N. 36 - Dicembre 2010
(LXVII)
Locke & Hobbes
lo stato di natura
di Roberto Rota & Biagio Nuciforo
Lo
stato
di
natura
è
quella
condizione
pre-politica
in
cui
versa
l’uomo
prima
della
fondazione
della
società.
Tale
stato
non
allude
ad
una
situazione
politica
di
fatto
ma
ad
una
norma
ideale
che
funge
da
criterio
di
giudizio;
è
un’ipotesi
necessaria
per
la
costruzione
di
ogni
teoria
contrattualistica
e
per
ogni
speculazione
sull’origine
della
società.
Il
filosofo
Norberto
Bobbio
ha
colto
alcune
dimensioni
dello
stato
di
natura
non
più
pensato
astrattamente
ma
concretamente
verificabile
nel
mondo
reale:
1. Una
dimensione
“pre-statale”
che
è
quella
dei
popoli
primitivi
non
ancora
politicamente
organizzati;
2. Una
dimensione
“anti-statale”
che
è
quella
dell’anarchia
e
della
guerra
civile;
3. Una
dimensione
“inter-statale”
che
è
quella
intrinsecamente
presente
nella
realtà,
cioè
la
rivalità
diplomatica
e
politica
tra
stati
sovrani
nei
rapporti
internazionali.
Detto
questo,
partiamo
dalla
concezione
hobbesiana
dello
stato
di
natura.
Secondo
Hobbes
nello
stato
“pre-sociale”,
ossia
nella
fase
antecedente
alla
nascita
della
società,
vige
il
diritto
di
natura
cioè
il
diritto
di
tutti
su
tutto
poiché
non
essendoci
leggi,
tutto
è
consentito.
Ciascun
individuo
è
giudice
dei
mezzi
necessari
alla
propria
difesa
e
alla
propria
sopravvivenza.
Il
diritto
naturale
finisce
così
per
tradursi
nello
ius
in
omnia
ovvero
in
una
libertà
illimitata.
Ma
proprio
dall’universalità
di
questa
libertà
nasce
il
suo
limite.
Infatti,
come
dice
lo
stesso
Hobbes,:
“Fuori
dello
stato
civile,
ciascuno
ha
una
libertà
del
tutto
completa
ma
sterile,
poiché
chi,
per
la
sua
libertà,
fa
tutte
le
cose
a
suo
arbitrio,
per
la
libertà
degli
altri
patisce
tutte
le
cose,
ad
arbitrio
altrui”
(dal
De
cive
di
T.
Hobbes).
La
molteplice
universalità
dello
ius
in
omnia
si
scontra
con
la
sua
implicita
libertà,
rendendo
questo
diritto
praticamente
utopistico.
In
definitiva,
poiché
il
fondamento
del
diritto
naturale
è
che
ciascuno
cerca
di
difendere
la
propria
vita,
secondo
quelle
che
sono
le
sue
potenzialità
e la
sua
forza,
il
diritto
stesso
sarà
tanto
grande
quanto
lo è
la
forza
del
singolo
individuo.
Da
ciò
ne
deriva
che
lo
stato
pre-sociale,
dove
vige
lo
ius
in
omnia,
è
uno
stato
di
guerra
perenne,
una
guerra
di
tutti
contro
tutti
(bellum
omnium
contra
omnes).
Il
diritto
illimitato
è
tale
“per
cui
un
uomo
invade
con
diritto,
e un
altro
con
diritto
resite,
e
gli
uomini
perciò
vivono
in
perpetua
diffidenza,
e
studiano
il
modo
di
usurparsi
l’un
l’altro,
la
situazione
dell’uomo
in
questa
libertà
naturale
è lo
stato
di
guerra”
(dal
De
cive
di
T.
Hobbes).
Ogni
individuo,
egoista,
asociale
e
dominato
dalla
bramosia
di
affermare
il
suo
“diritto”
su
tutto
e
tutti,
non
esita
a
combattere
contro
gli
altri,
e
ciò
è
possibile
poiché
ogni
uomo
è,
per
natura,
indifferente
e
nemico
dell’altro:
ogni
uomo
è
lupo
per
l’altro
uomo
(homo
homini
lupus).
Lo
stato
di
natura,
quindi,
implica
più
danni
che
vantaggi
poiché
gli
uomini
vivono
nel
continuo
rischio
di
perdere
quelli
che
sono
i
beni
fondamentali
e
cioè
la
pace
e la
vita.
La
ragione
naturale,
intesa
da
Hobbes
come
capacità
di
prevedere
il
futuro
e
provvedere
alle
necessità
della
vita
(ricordiamo
che
per
Hobbes
la
ragione
è la
capacità
di
fare
previsioni
e di
stabilire
i
mezzi
per
raggiungere
i
propri
scopi)
detta
all’uomo
tre
fondamentali
leggi
di
natura
(lex
naturae).
La
prima
legge
afferma
che
bisogna
ricercare
la
pace
per
la
conservazione
della
propria
esistenza
(pax
est
quaerenda)
per
evitare
la
guerra
o
meglio
“si
deve
ricercare
la
pace
quando
la
si
può
avere;
quando
non
si
può
bisogna
cercare
aiuti
per
la
guerra”.
La
seconda
legge
afferma
che
bisogna
rinunciare
al
diritto
su
tutto
(ius
in
omnia
non
retinendum),
in
base
a
tale
legge
la
ragione
naturale
consiglia
agli
uomini
di
stipulare
un
accordo
o un
contratto
in
virtù
del
quale
essi
convengono
alla
creazione
di
una
comunità
rinunciando
ai
propri
diritti
naturali
dandosi
un
sovrano.
La
terza
legge
di
natura,
infine,
afferma
che
bisogna
stare
ai
patti
(pactis
standum,
pacta
sunt
servanda),
giacché
sarebbe
contraddittorio
cedere
i
propri
diritti
e
nello
stesso
tempo
volerli
mantenere.
Si
evince,
quindi,
che
la
visione
dell’uomo
è
abbastanza
pessimistica
poiché,
per
esempio,
a
differenza
di
Aristotele
che
definiva
l’uomo
come
un
“animale
socievole”
in
questo
caso
esso
è
interessato
esclusivamente
al
proprio
interesse
e
per
raggiungerlo
usa
tutte
le
sue
astuzie
e
crudeltà.
E la
società
nasce
proprio
da
queste
premesse,
in
quanto
l’uomo,
temendo
di
perdere
la
sua
vita
e i
suoi
beni,
si
accorda
con
gli
altri
per
la
ricerca
della
tranquillità.
La
concezione
dello
stato
di
natura
di
Locke
è
abbastanza
differente,
anche
se
nelle
linee
generali
si
basa
sugli
stessi
principi
di
Hobbes.
Nel
pensiero
di
Locke,
allo
stato
di
natura,
gli
uomini
si
trovano
in
una
condizione
di
uguaglianza
governati
dalla
“legge
di
natura”
che
s’identifica
con
la
stessa
ragione.
La
ragione,
quindi,
ha
per
oggetto
i
rapporti
tra
gli
uomini
e
prescrive
le
reciprocità
di
questi
rapporti.
Tale
reciprocità
e
intimamente
connessa
all’uguaglianza
primordiale
degli
uomini,
infatti
la
legge
di
natura
limita
il
diritto
naturale
di
ciascuno
con
quello
degli
altri.
È
qui
evidente
una
grossa
differenza
con
Hobbes,
infatti
Locke,
al
contrario
del
primo,
afferma
che
non
c’è
differenza
tra
legge
e
diritto
naturale
poiché
l’uomo
è
sempre
illuminato
dalla
ragione,
che
è,
in
definitiva,
riflesso
della
volontà
di
Dio.
In
Hobbes
ciò
non
era
scontato
poiché
la
legge
(ciò
che
impone
una
certa
attività
o
azione)
era
divisa
dal
diritto
naturale
(libertà
di
fare
qualsiasi
cosa)
e
per
questo
il
diritto
non
era
limitato.
Per
Locke,
quindi,
nello
stato
di
natura
gli
uomini
sono
comunque
illuminati
da
una
legge
morale
che
è il
frutto
della
divina
provvidenza.
Il
concetto
di
libertà
non
si
identifica
con
quello
di
illimitatezza
né,
tantomeno,
con
il
“non
impedimento”
hobbesiano
il
quale
porterebbe
ad
una
concezione
della
libertà
incompatibile
con
il
bene
fondamentale
della
pace.
L’uguaglianza
sarebbe
saturata
nei
suoi
principi
e si
ridurrebbe
alla
semplice
“
uguaglianza
della
capacità
di
potersi
nuocere
a
vicenda”.
Locke
afferma
invece
che
lo
stato
di
natura
non
è
una
continua
anarchia
poiché
in
esso
gli
uomini
godono
di
tre
diritti
fondamentali:
1. -
Il
diritto
alla
vita;
2. -
Il
diritto
alla
libertà;
3. -
Il
diritto
alla
proprietà
(che
discende
dal
lavoro).
“
Per
ben
intendere
il
potere
politico
e
derivarlo
dalla
sua
origine,
si
deve
considerare
in
quale
stato
si
trovino
naturalmente
tutti
gli
uomini,
e
questo
è
uno
stato
di
perfetta
libertà
di
regolare
le
proprie
azioni
e di
disporre
dei
propri
possessi
e
delle
proprie
persone
come
si
crede
meglio,
entro
i
limiti
della
legge
di
natura,
senza
chiedere
permesso
o
dipendere
dalla
volontà
di
nessun
altro.
È
uno
stato
di
eguaglianza,
in
cui
ogni
potere
e
ogni
giurisdizione
è
reciproca,
nessuno
avendone
più
di
un
altro,
poiché
non
vi è
nulla
di
più
evidente
di
questo,
che
creature
della
stessa
specie
e
dello
stesso
grado,
nate,
senza
distinzione,
agli
stessi
vantaggi
della
natura,
e
all’uso
delle
stesse
facoltà,
debbano
essere
uguali
fra
loro,
senza
subordinazione
o
soggezione
[…]
Ma
sebbene
questo
sia
uno
stato
di
libertà,
tuttavia
non
è
uno
stato
di
licenza:
sebbene
in
questo
stato
si
abbia
la
libertà
incontrollabile
di
disporre
della
propria
persona
e
dei
propri
averi,
tuttavia
non
si
ha
la
libertà
di
distruggere
né
se
stessi
né
qualsiasi
creatura
in
proprio
possesso
[…]
lo
stato
di
natura
è
governato
dalla
legge
di
natura,
che
obbliga
tutti:
e
alla
ragione,
ch’è
questa
legge,
insegna
a
tutti
gli
uomini,
purché
vogliano
consultarla,
che,
essendo
tutti
uguali
e
indipendenti,
nessuno
deve
recar
danno
nella
vita,
nella
salute,
nella
libertà
o
nei
possessi
[…]”.
(dal
Secondo
trattato
sul
governo
civile
di
J.
Locke)
Lo
stato
di
natura,
che
precede
la
società
e la
politica,
non
è,
dunque,
caratterizzato
dagli
egoismi
e
dagli
individualismi
ma,
bensì,
da
quella
legge
naturale
e
morale
che
si
esplica
con
i
concetti,
apparentemente
antitetici,
di
libertà
e di
rispetto,
di
armonia
e
d’indipendenza.
L’unica
autorità
a
cui
l’uomo
deve
sottostare
sono
le
stessi
leggi
di
natura,
nella
società
politica,
invece,
si
aggiungono,
ai
primordiali
principi
morali,
le
leggi
positive
create
dall’uomo.
“E
perché
tutti
siano
trattenuti
dal
violare
il
diritto
altrui
e
dal
far
torto
ad
altri,
e
sia
osservata
la
legge
di
natura,
che
vuole
la
pace
e la
conservazione
di
tutti
gli
uomini,
l’esecuzione
della
legge
di
natura
è,
in
questo
stato,
posta
nelle
mani
di
ciascuno,
per
cui
ognuno
ha
il
diritto
di
punire
i
trasgressori
di
questa
legge,
in
misura
tale
che
possa
impedirne
la
violazione,
perché
la
legge
di
natura,
come
ogni
altra
legge
che
riguarda
gli
uomini
in
questo
mondo,
sarebbe
inutile,
se
non
ci
fosse
nessuno
che
nello
stato
di
natura
avesse
il
potere
di
farla
eseguire,
e
così
proteggere
gli
innocenti
e
reprimere
gli
offensori”.
(dal
Secondo
trattato
sul
governo
civile
di
J.
Locke)
Lo
stato
di
natura,
quindi,
dovrebbe
portare
necessariamente
ad
una
perenne
condizione
di
pace.
Invece
esistono
degli
individui
che
costantemente
hanno
la
tendenza
a
violare
la
legge
su
cui
tale
stato
è
costituito.
Ne
segue
che,
poiché
tutti
sono
uguali,
ognuno
ha
diritto
e
punire
coloro
che
hanno
infranto
la
pace.
In
tal
modo
ognuno
sarebbe,
potenzialmente,
giudice
di
se
stesso
e
ciò
condurrebbe
di
fatto
ad
un
continuo
stato
di
guerra,
in
cui
ognuno
è
interessato
a
difendere
esclusivamente
il
proprio
interesse.
Si
rende
necessario,
quindi,
un
potere
superiore
e
comune
a
cui
affidare
il
potere
giudiziario
e
quello
legislativo.
Tale
potere
è il
fondamento
del
contratto
sociale
e
della
società
politica,
ma
esso
non
annulla,
a
differenza
di
come
pensava
Hobbes,
i
diritti
che
l’uomo
aveva
nello
stato
di
natura.
L’unico
diritto
eliminato
è
quello
di
farsi
giustizia
da
soli.
Le
conclusioni
a
cui
giungono
i
due
pensatori
sono
molto
diverse
ma
esse
partono
da
presupposti,
essenzialmente,
simili
e
cioè
da
una
società
che
si
trova
in
un
perenne
stato
di
guerra.
Tale
conflitto
nasce
dalle
passioni
individuali,
dallo
ius
in
omnia
ma
soprattutto
dalla
volontà
di
difendersi
contro
“l’altro”
che
è,
sostanzialmente,
un
nemico.
Proprio
la
paura
e il
timore
reciproco
spingono
gli
uomini
ad
allearsi
nella
guerra
per
correre
meno
rischi:
“Così
accade
che,
per
paura
reciproca,
pensiamo
che
si
debba
uscire
da
tale
stato,
e
cercare
dei
soci,
affinché
se
si
deve
affrontare
la
guerra,
non
sia
contro
tutti
né
senza
aiuti”
(dal
De
Cive
di
T.
Hobbes).
“
Poiché
si
suppone,
per
eguaglianza
delle
forze
e
delle
altre
facoltà
naturali
dell’uomo,
che
nessuno
ha
un
potere
sufficiente
da
essere
sicuro
per
lungo
tempo
di
conservarsi
grazie
ad
esso,
finché
rimanga
nello
stato
di
ostilità
e di
guerra,
la
ragione
comanda
a
ogni
uomo,
per
il
suo
bene,
di
cercare
la
pace,
tanto
più
quanto
vi
sia
speranza
di
raggiungerla;
e di
lottare,
con
ogni
aiuto
egli
possa
procurarsi,
per
la
propria
difesa
contro
coloro
dai
quali
tale
pace
non
può
essere
ottenuta,
e di
fare
tutte
quelle
cose
che
necessariamente
vi
conducono”
(da
Elementi
di
legge
naturale
e
politica
di
T.
Hobbes).