanda
alle
solitarie
“vedove
del
mare”
degli
anni
1912-1915
(“sulla
cima
del
molo,
ma
solamente
l’inverno,
si
danno
convegno
le
donne
dei
marinai
e
dei
pescatori,
quelle
possenti
statue
di
pece,
imbacuccate
nei
teli
monacali,
con
la
chiocciata
dei
figli
attaccati
alle
gonne
e
quelle
piccole
in
collo”);
scene
di
maternità
sono
variamente
attestate;
ai
bambini
l’artista
dedicò
particolare
attenzione
negli
anni
di
Montecatini1919-1923.
L’ossessione
per
la
Morte,
poi,
emerge
dalle
parole
di
Viani
stesso
come
nata
già
durante
l’infanzia,
una
pulsione
che
pervade
interamente
il
suo
kunstwollen:
“questa
specie
di
chiodo
fisso
non
mi è
stato
possibile
toglierlo
dal
cervello.
Intorno
alle
mie
figure
non
aliterebbe
sempre
questa
morte?
A me
sembra
di
sì.
Credo
che
passino
tutte
le
mie
visioni
d’arte
attraverso
questo
antro
buio
del
mio
cervello
e ne
assumono
il
colore
e
l’intonazione”.
Si
veda,
a
titolo
di
esempio,
Il
dittatore
1906-7.
L’uomo,
ancora,
può
appartenere
alla
categoria
dei
vageri,
“uomini
di
bordo
rotti
a
tutti
i
perigli
e a
tutte
le
navigazioni,
gente
d’onore
e di
rispetto”;
cioè,
in
senso
lato,
a
tutti
i “
vagabondi
terrazzani”
ben
attestati
nell’idioletto
di
Viani:
“chiuso
nel
mio
studio
della
Camera
del
Lavoro
di
Viareggio,
contornato
da
bandiere
nere,
vermiglie
ed
eroiche,
giuravo
a me
solo
sulla
mia
volontà
indomabile
sola
[…]
che
quanti
avevano
lasciato
sui
sassi
della
strada
o
sulle
spine
della
siepe
un
brandello
della
loro
carne,
e
nell’officine
un
fiore
della
loro
giovinezza,
o
nel
carcere
un
soffio
di
un
vasto
affetto
umano,
dovevano
aver
la
gloria
in
una
ferma
visione
di
comune
dolore
e di
comune
terrore”.
Contestualizziamo,
ora,
l’opera
con
maggiore
precisione.
Come
si
evince
da
quest’ultima
citazione,
Viani
era
un’artista
“impegnato”,
che
lavorava
mantenendo
sempre
una
stretta
relazione
con
la
situazione
sociale,
col
contesto
politico-economico
in
cui
viveva:
“l’anarchismo
coronato
di
fiamme
riscaldò
la
mia
anima
[…]
l’entusiasmo
della
rivolta
e
della
distruzione”.
Troviamo
l’artista
– un
giovane
e
fervente
militante
di
umile
origine
– in
prima
linea
in
tutte
le
battaglie
combattute
dal
movimento
operaio
in
Versilia,
ad
esempio
a
capo
di
varie
rivendicazioni
sindacali:
“
non
c’è
agitazione
nella
fascia
apuo-tirrenica
che
non
lo
veda
presente,
e
spesso
tocca
a
lui
tenere
comizi
alle
manifestazioni
e
intervenire
negli
scioperi”
(Sereni).
Frequenta
il
gruppo
anarchico
Delenda
Carthago,
conosce
Roccatagliata
Ceccardi,
Pea,
Deledda,
Ungaretti,
Gori;
legge
con
entusiasmo
autodidatta
Marx,
Bakunin,
Zola,
Hugo,
l’Unico
di
Stirner,
Michelet,
poi
Nietzsche.
Direi
che
l’atteggiamento
di
Viani
possa
essere
ricondotto
nel
più
vasto
ambito
del
ribellismo
piccolo-borghese
che
si
diffondeva,
anche
tra
molti
artisti,
agli
inizi
del
Novecento:
per
esempio,
egli
celebra
le
gesta
di
Cipriani
(un
anarchico
romagnolo)
e si
esaltava
alla
notizia
di
attentati.
È
ardente,
colmo
di
slancio,
“mazziniano
e
risorgimentale
[…]
oscillante
quindi
tra
un
individualismo
incendiario,
e
propositi
umanitari
[…];
tali
suggestioni,
date
anche
le
condizioni
ambientali,
non
lo
allineano
certo
con
il
socialismo
legalitario
[…]
ma
lo
spingono
a un
costante
stato
insurrezionale
–
ciò
che
contava
[…]
era
l’atto
rivoluzionario,
di
qualsiasi
natura
fosse;
appunto
la
teoria
dell’azione
del
Cipriani,
la
rivoluzione
come
fatto
emotivo”
(Signorini).
Egli,
cioè,
non
si
inquadra
nella
prospettiva
storica
e
organizzativa
di
un
partito,
ad
esempio
di
quello
socialista;
anzi,
egli
rifiuta
qualunque
paternalismo,
disprezza
il
riformismo
graduale
e
moderato,
ritenendo
che
solo
l’atto
violento,
la
rottura
completa
e
improvvisa
possano
sollevare
le
dure
condizioni
in
cui
versavano
le
persone
sfruttate
sotto
i
suoi
occhi.
Questi
sono
anche
i
temi
trattati
dal
Viani
scrittore
nei
suoi
romanzi:
Parigi,
Gli
Ubriachi,
I
Vageri,
Angiò
uomo
d’acqua.
Pittoricamente,
egli
si è
formato
con
l’anziano
macchiaiolo
Fattori
e
col
divisionista
Plinio
Nomellini
–
altro
pittore
particolarmente
sensibile
alle
questioni
sociali.
Il
linguaggio
di
Viani,
all’altezza
cronologica
1905-1907,
ha,
però,
già
maturato
una
certa
autonomia.
Egli
comprende
che,
per
veicolare
con
efficacia
le
proprie
idee,
non
può
più
servirsi
di
un
patetismo
naturalista
indulgente
alla
compassione,
né
di
un
bozzettismo
dialettale:
“in
un
certo
senso
è
proprio
la
lingua
che
crea
i
contenuti,
li
cointesse
nella
struttura,
gonfiandosi,
spezzandosi,
colorandosi.
La
specificità
dei
temi
che
Viani
tratta
sta
esattamente,
in
primo
luogo,
nel
modo
in
cui
il
linguaggio
li
dipinge,
li
fa
emergere,
li
anima”
(Ortolani).
Dal
1908
al
1910
–
quindi
dopo
la
composizione
dell’opera
analizzata
–
Viani
soggiorna
a
Parigi;
si
sposta,
cioè,
da
un
luogo
periferico
al
principale
centro
culturale
mondiale,
al
fulcro
della
modernità.
Proprio
per
questa
ragione
–
seguendo
i
consigli
metodologici
di
Crispolti
–
pur
accennando
alcuni
parallelismi,
non
discorreremo
compiutamente
delle
relazioni,
suggestive
ma
da
verificare,
che
si
potrebbero
creare
tra
Viani
e i
Fauves,
il
contemporaneo
gruppo
Die
Brucke,
i
caricaturisti
e
grafici
Forain,
Galantara,
Steinlen,
i
vari
Ensor,
Meunier,
Van
Dongen,
Munch,
Kokoschka,
Toulouse-Lautrec,
Rouault,
Daumier,
etc.
Con
un’ulteriore
precisazione:
“non
che
non
abbia
avuto
degli
incontri,
e li
ha
avuti
proprio
con
gli
artisti
che
si
sono
detti,
e
non
ne
abbia
tratto
tutti
i
vantaggi
che
se
ne
potevano
sperare,
ma
non
li
ha
cercati.
Una
volta
trovati,
non
li
ha
inseguiti,
non
se
ne è
fatta
una
bandiera”
(Masciotta).
Potremmo,
dunque,
parlare
per
Viani
di
espressionismo
(“sociale
e
visionario”
secondo
Ciccuto)
come
categoria
critica,
senza
però
far
diretto
riferimento
all’Espressionismo
tedesco
inteso
come
movimento
definito
quanto
a
cronologia,
collocazione
geografica,
gruppi
riconosciuti
(ad
esempio,
il
Die
Brucke),
esponenti
individuati.
Non
bisogna
però
dimenticare
che
nel
1907
il
giovane
viareggino
aveva
esposto
alla
Biennale
di
Venezia
i
Dispersi
e
gli
Ossessi,
opere
che
ci
spingono
alla
valutazione
di
una
certa,
seppur
minoritaria,
componente
decadente:
“
un’umanità
da
sottosuolo
che
filtra
dai
lidi
del
simbolismo
europeo,
il
satanico
e il
visionario,
il
repellente,
il
luciferino,
l’inconscio”
(Signorini).
Consideriamo
ora
alcune
questioni
che
riguardano
da
vicino
la
nostra
opera.
In
primis,
si
tratta
appunto
di
un’incisione:
“come
tutti
gli
espressionisti
veri,
Viani
si
dedica
anche
all’arte
incisoria:
il
suo
corpus
grafico
è
vastissimo
[…]
è la
tecnica
che
meno
di
ogni
altra
si
lascia
cogliere
dalla
tentazione
d’una
rappresentazione
naturalistica”
(Ortolani).
È,
in
altri
termini,
la
tecnica
che
più
di
ogni
altra
induce,
per
la
durezza
del
materiale,
a
tratti
rotti,
a
crudezze
dirompenti
e
spigolose.
Relativamente
alla
bicromia,
l’artista
stesso
confida:
“Se
prepari
un
nero
sei
costretto
a
definirti;
il
nero
vuol
essere
ben
impostato.
I
celesti,
i
blu,
gli
smeraldi,
gli
ametisti,
i
colori
vistosi
sono
ingannevoli;
parlano
della
nostra
sensualità.
Il
nero,
il
colore
austero,
è
materia
prediletta
del
costruttore;
è
forza-sostanza
delle
cose
e
circoscrive
in
una
figura
geometrica
la
nostra
visione”.
Molto
complessa,
poi,
è la
spiegazione
delle
ragioni
plurime
che
motivano
il
ricorso
alla
deformazione,
ma
probabile
è
anzitutto
un
legame
alla
costruzione
geometrica
appena
ricordata:
“nei
suoi
quadri
[…]
i
colori
sono
gridati
sulla
tela
a
grandi
campiture,
larghe
masse,
sintesi
audaci.
La
figura
umana
[…]
subisce
deformazioni
convulse,
esasperate:
lo
scheletro
si
gonfia,
il
cranio
si
allunga,
le
orbite
si
infossano,
gli
occhi
sono
feritoie,
le
articolazioni
si
protendono
[…]
tutto
il
corpo
umano
urla,
in
una
tensione
formale
continua
tra
superficie
e
volume”
(Ortolani).
Della
centralità
di
tale
procedimento
ci
informa
direttamente
Viani:
“l’artista
deve
essere
sproporzionato,
solo
a
questo
patto
egli
sarà
eloquente.
Io,
perciò,
ho
sempre
pensato
che
la
caricatura
sia
la
forma
più
profonda
dell’arte;
chi
non
ha
in
sé
questo
sguardo
compenetrante
delle
eccezionalità
delle
cose,
non
può
essere
artista”.
Si
tratta
di
un’istanza
anti-borghese,
anti-intellettualistica,
anti-estetizzante;
la
sintassi
compositiva,
così
come
quella
verbale
nei
suoi
romanzi,
deve
essere
stravolta,
distorta:
“le
difficoltà
erano
per
me
il
superare
tutte
le
leggi
borghesi,
distruggerle,
rinnovarle”,
in
arte
come
in
politica.
Scrive
Baioni
a
proposito
di
Kafka,
“espressione
ideologica
di
un
potere
che
usa
il
linguaggio
come
strumento
di
sudditanze
e di
subordinazioni,
la
parola
rappresenta
così
[…]
la
sfera
delle
dipendenze
e
dei
rapporti
alienati
”
mentre
la
“gestualità
disperata
e
grottesca,
ribadisce
sia
la
muta
angoscia
di
una
condizione
umana
che
la
parola
consunta
dall’istituzione
borghese
non
è
più
in
grado
di
interpretare,
sia
lo
sgomento
sordo
e
inclemente
di
un
mondo
ormai
privo
di
significati
nel
vedersi
improvvisamente
confrontato
con
una
verità
che
ha
tenuto
nascosta
dietro
la
maschera
della
propria
ideologia”.
Seguendo
questa
interpretazione
dell’espressionismo
come
rivelazione
di
una
dura
verità
sotto
il
velo
menzognero
delle
visioni
accettate,
citiamo
Ortolani:
“la
categoria
del
grottesco
[…]
assume
per
lui
[Viani]
la
fondamentale
funzione
di
viatico
per
mezzo
del
quale
il
suo
atteggiamento
di
rivolta
e di
denuncia
si
realizza
e si
rende
immediatamente
visibile”;
“questa
funzione
disvelante
[…]
è in
un
certo
senso
una
funzione
storica.
La
satira
[…]
ha
da
sempre
assunto
il
compito
di
mostrare,
attraverso
il
ribaltamento
della
norma,
quegli
aspetti
della
realtà
altrimenti
esorcizzati”;
egli
così
“si
assume
il
compito
di
dis-velare,
de-mistificare
il
reale,
rovesciandolo,
allucinandolo,
decostruendolo”.
Sempre
Ortolani
fa
riferimento
al
capitale
lavoro
di
Bachtin
su
Rabelais
per
evidenziare
il
legame
tra
satira,
carnevalesco,
cultura
popolare,
polifonia
e
critica
sociale,
espressioni
di
una
“funzione
rigeneratrice
dal
basso,
oppositiva
alla
lingua
della
cultura
alta,
ed
efficace
nel
contrapporsi
[…]
agli
stereotipi
mistificanti
del
potere”.
Tale
“
grimaldello
per
scardinare
le
porte
dell’apparenza”
attua
uno
smascheramento
delle
finzioni,
additando
la
recita,
rivelandone
la
farsesca
inautenticità:
è
impossibile
non
pensare
a
Ensor
(ma
per
certi
versi
anche
a
Pirandello),
alla
mostruosità
di
una
società
perennemente
mascherata).
Il
meccanismo,
però,
è
intrinsecamente
paradossale,
dato
che
una
deformazione
ne
denuncia
un’altra
come
nota
acutamente
Domenichelli:
“la
satira
[…]
mette
la
maschera
carnevalesca,
folle,
abnorme,
e,
con
ciò,
reale,
materiale
per
sconfessare
l’altra
maschera,
quella
della
norma,
di
legge
e
codice”.
Tuttavia,
per
quanto
lo
spunto
di
Ortolani
sia
sicuramente
da
tenere
in
considerazione,
non
ci
trova
però
del
tutto
consenzienti
a
una
proiezione
meccanica
delle
categorie
bachtiniane
su
Viani.
Il
carnevalesco,
infatti,
costituisce
una
mentalità
ben
definita
storicamente,
tipica
di
quel
momento
del
Rinascimento
in
cui
cultura
popolare
e
cultura
dotta
si
incontrano
in
Rabelais,
nella
sua
gioiosa
teoria
del
gigantismo,
nei
suoi
corpi
enormi
e
nei
suoi
pasti
sproporzionati,
in
un
ribaltamento
festoso
delle
gerarchie.
In
Viani,
uomo
nato
vari
secoli
dopo,
rimane
poco
di
quel
clima,
sopravvissuto
solo
come
residuo
in
seguito
alla
Controriforma;
la
sua
caricatura
sarebbe
giudicata
intellettuale
e
astratta
da
Bachtin,
in
quanto
separata
da
quella
seconda
vita,
da
quella
teoria
della
storia.
Semmai,
potremmo
collegare
la
deformazione
alla
carica
di
protesta
ed
eversione
che
l’artista
immette
nelle
proprie
opere,
a un
violenza
di
denuncia
polemica
che
potrebbe
leggersi
con
le
lenti
degli
scritti
psicoanalitici
di
Ernst
Kris
sul
riso
(pur
precisando,
come
diremo
ancora,
che
tali
tratti
valgono
più
per
gli
espressionisti
tedeschi
o,
in
seguito,
per
gli
artisti
della
Nuova
Oggettività
quali
Dix
e
Grosz,
che
per
Viani).
A
proposito
del
rifiuto
avanguardistico
del
Verismo
sociale,
della
riproduzione
immediata
e
fedele,
può
essere
proficuo
un
rapido
richiamo
alla
tesi
espressa
da
Worringer
in
Astrazione
e
Empatia,
1908,
fondamentale
per
spiegare
la
progressiva
acquisizione
di
autonomia
formale
e
costruttiva
compiuta
dall’arte
contemporanea.
Riassumendo,
l’arte
propenderebbe
alla
mimesi,
alla
raffigurazione
riconoscibile,
quando
l’uomo
si
percepisce
in
simbiosi
armonica
con
l’universo,
quando
si
ha,
appunto,
empatia,
corrispondenza
fiduciosa,
confidente
dialogo,
vibrazione
all’unisono;
viceversa,
si
tenderebbe
all’astrazione
nel
momento
in
cui
prevale
lo
iato,
la
frattura,
l’incomunicabilità
disorientata,
la
separazione
incolmabile,
l’angoscia
dell’orfano.
Scrive
Contini
su
Pascoli
(e
bisogna
notare
che
molti
dei
riferimenti
riportati
sono
delimitabili
in
un
arco
cronologico
abbastanza
ristretto):
“quando
si
usa
un
linguaggio
normale,
vuol
dire
che
dell’universo
si
ha
un’idea
sicura
e
precisa,
che
si
crede
in
un
mondo
certo,
ontologicamente
molto
ben
determinato
[…]
dove
i
rapporti
stessi
tra
l’io
e il
non-io,
tra
l’uomo
e il
cosmo
sono
determinati,
hanno
dei
limiti
esatti,
delle
frontiere
precognite.
Le
eccezioni
alla
norma
significheranno
allora
che
il
rapporto
fra
l’io
e il
mondo
[…]
è un
rapporto
critico
[…]
è
caduta
quella
certezza
assistita
di
logica”.
Tuttavia,
se
andiamo
a
guardare
con
più
attenzione
la
lettera
delle
enunciazioni
programmatiche,
delle
esplicitazioni
di
poetica
dell’epoca,
scopriamo
un
rapporto
più
complesso
tra
espressionismo,
come
stravolgimento
e
deformazione,
e
realismo,
come
aderenza
all’essenza
dell’esistente.
Annota
Viani:
“non
penso
che
la
mia
sia
arte
sociale
nel
senso
gretto
della
parola,
può
essere,
mi
lusingo
che
sia,
nel
senso
vasto
della
parola
solamente.
Evito
sempre
la
composizione
e la
cronaca”;
e
altrove:
“per
me
realismo
è un
senso
profondo
delle
cose,
poesia
che
pulsa
e
solleva
le
apparenze
per
rivelare
la
vita”.
In
ultima
analisi,
perciò,
l’allontanamento
dall’impressione
superficiale
delle
cose
si
configura
come
una
ricerca
della
loro
verità
più
profonda,
come
una
fedeltà
a un
intento
realista
spinto
fino
alle
estreme
conseguenze,
oltre
il
mero
dato
percettivo
visivo.
Secondo
Ortolani,
“il
mondo
di
Viani
è il
suo
‘modo
di
vedere
il
mondo’,
di
ricrearlo”;
un
mondo
“trasfigurato,
drammatizzato,
martirizzato,
fino
a
ottenere
da
esso
quelle
verità
non
apparenti
che
pure
ne
sono
l’essenza”.
È
necessario,
dunque,
ripulire
l’immagine
dagli
orpelli
superficiali,
dai
particolari
ininfluenti,
così
come
il
Viani
adolescente
scopriva
il
vero
volto
dei
clienti
radendone
la
barba:
“soltanto
uno
che
ha
sbarbato
la
gente
può
conoscere
gli
uomini”.
Significativamente,
l’operazione
compiuta
dal
viareggino
collima
con
quelle
tipiche
dell’Espressionismo.
Leggiamo
Eschmid:
“una
casa
non
è
più
un
oggetto,
non
più
solo
pietra
[…]
si
cerca
tanto
più
a
lungo
nella
sua
essenza
autentica
fino
a
che
si
attingerà
la
sua
forma
più
segreta,
fino
a
che
sorgerà
la
casa
[…]
anche
a
spese
della
somiglianza
esteriore”.
Sulla
stessa
lunghezza
d’onda
De
Micheli,
che
così
parla
dell’Espressionismo:
“visione
purificata
dagli
accidenti
deteriori,
[…]l’urgente
istanza
a
colpire
il
centro
della
realtà,
a
non
restarne
alla
periferia,
veniva
da
una
giusta
reazione
verso
l’arte
ufficiale,
epidermica
per
costituzione;
veniva
per
contrasto
verso
un
impressionismo
sempre
più
esteriore.
Si
trattava
di
premere
sulla
realtà
perché
da
essa
ne
sgorgasse
il
latente
segreto.
In
questo
premere
è
l’origine
tipica
della
deformazione
espressionista”.
Non
si
tratterebbe,
dunque,
come
spesso
è
stato
affermato,
di
un’interiorità
prepotente
che
piega
a sé
il
mondo
espandendosi,
bensì
di
una
visione
interiore
attinta
“ ex
natura
rerum
[…];
tale
soggettivismo
è
anche
messo
al
servizio
dell’accentuazione
della
verità
contenuta
nella
situazione
del
reale”.
Ci
pare,
però,
essenziale
ricordare
che
i
criteri
critici
con
cui
comprendere
e
valutare
le
opere
del
passato
non
possono
essere
desunti
tautologicamente
dalle
poetiche
che
le
hanno
create
e
supportate.
In
altre
parole,
per
quanto
sia
importante
esaltare
queste
autodefinizioni
dell’Espressionismo
come
Realismo
ulteriore
(formulazione
che
paradossalmente
ricorda
il
pur
lontanissimo
Lukacs,
quando
contrapponeva
il
grande
Realismo
al
Naturalismo
fotografico),
è
innegabile
che
l’esito
concreto,
nella
materialità
delle
enunciazioni
figurative,
si
presenta
come
una
rottura
(non
un
semplice
tendersi)
di
quell’elastico
con
cui
potremmo
figurare
il
campo,
lo
spettro,
che
il
senso
comune
riconosce
come
realismo.
Si
tratta
di
un
elastico
teoricamente
indifendibile,
eppure
dotato
di
un
suo
valore
pragmatico,
persino
banale:
la
Verità
del
Reale
può
certo
essere
lontanissima
dalle
apparenze,
ma
lo
stile
che
la
raffigura
attraverso
una
forte
distorsione
della
percezione
non
potrà,
per
questo,
dirsi
mimetico
o
realistico;
anzi,
spesso
il
soggettivismo,
espunto
dall’iconologia,
dal
contenuto
‘oggettivo’
e
impersonale,
si
annida
–
tanto
più
potente
quanto
più
nascosto
e
teoricamente
negato
– a
monte,
cioè
nel
linguaggio
stesso,
nella
forma
dell’espressione,
idoletto
privato
o di
gruppo,
non
langue
collettiva
e
riconoscibile.
Come
risvolto
formale
del
fenomeno
appena
discusso
(cioè
la
deformazione
come
svelamento
dell’essenza),
si
può
rimandare
a
Ortolani,
il
quale
nota
come
la
tendenza
espressionista
all’
“urlo
originario”,
all’iperbole
di
protesta,
al
grido
primitivo
che
rifiuta
le
convenzioni
di
una
cultura
fallimentare
(definito
da
Luzi
“grumo
di
non
accettazione
del
mondo”),
si
congiunga
a
una
forte
tendenza
a
sintesi,
semplificazione,
riduzione
a
‘geometria’,
in
quanto
“si
cerca
nelle
forme
apparentemente
semplici,
ma
in
realtà
cariche
di
tensioni
che
vengono
solo
suggerite,
il
modo
di
esprimere
ciò
che
non
affiora
alla
superficie”.
Dovessimo,
concludendo
le
riflessioni
sull’
espressionismo
di
Viani,
instaurare
alcuni
rapidi
confronti,
diremmo
forse
che
il
viareggino
ci
pare
più
emotivamente
coinvolto
e
meno
retorico
di
Meunier,
meno
torbido
di
Munch,
e
lontano
da
Kirchner
in
quanto
la
deformazione
di
quest’ultimo
spesso
regredisce
i
propri
soggetti
a
un’animalità
abbrutita,
a
una
ferinità
meccanica.
Nel
macrotesto
del
viareggino,
invece,
la
figura
umana
– e
il
sentimento
di
umanità
– si
pone,
incontrastata,
quale
centro
gravitazionale
privilegiato,
punto
focale
imprescindibile.
Scrive
Masciotta:
“queste
sue
inclinazioni
sono
sempre
derivate
dalla
commozione
che
lo
spettacolo
del
mondo
gli
offre
e
dalla
pietà
[…]
per
gli
uomini
[…],
dall’aderenza
a
tutto
quello
che
di
impervio
presenta
la
natura
[…];
ritraeva
quei
tipi
[...]
con
la
pietà
che
gli
espressionisti
tedeschi
non
hanno
mai
sentito
per
i
loro
personaggi
[…]
il
suo
espressionismo
è
nell’accettazione
del
reale,
non
nella
sua
negazione
[…]
l’asprigno
talvolta
si
riduce
fin
quasi
a
placarsi
in
una
stesura
raddolcita”.
Abbiamo
sinora
delineato
l’accostamento,
e lo
scarto,
tra
Viani
e il
Naturalismo,
tra
Viani
e
l’Espressionismo.
Avevamo,
però,
anticipato
che
anche
il
Decadentismo
e il
Simbolismo
giocano
in
lui
un
ruolo
non
trascurabile,
soprattutto
nella
sua
produzione
giovanile.
Si
era
riscontrata
tale
influenza
a
proposito
dei
disegni
del
1907;
scrive,
in
merito,
Signorini:
“un
simbolismo
pure
coltivato,
ricco
di
legami
e
interferenze;
fondamentalmente
però
protestatario
[…]
è il
momento
del
furore
incontrollato
[…]
che
gli
umori
simbolisti
caricano
di
allucinazioni
e
letterarietà”.
Inserita
in
tale
parabole,
allora,
ci
sembra
che
sia
possibile
leggere
l’opera
Allegoria
come
un
importante
momento
di
svolta:
qui
Viani
si
libera
dalla
morbosità
e
dall’estetismo,
pur
assimilandone
alcuni
elementi
che
andranno
a
formare
il
suo
vocabolario
personale;
qui
Viani
supera
il
Decadentismo
utilizzandone
gli
strumenti
espressivi
per
veicolare
un
messaggio
di
impegno
civile.
Siamo
di
fronte
a
uno
snodo
culturale,
tra
la
lunga
scia
del
tardo
Decadentismo
e
l’irruzione
delle
novità
novecentesche
(Avanguardie
e
Modernismo),
che
Luzi
riassume
perfettamente
in
questa
frase:
l’Italia,
“proprio
quando
si
affermava
il
pregiudizio
che,
satura
di
cultura,
non
potesse
dare
più
nulla
che
non
fosse
viziato
dall’estetismo,
in
Viani,
in
Tozzi,
in
Rosai
mostrava
di
non
poter
far
sue
le
ragioni
liberamente
formali
dell’arte
né
speculare
in
astratto
sul
linguaggio
della
creazione”.
Quali,
dunque,
gli
elementi
dal
sapore
fin
de
siècle?
La
morte,
ad
esempio,
che
è
una
presenza
costante
tra
fine
‘800
e i
primi
del
‘900
(Redon,
Klinger,
De
Maria,
Klimt,
etc),
così
come
la
Maternità
(divisionismo
italiano,
Segantini,
Previati,
o
ancora
Klimt).
Permangono,
poi,
alcune
eredità
formali:
il
raffinato
bicromatismo
che
riporta
la
memoria
al
decorativismo
delle
stampe
giapponesi,
a
Beardsley
e
Valloton;
la
sinuosità
Jugendstil
dei
capelli
della
donna;
la
composizione
dei
gruppi
di
personaggi
sviluppata
in
senso
verticale,
come
in
molti
quadri
di
Klimt;
l’eleganza
del
ritmo
che
scandisce
religiosamente
la
lenta
e
cadenzata
processione
delle
figure.
Ortolani
scrive:
“egli
deve
alla
grafica
Liberty
l’uso
della
linea
come
limite
e
contorno,
come
sintesi
della
struttura
delle
forme
[…];
proprio
nell’estenuato
ritmo
grafico
delle
creazioni
Liberty
troviamo
i
rimandi
diretti
di
certe
sue
forme
(soprattutto
nella
grafica,
nelle
incisioni
e
nelle
xilografie)
nelle
quali
si
fonde
la
drammaticità
delle
linee
gotiche,
allungate,
spigolose,
con
un’essenzialità
prosciugata,
una
sintesi
quasi
da
arabesco”.
Nonostante
ciò,
a
nostro
parere
a
prevalere
sono
i
segni
di
modernità
novecentesca.
Il
titolo
stesso
dell’opera,
Allegoria,
si
ricongiunge
a
quanto
precedentemente
esposto
con
riferimento
a
Worringer:
tra
uomo
e
natura
non
è
più
data
continuità,
non
si
odono
correspondences
sussurrate
da
boschi
familiari,
non
si
danno
intuizioni
immediate,
l’universale
non
è
più
insito
nel
particolare,
nessuna
epifania
rivela
la
Verità.
La
modernità
è il
regno
dell’allegoria,
della
faticosa
costruzione
di
risposte,
della
difficile
ricerca
di
senso
smarrito.
Per
questo,
l’indagine
di
Viani
è
lucida,
combattiva,
collettiva;
sebbene
agli
inizi
eccessivamente
fiduciosa
in
un
avvenire
messianico,
la
sua
proposta
non
ha
nulla
di
fumoso
ed
esoterico.
Tipico
di
questo
atteggiamento
allegorico
– a
cui,
di
nuovo,
è
riconducibile
la
deformazione,
come
straniamento
antinaturalistico
– è
un
duplice
movimento,
di
rottura
e di
tensione
alla
ricostruzione.
Come
in
numerosi
membri
delle
Avanguardie
– o,
forse
meglio,
soprattutto
del
Modernismo,
se
ricordiamo
come
molte
Avanguardie
si
siano
fermate
alla
pars
destruens
incendiaria
–
coesistono
in
Viani
una
pulsione
di
forzatura
deflagrante,
di
esplosione
palingenetica,
e
una
prospettiva
di
rinascita,
un
progetto
di
società
rinnovata.
Scrive
Viani:
“da
elementi
frammentari
voglio
che
l’osservatore
ricostruisca
in
cuor
suo
il
significato
animatore
dell’opera.
Come
da
macchie
di
colore
discordanti
voglio
creare
un’armonia”;
o
ancora,
quasi
programmaticamente:
“deformare
per
armonizzare
–
decomporre
per
ricostruire”.
L’equilibrio
strutturale,
l’ordine
compositivo,
riscattano
–
anche
nella
nostra
opera
– la
frammentazione
dilagante.
La
spinta
alla
frantumazione
si
registra
a
partire
dalle
microstrutture
(linee
spezzate,
tratti
duri,
schegge
lignee)
per
arrivare
alle
macrostrutture
(dimensione
spaziale,
prospettiva).
Tali
cifre
stilistiche
sono
rispecchiamento
(o,
nel
lessico
di
Bourdieu,
rifrazione)
della
realtà
introdotta
dalla
modernità:
a
essere
lacerate
e
dilaniate
sono
la
società
–
divisa
in
monadi
individualiste,
arriviste,
reciprocamente
estranee
e
ostili,
priva
di
un
tessuto
connettivo
–,
la
psiche,
l’esperienza
–
ridotta
a
una
serie
di
choc
incoerente
e
scomposta,
come
ricostruito
da
Benjamin
nel
suo
studio
su
Baudelaire
–, i
modi
di
produzione
–
l’alienazione,
la
catena
di
montaggio
che
nega
l’unitarietà
organica
del
lavoro
artigianale.
La
deformazione,
perciò,
è
anche
mimesi
dell’orrore
della
società
capitalistica
moderna.
Viani,
dunque,
avverte
acutamente
il
dolore
del
presente.
L’accostare
il
bambino
piangente
alla
Morte
significa
connotare
la
vita
come
esperienza
segnata
costitutivamente
dalla
sofferenza.
Un
dolore,
però,
di
natura
prevalentemente
non
metafisico-esistenziale,
cui
ci
si
abbandona
con
impotente
fatalismo,
bensì
una
miseria
provocata
soprattutto
dalla
storia,
un’indigenza
che
ha
cause
terrene
ben
individuabili,
responsabili
da
giudicare,
un
contesto
da
modificare
radicalmente.
Ma
qual
è,
allora,
il
significato
dell’opera
analizzata?
La
luce,
in
Allegoria,
si
concentra
sul
cranio
della
Morte,
personaggio
che
è
prosopopea,
incarnazione
della
“sostanza
tragica
del
mondo
[…]
senza
maschera
e
tutta
in
luce”
(Luzi):
che
non
sia
essa
l’unica
certezza?
Infatti,
la
Morte
è lo
sfruttamento
quotidiano
subito
dai
poveri,
l’ingiustizia,
l’oppressione
iniqua;
la
Morte
è la
modernità
autodistruttiva
che
tutto
travolge,
che
accelera
vorticosamente
il
passo
del
mondo
conducendolo
a
una
fine
apocalittica;
la
Morte
è il
male
di
vivere,
l’angoscia
esistenziale,
il
Nulla;
la
Morte
è il
dramma
della
perdita
d’identità
in
un
contesto
di
“natura
artefatta
e
alienante”,
è
“l’oscurità
di
fantasmi
ben
presenti
nella
vita
di
tutti”
(Gianfranco
Bruno).
La
Morte,
cioè,
“si
destituisce
di
spiritualità
e si
traspone
invece
nell’immanenza
della
realtà
mondana:
presenza
nemica,
agghiacciante,
che
abita
l’uomo”
(Ortolani).
Inoltre,
nello
specifico
della
nostra
tavola,
la
disposizione
delle
figure
può
essere
letta
come
un
anticlimax,
dato
dall’altezza
decrescente
dei
personaggi.
Inoltre,
a
causa
della
netta
prevalenza
del
nero,
il
fruitore
viene
come
sopraffatto
emotivamente
da
un
senso
di
affanno,
di
oppressione
e
sgomento,
di
fronte
a
quella
che
a
prima
vista
pare
una
verità
tragica
senza
scampo.
Rintracceremo,
allora,
un
cupo
pessimismo
all’origine
di
Allegoria,
silenzioso
corteo
della
morte,
condensata
danza
macabra
(viene
alla
memoria
il
finale
de
Il
settimo
sigillo)?
Crediamo
di
no.
La
luce,
infatti,
illumina
il
cranio
della
Morte
ma
rischiara
anche
la
Maternità,
l’intero
corpo
del
bambino,
inserendo
una
sorta
di
V,
di
cuneo
che
divide
il
gruppo
monumentale
di
sinistra
da
quello,
più
dinamico,
di
destra
(e,
si
potrebbe
ipotizzare,
il
gruppo
più
allegorico
di
sinistra,
Morte
compresa,
da
quello
più
basso
-realistico
di
destra).
Una
possibile
lettura
dell’opera
trova
una
risposta,
una
sublimazione
dei
contrasti,
nell’eterno
ritorno
dell’uguale,
nel
tempo
circolare,
nella
ripetizione
biologica,
nel
ciclo
vita-neonato/morte.
La
presenza
delle
diverse
età
dei
soggetti,
dalla
prima
infanzia
a
una
vecchiaia
rannicchiata
in
posizione
quasi
fetale,
è da
intendersi
attraverso
le
parole
di
Ortolani:
“il
corpo
umano
è
esso
stesso
tramite,
aperto
al
mondo
e in
continuo
scambio
con
esso,
col
fuori:
il
corpo
nasce,
e
invecchia,
e
muore,
perché
solo
così
può
far
parte
della
trasformazione
perpetua,
del
movimento
vitale
sempre
in
atto,
di
quel
fluire
che
è
proprio
dell’esistenza
stessa,
e
che
ne
attraversa
tutte
le
forme”.
Appropriandosi
di
una
peculiarità
della
cultura
popolare,
dunque,
Viani
renderebbe
fisico
e
corporeo
ciò
che
è
ideale
e
spirituale,
manifestando
concretamente
le
leggi
del
divenire:
“portare
verso
la
terra
vuol
dire
ricondurre
tutto
a un
principio
che
è
allo
stesso
tempo
di
vita
e di
morte,
la
terra
è
tomba,
ma è
semina
e
germogliazione”.
Alla
luce
di
queste
nozioni,
potremmo
anche
interpretare
meglio
la
confusione
fra
i
corpi
della
Morte,
del
vagero
e
dell’anziana:
“è
un
corpo
che
esce
dai
propri
limiti,
che
è
mescolato
al
mondo.
Che
penetra
nel
mondo,
e
dal
mondo
si
fa
penetrare”.
Galimberti,
in
uno
studio
antropologico,
così
riassume:
“mai
[…]
il
corpo
nella
sua
isolata
singolarità,
ma
sempre
un
corpo
comunitario,
per
non
dire
cosmico”.
In
altre
parole,
una
sorta
di
panismo
onnicomprensivo,
una
totalità
avvolgente
che
potrebbe
essere
rappresentata
dal
manto
di
luce
pura
che
circonda
le
figure,
quasi
fosse
un
fiume
eracliteo;
un
ciclo
vitale
espresso
dalla
composizione
stessa,
nella
morbidezza
del
suo
arco
convesso.
Tuttavia,
anche
alla
luce
delle
perplessità
sopra
espresse
sull’applicazione
di
Bachtin
a
Viani,
a
nostro
parere,
la
risposta
del
nostro
pittore
e
romanziere
allo
scacco
della
Morte,
del
dolore
e
della
povertà,
si
fonda
soprattutto
su
altre
basi:
la
solidarietà
sociale;
la
creaturalità;
l’arte
impegnata.
Nell’opera
analizzata,
Allegoria,
scorgiamo
il
respiro
grandioso
di
una
religiosità
laica
che
si
fonda
su
semplicità,
umiltà,
aiuto
fraterno
tra
miseri,
pietà
storica
universale:
per
questa
ragione
aprono
e
chiudono
il
‘corteo’
una
Maternità
e
l’abbraccio
che
un
figlio
dona
all’anziana
madre
orante,
quasi
una
Pietà
a
parti
invertite.
Il
Primitivismo
di
Viani,
poi,
è un
aspetto
complesso,
che
investe
ideologia
e
stile.
Per
quanto
concerne
la
forma,
la
legnosità,
l’allungamento
lineare
e
gotico,
la
deformazione
antimimetica
rivelati
in
questa
e
altre
opere
(ad
esempio
La
benedizione
dei
morti
del
mare)
coincide
con
un
parallelo
interesse
degli
Espressionisti
tedeschi
verso
la
scultura
medievale.
Anche
la
scelta
dell’incisione
si
inserisce
nel
solco
del
recupero
di
una
manualità
artigianale
pre-moderna.
“Se
l’Italia,
con
il
suo
patrimonio
culturale,
è
paese
estremamente
adatto
per
quel
ritorno
al
primitivo
che
sappiamo
essere
così
importante
[…]
ciò
è
particolarmente
vero
per
l’ambito
toscano,
dove
gli
esempi
illustri
certo
non
mancano”
(Ortolani).
Come
al
solito,
alla
forma
è
“consustanziale”
il
contenuto,
il
messaggio.
Infatti
Viani
crede
alla
creaturalità,
scopre
il
sacro
nell’infimo,
il
puro
nello
sporco,
il
religioso
nel
corpo
e
nel
popolare,
l’autenticità
nella
naturalità
primigenia,
originaria,
pre-morale,
in
un’umanità
vitalistica,
carica
di
energia,
incorrotta
dalla
civiltà,
libera
da
convenzioni,
inibizioni,
falsità.
Questo
il
valore
dei
suoi
vageri.
Si
tratta
di
un
grande
filone
della
cultura
italiana
che,
se
certamente
può
essere
ridotto
a
proiezione
mitica
e
ingenua
di
un
ricordo
roussoiano
(il
buon
selvaggio),
ha
però
coinvolto
grandi
scrittori
e
poeti,
come
Saba,
Slataper
e
Tozzi
(contemporanei
di
Viani),
e in
seguito
vari
intellettuali
sulla
scia
del
Neorealismo
e
del
populismo
del
secondo
dopoguerra,
tra
i
quali
–
pur
nella
sua
originalità
–
possiamo
inserire
Pasolini.
Il
termine
e
l’idea
di
creaturale
derivano
soprattutto
da
una
matrice
cristiana
tratteggiata
da
Auerbach
nel
suo
capolavoro,
Mimesis,
in
cui
il
critico
tedesco
nota
come
tale
nozione
abbia
preso,
a
seconda
dei
casi,
un
colore
positivo
e
ottimistico
(la
gioiosità
della
vita
nelle
sue
funzioni
più
elementari)
o,
al
contrario,
un
valore
disforico
(il
destino
comune
di
debolezza,
malattia
e
morte).
Tornando
a
Viani,
Masciotta
scrive,
a
proposito
dei
vageri,
che
essi
“non
sono
solo
i
derelitti,
gli
umiliati
e
gli
offesi
[…]
ma
sono
anche,
per
Viani,
i
custodi
di
una
dignità
e
un’indegnità
primordiale,
l’una
commista
all’altra
[…]
l’esaltazione
e
l’abiezione,
la
virtù
e il
peccato,
il
coraggio
e la
paura,
l’ostentato
sprezzo
della
morte,
l’attaccamento
furioso
alla
vita.
Sono
quello
che
sono
[…]”.
Signorini
fa
eco:
“alito
di
poesia
che
idealizza
questa
razza
fiera,
ed
eroica
[…]
in
una
terra
vergine,
inesplorata
[…];
vita
semplice
e
istintiva,
una
cultura
autoctona,
un
fondo
primordiale
non
artefatto
e
libero.
Un
momento
di
felice
equilibrio
[…],
ricerca
dell’autentico
vitale”.
Ci
preme,
però,
ricordare
che
questa
esaltazione
della
vita
non
ha
nulla
in
comune
con
il
culto
del
panismo
dannunziano,
superomistico
ed
estetizzante.
Anzi,
in
parte
si
tratta
di
un
autoritratto
per
interposta
persona:
infatti,
nella
modernità
l’artista
è
inutile,
escluso,
ha
perso
l’aura
e
l’areola
nel
fango
(Baudelaire),
si è
degradato
e
umanizzato,
non
è
più
profeta,
vate
e
veggente,
non
è
più
la
guida
spirituale
o il
giudice
di
una
collettività.
Dunque,
in
quanto
privo
di
mandato
sociale,
l’artista
tra
‘800
e
‘900
si
identifica
con
la
prostituta
e il
saltimbanco
(Starobinski),
figure
di
emarginati
che
vendono
e
mercificano
se
stessi
e i
propri
doni
sacri
(l’amore,
il
gioco
o,
appunto,
l’arte).
Infine,
la
risposta
che
Viani
dà
alla
Morte
ci
viene
dal
valore
e
dalla
funzione
che
egli
attribuisce
all’arte:
un’attività
mai
fine
a se
stessa,
sempre
intesa
come
intervento
sul
reale,
azione
impegnata,
responsabilità
civile.
Citiamo
ancora
Masciotta:
“disegnare
e
dipingere
sono,
per
lui,
una
necessità
e un
privilegio,
ma
non
sono
mai
una
dannazione”.
L’arte
come
ribellione,
accusa,
ricerca
della
verità;
come
tributo
e
omaggio
a
chi
a
meno;
come
speranza
(si
pensi
al
neonato)
di
un
possibile
riscatto,
come
aspettativa
di
un
futuro
diverso.
Ai
propri
eroi
del
quotidiano,
nobili
eppur
reali
figure
di
straccioni,
“grandi
in
ogni
rischio,
nella
miseria,
nel
dolore,
nella
lotta”
(Masciotta),
il
giovane
e
combattivo
Viani
offre
piètà
e
senso
di
umanità,
a
loro
consacra
una
capacità
mitopoietica
e
utopica
capace
di
contrastare
ogni
difficoltà
presente.
Questo
è il
fascino
altero
che
ci
inculca
nel
cuore
il
volto
levato
al
cielo
della
monumentale
donna-Madonna,
questa
la
sua
sacralità,
questo
l’ottimismo
e la
luce
di
una
costruzione
che,
a
questo
punto,
non
potremo
che
leggere
come
ascendente,
tesa
verso
il
compimento.
Concludiamo
il
nostro
articolo
con
una
lunga
citazione
da
Luzi,
summa
efficace
di
tutto
il
nostro
percorso,
e
con
un
explicit
affidato
alla
voce
diretta
di
Viani
stesso,
entrambe
incredibilmente
adatte
a
commentare
l’opera
qui
presentata:
“Sappiamo
che
non
fu
uomo
rassegnato;
e
anche
non
lo
sapessimo
l’asprezza,
l’attrito,
il
sarcasmo
delle
sue
figurazioni
spettrali
o
ruvide
non
mancherebbe
di
darcene
conto.
Ma
al
di
là
di
quel
tormentoso
appuntarsi
su
una
realtà
sprizzante
schegge
dolorose
e
taglienti
c’è
nella
parte
più
matura
dell’animo
un
raccoglimento
capace
di
vedere
nelle
vittime
ben
altro
che
l’oggetto
corrispettivo
della
sua
sofferenza
o le
povere
teste
di
turco
della
sua
denuncia:
le
figure,
le
teorie
figurali
della
desolazione
umana
si
sottraggono
all’accanimento
del
pittore,
acquistano
autonomia,
dignità
dolorosa,
diventano
un
pietoso
alfabeto
per
leggere
il
mondo.
Più
che
figure
della
miseria,
dello
sconforto,
della
rivolta,
sono
allora
figure
del
destino;
e
non
c’è
bisogno
di
pensare
alla
fatalità
oscura,
come
si è
fatto,
ma
al
puro
e
nudo
stato
dell’uomo;
una
notizia
universale,
non
particolare,
anche
se
ricevuta
in
concreto
dai
volti
e
dalle
membra
della
gente
che
dipende
dal
mare
o
lavora
nella
miniera.
A
questo
livello
direi
che
la
deformazione
cede
all’intensificazione;
all’aria
maudite
subentra
un’aria
assorta,
intimamente
interrogativa,
come
ha
chi
penetra
un
inesauribile
mistero,
appunto
la
vita.
Di
essa
Viani
ci
ha
dato
infatti
il
senso
acre
e
duro
ma
anche
il
respiro
grandioso;
le
sciabolate
dei
decisi
segmenti,
delle
crude
partiture
cromatiche
che
spezzavano
ogni
idea
pervenuta
di
quadro
tendevano
a
una
ricomposizione
ardita;
in
qualche
tela
[…]
arriva
a
esprimere
la
faticosa
bellezza,
la
tribolata
religione”.
“Visitando
l’opera
mia,
per
meglio
penetrarne
l’intimo
spirito,
è
necessario
sapere
l’identità
effettiva
di
anima
che
io
sento
di
avere
coi
vagabondi
e
coi
déplacé;
la
comunanza
di
vita
che
io
ho
col
popolo,
il
quale
mi
espresse
dalle
sue
viscere
e da
cui
non
mi
sono
mai,
mai
staccato;
perché
col
popolo
e in
mezzo
al
popolo
io
vivo
e
vivendo
creo
con
amore
i
miei
eroi”.
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