N. 38 - Febbraio 2011
(LXIX)
"Lorenzaccio"
tirannicida o giovane ribelle?
di Salvina Pizzuoli
…
era
scarso
della
persona,
e
anzi
mingherlino
che
no,
e
per
questo
se
gli
diceva
Lorenzino;
non
rideva,
ma
ghignava
; e
tutto
che
egli
fosse
più
tosto
graziato
che
bello,
avendo
il
viso
bruno
e
maninconico,
andava
molte
volte
solo,
e
pareva
che
non
apprezzasse
né
roba
né
onori,
lo
chiamava
il
Filosofo,
dove
dagli
altri
che
lo
conoscevano
era
chiamato
Lorenzaccio
(Benedetto
Varchi
Storie
fiorentine)
Per
essere
mingherlino
della
persona,
alcuni
il
chiamavano
Lorenzino;
altri,
perché
egli
aveva
il
viso
bruno
e
maninconico,
ed
amava
vivere
da
sé,
e
conversare
con
gente
bassa
e di
mal
affare,
ed
anche
perché
ero
solito
a
cavarsi
tutte
le
voglie,
massimamente
nei
casi
d'amore,
senza
rispetto
alcuno
o di
sesso
o
d'età,
o di
condizione,
il
nominavano
Lorenzaccio,
altri
poi
il
Filosofo.
(Carlo
Botta
Storia
d’Italia)
I
giudizi
sopra
riportati,
espressi
a
notevole
distanza
l’uno
dall’altro,
inquadrano
con
poche
righe
malevole
il
personaggio
complesso
e
ambiguo
di
Lorenzo
dei
Medici,
figlio
di
Pierfrancesco
e
Caterina
Soderini,
appartenente
al
ramo
popolano
della
grande
casata.
Lorenzo
dei
Medici
nacque
a
Firenze
nel
1514;
detto
Lorenzino
per
il
suo
fisico
smilzo,
fu
conosciuto
anche
come
Lorenzaccio;
il
Botta
attribuisce
il
nomignolo
ai
suoi
comportamenti
massimamente
nei
casi
d’amore,
ma
altri
legano
il
nomignolo
al
fattaccio
che
lo
aveva
visto
protagonista
a
Roma
della
decapitazione
delle
statue
dei
Re
barbari
e di
quelle
delle
Muse
e di
Apollo,
le
prime
esposte
presso
l’arco
di
Costantino,
le
seconde
ad
ornamento
del
portico
dell’antica
basilica
di
San
Paolo.
Il
popolo
fiorentino
lo
chiamava
anche
faccia
di
morto.
Fu
autore
nel
1537
di
un
terribile
delitto;
uccise
con
premeditazione
il
cugino
Alessandro,
detto
il
moro,
l’allora
duca
di
Firenze,
ma
pagò
a
sua
volta
con
la
vita:
i
sicari
assoldati
da
Cosimo
I,
successore
di
Alessandro,
lo
uccisero
undici
anni
dopo
a
Venezia
dove
si
era
trasferito,
dopo
varie
peregrinazioni.
Fu
anche
uomo
di
lettere
nonché
drammaturgo
e
scrittore
raffinato,
come
ebbe
a
sottolineare
lo
stesso
Leopardi
nello
Zibaldone
riferendosi
all’eloquenza,
di
matrice
greca
e
latina,
utilizzata
da
Lorenzo
nell’Apologia
(1539):
"la
signoreggia
e
l’adopera
da
maestro,
con
una
disinvoltura
e
facilità
negli
artifizi
più
sottili,
nella
disposizione,
nei
passaggi,
negli
ornamenti,
negli
affetti,
e
nello
stile,
e
nella
lingua
(…)
che
pare
ed è
non
meno
originale
di
quegli
antichi,
ai
quali
tuttavia
si
rassomiglia".
Da
quanto
sopra
emerge
una
doppia
natura
del
personaggio
che
forse
per
questo
motivo
ha
affascinato,
soprattutto
nell’Ottocento,
scrittori,
drammaturghi,
pittori
e
più
tardi
anche
cineasti
che
gli
hanno
dedicato
le
loro
opere.
A.
Dumas
padre
gli
dedica
un
dramma
storico
in
cinque
atti
dal
titolo
Una
notte
a
Firenze
ovvero
Lorenzino
e
Alessandro
de’
Medici;
Lorenzaccio
è
invece
il
titolo
dell’opera
teatrale
scritta
nel
1834
da
Alfred
de
Musset
che
ripropone
gli
avvenimenti
storici
della
Firenze
del
1537
dove
Lorenzo,
allora
diciannovenne,
studioso
di
Plutarco
e
quindi
delle
vite
degli
eroi
dell'antichità,
desidera
il
ritorno
della
Repubblica
e la
morte
del
tiranno
Alessandro,
suo
lontano
cugino,
forse
figlio
naturale
di
papa
Clemente
VII
(Giulio
di
Giuliano
dei
Medici),
ed
eletto
primo
Duca
di
Firenze
come
frutto
degli
accordi
politici
tra
quest’ultimo
e
l’imperatore
Carlo
V.
Musset
fa
emergere
la
doppia
natura
di
Lorenzo:
da
un
lato
eroe
animato
da
un'utopia,
dall'altro
giovane
violento
e
solitario.
È la
passione
politica
o il
disagio
giovanile,
fatto
di
rabbia
impotente
nei
confronti
di
un
destino
che
lo
ha
visto
angariato
dalla
sfortuna
familiare,
a
spingerlo
al
tirannicidio?
Fu
un
eroe
liberatore
o
solo
un
ribelle
perdente?
Nella
sua
Apologia
Lorenzo
traccia
la
propria
personale
difesa
contro
tutte
le
accuse
che
gli
vengono
mosse
per
l’assassinio
del
duca
Alessandro.
Ribalta
tutte
le
possibili
imputazioni
mentre
sostiene
di
aver
voluto
la
morte
di
un
tiranno
e il
ritorno
dei
fuoriusciti
per
un
governo
della
città
espressione
del
volere
popolare
e
non
imposto
da
un
imperatore
che
per
altro
non
avrebbe
potuto
permettersi
tanto
potere.
Quando
fu
messa
in
scena
l’Aridosia,
commedia
in
cinque
atti
che
Lorenzo
allestì
nel
1536
per
le
nozze
proprio
tra
il
cugino
Alessandro
e la
figlia
naturale
di
Carlo
V
Margherita,
il
Vasari,
rievocando
a
vari
anni
di
distanza
il
dissenso
che
durante
l'allestimento
aveva
opposto
il
Sangallo
a
Lorenzo
stesso,
attribuisce
alle
sue
richieste
scenografiche,
disattese
dagli
architetti,
la
volontà
d'uccidere
in
quella
rovina
il
duca.
Già
sei
mesi
prima
dell’omicidio,
poi
riuscito,
Lorenzo
aveva
premeditato
l’assassinio
del
Duca
facendo
precipitare
su
di
lui
le
impalcature
della
scenografia
dell’Aridosia.
Il
contenuto
stesso
della
commedia
può
contenere
interessanti
chiavi
di
lettura;
nel
Prologo
si
legge
Se
voi
averete
pazienza,
sarete
spettatori
di
una
nuova
commedia
intitolata
Aridosia,
da
Aridosio
detta
(Aridosio
chiamato
per
essere
più
arido
che
la
pomice)
della
quale
vi
conforto
a
non
curarvi
di
saper
l’autore,
perch’egli
è un
certo
omiciatto,
che
non
è
nessun
di
voi
che
veggendolo
non
l’avesse
a
noia,
pensando
che
egli
abbia
fatto
una
commedia.
Nel
protagonista,
Aridosio,
quasi
una
vendetta
letteraria,
si
può
ravvisare
Papa
Clemente
definito
da
Lorenzo
troppo
avaro,
al
punto
di
avanzare
l’idea
di
ucciderlo;
ma
vi
si
può
ravvisare
anche
il
rancore
verso
il
proprio
padre
che
morendo
lo
aveva
lasciato
all’età
di
undici
anni
senza
sostanze
perché
pieno
di
debiti;
ma
anche
verso
lo
stesso
duca
Alessandro,
compagno
di
studi
e
scorribande,
ma
non
abbastanza
generoso
nei
confronti
del
suo
preferito.
Il
confronto
tra
la
sua
miseria
e la
ricchezza
altrui
avevano
sin
dall’inizio
scandito
la
vita
di
Lorenzo;
la
situazione
economia
nella
quale
versava
non
si
confaceva
alla
sua
indole:
dotato
di
un’intelligenza
vivace,
era
portato
agli
studi
ed
alla
meditazione;
sognatore
e
idealista,
dalle
letture
sull’antichità
classica
traeva
spunto
per
immaginare
grandi
imprese
mentre
la
realtà
lo
costringeva
ad
un
ruolo
subalterno.
A
Bologna
ad
esempio,
dove
Carlo
V fu
incoronato
imperatore,
conobbe
Clemente
VII
e lo
seguì
poi
a
Roma
ospite
di
Filippo
Strozzi.
Carlo
Rusconi
nel
1859
costruisce
intorno
all’avvenimento
un
romanzo
storico
in
cui
trova
spazio
la
figura
di
Alessandro
Medici
e
del
cugino
Lorenzino.
I
machiavellici
ricatti
del
giovane
al
duca
Alessandro
e la
nota
su
Lorenzo
medesimo
dello
stesso
Rusconi,(3)
accolgono
l’ipotesi
di
un
atto
perpetrato
per
riscattare
la
propria
condotta
e
lavare
l’onta
derivatagli
anche
dai
fatti
di
Roma:
la
decapitazione
non
solo
delle
teste
coronate,
atto
che
avrebbe
potuto
essere
interpretato
come
regicidio
e
quindi
contro
tutte
le
tirannie,
ma
anche
di
antiche
statue
di
divinità
greche,
gli
valse
non
solo
il
bando
dalla
città,
ma
l’orazione
latina
di
uno
dei
maggiori
studiosi
e
letterati
romani:
"Il
nostro
Molza
nell’Accademia
Romana
alla
presenza
di
molti
Cardinali
e
Prelati,
e di
quasi
tutta
la
nobiltà
Romana
recitò
contro
di
lui
un’elegantissima
Orazione
latina
così
pungente
e
piena
di
strazi
e di
motti
penetranti
al
vivo,
che
il
misero
costernato
e
confuso
si
pensò
di
non
poter
levarsi
giammai
questa
maschera
di
viso"
(Pierantonio
Serassi
Poesie
di
F.
M.
Molza).
Cosa
lo
aveva
mosso
ad
un
comportamento
così
poco
oculato?
L’invidia
nei
confronti
di
chi,
come
il
cugino
Cardinale
Ippolito,
poteva
permettersi
di
trarre
dal
suolo
di
Roma
tanti
rari
reperti
antichi
oppure
la
volontà
di
distruggere
per
ricavarne
fama
o
comunque
notorietà?
Tornato
a
Firenze
da
Roma
Lorenzino
si
stabilisce
in
città
e
accetta
l’amicizia
e la
benevolenza
di
Alessandro
ormai
Duca
e
non
più
suo
pari,
ma
nell’
Apologia
espresse
chiaramente
il
suo
disprezzo
per
il
modo
in
cui
veniva
esercitato
il
suo
tirannico
potere
nella
città
di
Firenze
e
l’implicita
necessità
di
porre
fine
alle
sue
malefatte:
lui
medesimo
excogitava
e
trovava
nuove
sorte
di
tormenti
e di
morte,
come
murare
gli
uomini
vivi
in
luoghi
cosí
angusti
che
non
si
potessino
né
voltare
né
muovere
ma
si
potevon
dir
murati
insieme
con
le
pietre
e co’
mattoni,
e in
tale
stato
gli
faceva
nutrire
miseramente
e
allungare
l’infelicità
loro
piú
che
era
possibile,
non
si
saziando
quel
monstro
colla
morte
semplice
de’
sua
cittadini
[…]
tanti
essere
stati
decapitati
senza
processo
e
senza
causa
e
solamente
per
van
sospetti
e
per
parole
di
nessuna
importanza;
altri
essere
stati
avvelenati
e
morti
di
sua
mano
propria
[...]
Si
troveranno
inoltre
essere
state
fatte
tante
extursioni
e
prede,
essere
stati
commessi
tanti
adulterî
e
usate
tante
violenzie,
non
sol
nelle
cose
profane
ma
nelle
sacre
ancora,
che
gli
apparirà
difficile
a
giudicare
chi
sia
stato
piú:
o
scelerato
e
impio
il
tiranno,
o
paziente
e
vile
el
populo
fiorentino
avendo
soportato
tanti
anni
cosí
grave
calamità
[…].
Quanto
scrisse
nell’Apologia
fu
per
trarre
credito
al
proprio
operato
o fu
veritiera
convinzione?
Giuseppe
Bezzuoli
nel
1837
dedicò
alla
sua
morte
un
dipinto
intitolato
Uccisione
di
Lorenzino
de'
Medici.
Viene
ritratto
il
momento
ed
il
luogo
dell’esecuzione
il
26
febbraio
1548,
in
campo
San
Polo
a
Venezia,
dove
Cecchino
da
Bibbona
e
Bebo
da
Volterra
assalirono
Lorenzino
e lo
giustiziarono.
Dopo
la
sua
esecuzione,
intorno
al
suo
nome
si
stese
il
silenzio,
come
se
si
trattasse
di
una
persona
incomoda
a
tutti,
mentre
la
saggezza
popolare
inquadrava
quello
spirito
singolare
in
un
detto
eloquente
esser
come
Lorenzo
che
non
lo
volle
né
Dio
né
‘l
diavolo.