contemporanea
NELLA LIVORNO DEL 1841
SUL CENSIMENTO E SUI MOTI RISORGIMENTALI
LIVORNESI / PARTE I
di Maria Grazia Fontani
La raccolta di dati di un censimento
demografico è una fonte cospicua di
informazioni oggettive di una realtà, di
un territorio, di un periodo. Quello che
presento è un piccolo squarcio nella
Livorno di metà ‘800, una carrellata di
tracce di costume e di storia contenute
in una serie di registri solo
all’apparenza asettici, ossia quelli
originali del Censimento del Granducato
di Toscana del 1841, compilati dai
parroci per censire l’intera
popolazione. Anzi, per censire le anime,
come riporta la dicitura originale: “Stato
delle anime della detta parrocchia” e si legge in tutti
i registri: “Compilato nel mese di
aprile 1841 dall’infrascritto parroco in
esecuzione delle sovrane disposizioni
contenute nel biglietto della Reale
Segreteria di Stato del 12 novembre
1840”.
In calce la firma è del parroco, quindi
data la diversità delle calligrafie fra
registri diversi ma l’omogeneità in ogni
singolo registro, non è escluso che
siano stati compilati interamente dai
parroci in persona. È
possibile reperire tali registri sul
sito dell’Archivio di Stato di Firenze.
Questo censimento costituì la prima
rilevazione ufficiale di tutto il
Granducato e fu voluta dal Granduca
Leopoldo II di Lorena per tentare di
descrivere la popolazione toscana nel
suo complesso, riportando il numero di
abitanti, il numero di figli per
famiglia, il domicilio, la provenienza,
la religione, la professione o comunque
lo stato sociale e l’istruzione di base.
Mi sono soffermata sui registri di
Livorno, anche per cercare curiosità e
conferme di fatti storici noti.
Le parrocchie trovate censite della
città di Livorno sono solo alcune: manca
tutta la parte sud della città forse non
ancora digitalizzata o andata perduta.
Sono comunque registrati più di 70.000
abitanti.
Una
brevissima digressione: mentre nei
registri del censimento si parla di
“religione” e “patria”, nei registri di
Stato Civile presenti sempre
nell’Archivio di Stato di Firenze, come
annotazione a mano si trovano diciture
di questo tipo:
Funaro
Angiolo di Giuseppe iscritto nei disopra
atti (nato nel 1856) è di razza
ebraica come risulta da denunzia
fatta al Comune il 22 febbraio 1939 (XVII).
Queste
poche annotazioni fanno toccare con mano
le conseguenze delle varie leggi
razziali del regime fascista emesse a
seguito della pubblicazione del
Manifesto della Razza del 1938, in
particolare del Regio decreto-Legge 17
novembre 1938-XVII, N.1728 Provvedimenti
per la difesa della razza italiana, che
all’ Art. 9 recita: “’appartenenza
alla razza ebraica deve essere
denunziata ed annotata nei registri
dello stato civile e della popolazione.
Tutti gli estratti dei predetti registri
ed i certificati relativi, che
riguardano appartenenti alla razza
ebraica, devono fare espressa menzione
di tale annotazione. Uguale menzione
deve farsi negli atti relativi a
concessione o autorizzazioni della
pubblica autorità. I contravventori alle
disposizioni del presente articolo sono
puniti con l’ammenda fino a lire
duemila”.
Ben altra è l’aria che si respira a
Livorno sulle pagine del nostro
censimento: dall’emanazione delle Leggi
Livornine da parte del Granduca
Ferdinando I de’ Medici alla fine del
‘500, che resero Livorno la “città delle
Nazioni”, convivevano etnie, lingue,
religioni e culture diversissime, e
questo “melting pot” si
percepisce benissimo nei registri del
1841.
Ovviamente il taglio allo studio della
lettura dei dati è molteplice (dallo
studio sulla diffusione dei nomi e dei
cognomi alla toponomastica del tempo),
ma mi soffermerò su alcune osservazioni
riguardanti la composizione della
società. Leggendo le schede si comprende
il grande affollamento del centro città:
i palazzoni sono quasi sempre di quattro
o cinque piani, con l’aggiunta spesso di
abitazioni in soffitta, e pieni
di famiglie numerose.
Questo affollamento si spiega col fatto
che allora il centro città era il cuore
commerciale e artigianale e le persone
avevano l’opportunità di sbarcare il
lunario proprio abitando in centro, in
quanto lì erano a disposizione i
mestieri legati al mare (pescatori,
marinai, barcaioli, calafati) e al
commercio, oltre a una grande quantità
di botteghe artigiane; appena si usciva
da esso l’attività principale riguarda
il lavoro nei campi, svolto da
ortolani e da coloni. Più
avanti elencherò un gran numero di
professioni ormai desuete, che però
fanno capire la quantità di botteghe e
di laboratori esistenti al tempo.
Altro discorso per i rioni più
benestanti: qui si abitano le case o i
palazzi di famiglie di ricchi possidenti
immobiliari. Proprio la parola
possidente frequentemente indica la
professione del capofamiglia, mentre le
mogli sono sempre atte a casa
(non più lavandaie, serve o artigiane
come spesso indicate se abitanti nel
centro città) e quasi sempre sanno
leggere e scrivere.
Appare immediatamente chiaro che è
possibile analizzare con precisione la
composizione di ogni famiglia. Oltre al
numero e alle età dei figli, emerge
spesso la presenza di conviventi,
talvolta parenti anziani vedovi che
spesso sono i genitori degli sposi,
oppure zii o zie celibi o vedovi (e
quasi sempre indigenti o addirittura
svolgenti l’attività di questuanti e dei
quali i più giovani prendevano in carico
almeno l’alloggio), ma anche cognati o
cognate celibi magari nullafacenti in
una sorta di “welfare” molto semplice ed
economico da attuare.
Porto come esempio la composizione di
una famiglia con ben 9 figli: quella
dell’oste Giovan Battista Brogi,
proprietario della Locanda della Luna
sita in Piazza delle Erbe (l’attuale
Piazza Cavallotti) al numero 30 (in
realtà 930, in quanto i numeri civici
sono preceduti da una cifra,
indipendente dalla parrocchia o dalla
via, forse retaggio di un tipo di
numerazione precedente che coinvolgeva
gli isolati), primo piano. La moglie
Maria Guerra è analfabeta, le età dei
figli sono (in anni): 18, 16, 13, 12, 9,
8, 5, 3, 1; i figli maggiori, Giuseppe e
Clementina, sono un oste e una sarta;
solo il capofamiglia e il figlio
Giuseppe sanno leggere e scrivere mentre
gli altri più piccoli (Giuseppe, Teresa,
Assunta, Baldassarre, Carlotta, Matteo e
Francesca) sono ovviamente analfabeti.
Con loro convivono una serva, un guarda
forzati (presumibilmente marito della
serva) e un oste garzone.
Un altro esempio interessante è un
ragazzo che fa il porta pesce (o
porta pescato) che abita con la
giovane coppia formata da Giuseppe
Fidani (garzone di pescivendolo) e
Orsola Zecchi, anche in questo caso in
Piazza delle Erbe 30, ma al quarto
piano. Si chiama Riccardo Degli
Innocenti (tipico cognome dei
trovatelli), ha 18 anni e vive con i due
coniugi senza figli di 34 e 29 anni, che
evidentemente lo hanno accolto in una
sorta di “affido ante litteram”, ma
anche di praticantato. Non è affatto
raro, infatti, che il garzone di bottega
abiti nella casa del padrone, come
abbiamo già visto anche nella Locanda
della Luna.
Se si potesse calcolare accuratamente
l’età media della popolazione, essa
risulterebbe sorprendentemente bassa,
dato il gran numero di figli a famiglia
e la presenza di pochissimi grandi
anziani. Come ho già detto, spesso gli
anziani conviventi in un nucleo
familiare sono registrati questuanti
o mendicanti, e indicati come
indigenti necessari nella apposita
colonna. Questa condizione è riferita
spesso a vecchi senza figli, menomati
fisici, o vedove senza sostentamento per
i quali la condizione indicata è quella
di questuanti, mendicanti, mendichi
senz’arte, poveri o addirittura
miserabili.
Poiché la tutela dei dati sensibili non
era ancora nelle abitudini, le persone
(soprattutto quelle censite negli
ospedali, ma non solo) sono definite
anche in rapporto alla loro menomazione:
storpio, cieco, demente, imbecille,
ebete, gobbo, tendente alla mania,
apopletico, inabile, impotente d’età,
paralitico o accidentato infermo.
Per loro la condizione di indigenza è
definitiva, mentre i lavoratori solo
momentaneamente senza occupazione, che
perciò stentano a mantenere la famiglia,
sono definiti indigenti causali;
con disimpiegati ho ipotizzato
siano indicati coloro che, pur
momentaneamente non lavorando, sono
ancora in grado di sostentare sé stessi
e loro famiglia.
Non è raro il caso di nuclei familiari
non imparentati ma conviventi nella
forma “a casigliano”: un modo di
dividere le spese dell’affitto vivendo
solo in una stanza con l’uso comune dei
servizi. Come esempio: a casa di
Valentino Bandecca sposato con cinque
figli, censito nella Parrocchia di San
Benedetto, vivono anche due coniugi
senza figli (il marito è
navicellajo), una madre vedova
con la nuora anch’essa vedova e il
nipote di 11 anni. Non sembrerebbero
nuclei imparentati, ma non è certo
perché il parroco di questa parrocchia
omette i cognomi da nubile delle
maritate. Interessante notare che la
nuora vedova ha lasciato il cognome del
marito per riprendere il suo da ragazza.
.
Una delle tante pagine dei registri
nella quale si percepisce il numero di
poveri presenti in città
Una intera pagina di indigenti.
S.C.T. filza 12129, Censimento,
Parrocchia di San Ferdinando
Un’interessante e quasi commovente nota
del parroco della Parrocchia dei Santi
Pietro e Paolo (ubicata in zona porto),
don Giovan Battista Quilici, spiega, in
modo accorato, quasi volendo
giustificare il gran numero di poveri
della sua parrocchia, che fra gli
indigenti casuali (sbagliando
l’ortografia del termine) si devono
annoverare: i pescatori (i quali,
impossibilitati a pescare per il tempo
avverso, languiscono nella miseria
per delle settimane essi e le loro
famiglie), i barcaioli (che lavorano
solo nella stagione dei bagni e negli
altri tempi il loro meschino guadagno
non è sufficiente al mantenimento delle
loro famiglie) e i marinari,
i quali intraprendono lunghi viaggi e
lasciano da sole le famiglie
nell’indigenza più assoluta (Fra
questi una gran parte s’occupano della
pesca del corallo. Questo travaglio dura
circa sei mesi all’anno il rimanente di
questo restando essi in terra senz’altra
industria trovansi oppressi dall’inopia
colle sventurate famiglie).
Analoga
descrizione anche in calce alle
rilevazioni della Parrocchia della
Santissima Trinità, nelle quali il frate
Tommaso Vannucci ripete più o meno la
stessa descrizione dell’indigenza dei
pescatori, dei marinari (spesso indicati
assenti nel censimento in quanto
imbarcati) e dei barcaioli, ma aggiunge
anche i garzoni di forno, i maestri
d’ascia e i calafati le cui mogli sono
costrette sovente a ricorrere all’altrui
soccorso per alimentare sé stesse e i
figlioli.
Il parroco della Parrocchia di San
Ferdinando, don Antonio Maria Perozzi,
scrive in calce alle sue rilevazioni:
La popolazione della Parrocchia di San
Ferdinando di Livorno è per la maggior
parte povera e miserabile, ed i capi di
famiglia o non hanno mezzi per far
studiare i loro figli o nulla cura si
prendono per la loro educazione.
Spesso si intravedono drammi familiari
dalla semplice lettura delle righe del
censimento. Non è infrequente trovare un
marito con figli, il più piccolo dei
quali ha magari pochi mesi, vedovo (la
moglie probabilmente è morta di parto),
che, pur essendo di basso ceto, convive
con una serva giovane, una ragazza che,
forse in cambio quasi solo di vitto e
alloggio, si prende cura della famiglia.
Talvolta si notano differenze di età
considerevoli fra i coniugi, anche in
ceti molto bassi, e si intuisce un
secondo matrimonio dalle età dei figli
di primo letto, di poco inferiori a
quella della madre.
Sempre pensando alle condizioni
assistenziali dei poveri e degli
infermi, ho voluto scorrere le pagine di
due ospedali cittadini, uno maschile e
uno femminile. Il Vice Priore Pio
Salvatori elenca sia i dipendenti (ben
94 fra religiosi e laici) che gli
infermi ricoverati nell’Ospedale di
Sant’Antonio (“solo” 78, dagli 8 ai 95
anni), indicando questi ultimi tutti
come infermi senza altre specifiche e
anche indigenti necessari.
Dai registri della Parrocchia di Santa
Barbara, risulta che presso l’annesso
Spedale delle donne della Misericordia
(dove era presente la famosa “ruota” dei
trovatelli la cui custode, Maria Anna
Dazzi risulta censita di anni 54 e
moglie del Parenti che al rigo
precedente risulta di nome Giovacchino,
portinajo, nato a Firenze e di
anni 64) invece sono ricoverate circa 75
donne inferme (la più giovane ha solo 35
anni, una corallaja convulsionante,
e la più anziana 86) con patologie più o
meno gravi (cieca, imbecille,
storpia, con gamba amputata, tendente
alla mania, apopletica). Si intuisce
che il ricovero in queste strutture non
costituiva una cura ma una forma di
assistenzialismo “definitivo” riservato
a persone invalide e incapaci di
sostentarsi: all’inizio dell’elenco si
legge infatti “Famiglia delle inferme
croniche”.
Per quanto riguarda gli orfani, sapevo
che le due strutture cittadine preposte
al loro ricovero fossero le Case Pie per
le femmine e il Refugio, la vecchia
scuola di mozzi fondata nel 1754, per i
maschi, entrambi ubicate nel quartiere
della Venezia Nuova.
Alle Case Pie (Parrocchia di San
Ferdinando) sono censite più di 150 fra
donne e ragazze (chiamate alunne
della Casa Pia) tutte celibi
con un’età che varia dagli 8 ai 73 anni,
mentre al Refugio si trovano una
cinquantina di ragazzi reclusi nel
Pio Istituto dagli 8 ai 15 anni,
tutti apprendisti sarti, calzolai,
falegnami, legnaioli a dimostrazione del
fatto che a metà ottocento la scuola di
mozzi (voluta per scopi assistenziali ma
anche per ridurre la criminalità in
città e per fornire mano d’opera
qualificata per le attività marinare, in
un’ottica molto avanzata e liberale per
il tempo) era stata sospesa a favore di
una scuola professionale. Verrà però
riaperta in seguito.
Il curato Giuseppe Francini, parroco
della Parrocchia del Bagno dei
Condannati, elenca diligentemente 205
Condannati ai Pubblici Lavori
(riportato per tutti alla voce Stato
Personale) con un’età che varia dai 20
ai 70 anni, riportando provenienza,
religione, stato civile e livello di
istruzione di ognuno.
La città, appena fuori dal centro e
dalla cerchia di mura, prendeva
immediatamente l’aspetto della campagna.
Nelle famiglie dedite alla coltivazione
degli orti (detti ortolani ma in
certe zone più periferiche coloni)
non è infrequente la convivenza di più
nuclei familiari. Così la vedova
Caterina Cajoli di 68 anni che abita
negli orti della villa della famiglia
Villa Reale (forse di corretta grafia “Villareale”,
di probabili origini spagnole, forse
proveniente da una delle città
denominate Villarreal), in una non
precisata via nel centro città, dato che
è censita dal parroco di San Benedetto,
convive con altre 12 persone: i figli
Tommaso, Michele e Giuseppe e le
rispettive mogli, 4 nipotini, la figlia
Flavia nubile e il custode Giovanni.
Il quadro socio-economico che traspare
dalla lettura di questi registri è
abbastanza desolante: la miseria si
tocca con mano e la difficoltà di
mettere insieme il pranzo con la cena
sembra all’ordine del giorno. Ovviamente
nei quartieri più ricchi si trovano ben
altre descrizioni: famiglie benestanti
conviventi con molti servitori,
camerieri, balie, cocchieri e stallieri.
Nelle famiglie censite si intravede
spesso anche un alto tenore di vita, una
condizione di lusso che spesso si cela
sotto la parola possidente
inserita nella colonna dello stato
personale.
Solo a titolo di esempio si riporta il
censimento della famiglia di Francesco
De Lardarel (registrato così, non De
Larderel come sarebbe corretto), già
residente nel suo splendido palazzo di
Via del Condotti Nuovi, Parrocchia di
Sant’Andrea, palazzo che, iniziato nel
1830 sui terreni dei Chiellini, nel 1839
aveva già visto il primo ampliamento: le
palazzine laterali.
Al primo piano abitano Aristide Dufour
di 35 anni, francese, Barone Possidente,
con la moglie baronessa Emilia De
Lardarel di 22 anni, figlia del Conte
Francesco, e la figlioletta Paolina di 3
anni. Ovviamente convivono con loro
anche un cocchiere e due cameriere.
Ancora al primo piano abita il Conte
francese, Cavaliere Priore Possidente,
Francesco De Lardarel di 43 anni,
proprietario di un’azienda per
l’estrazione dell’acido borico nel
Comune di Pomarance grande imprenditore
della Toscana granducale, simbolo
dell’aristocrazia borghese del tempo,
con la moglie, la cugina contessa
Paolina Morand di 41 anni, i figli
Federigo (futuro sindaco di Livorno e
senatore) ed Enrico (entrambi Cavalieri
di Santo Stefano), Eugenia, Adriano e
Odoardo di 8 anni. Il maggiore, Federigo,
è sposato con Paolina Lamotta e ha una
figlioletta, Ottavia, di un anno. Con
loro convivono tre cameriere e due
cocchieri, uno dei quali mio omonimo,
Paolo Fontani di 26 anni, l’unico
analfabeta insieme alle piccole Paolina
e Ottavia.
Già queste scarne informazioni ci fanno
intravedere quella vita di agio e di
opulenza, di cui si ha sentore visitando
il palazzo (adesso sede del Tribunale
Civile di Livorno) anche nelle sue
condizioni attuali.
Con l’emanazione della Costituzione
Livornina da parte di Ferdinando I
de’ Medici, della fine del ‘500, la
città si aprì ai mercanti di ogni
nazione, in particolare ai mercanti
ebrei, che videro riconosciuto a Livorno
il diritto di praticare apertamente la
loro religione e di celebrare le loro
festività. Queste Leggi Livornine
prevedevano la concessione di immunità,
privilegi ed esenzioni ai mercanti e
aprivano l’accesso anche a chi aveva
commesso reati (eccetto eresia, omicidio
e fabbricazione di moneta falsa) ma solo
fuori dal Granducato.
Livorno, con il privilegio di essere
porto franco, divenne uno dei porti più
importanti del Mediterraneo e in pochi
anni quintuplicò la sua popolazione,
costituita per il 10% circa dagli Ebrei
(molti espulsi dalla penisola Iberica, o
ebrei convertiti, i cosiddetti Marrani),
che non furono mai segregati in un vero
e proprio ghetto a differenza di quanto
accadeva in molte altre città, anche
toscane.
Nel 1841 gli israeliti di Livorno sono
stati censiti a parte nella cosiddetta
Università Israelitica, anche se già
presenti nei registri delle singole
parrocchie.
.
Stato personale e professioni
dell’Università Israelitica
S.C.T. filza 12130,
Censimento, Università Israelitica
Il rabbino alla fine del suo rilevamento
propone delle sue particolari
statistiche rispetto alle attività, alla
provenienza e alle condizioni. Veniamo
così a sapere una quantità di
informazioni in forma sintetica. Quella
che segue è la descrizione delle
attività: 47 possidenti notabili maschi
e 5 femmine; 17+27 benestanti, 111
negozianti, 10 banchieri, 2 direttori di
assicurazioni, 49+14 interessati e
impiegati al commercio e così via. In
particolare si leggono 84 Rabbini e 24
aspiranti al Rabbinato. Poi si scende
nell’importanza del mestiere e per
ultime vengono elencati i lavori svolti
solo dalle donne. Interessante la
presenza di 3 Maestri di Ballo
e di 3 mammane matricolate.
I mestieri
elencati nei vari registri sono
tantissimi e alcuni sollevano anche
alcuni dubbi nella loro interpretazione.
Eccone alcuni: scritturale
(scrive su richiesta per persone che non
lo sanno fare), commesso di fondaco,
chifellajo (produce e vende “kipferl”,
dolci tipici dell’Austria),
macchiajolo (ossia che raccoglie nella
macchia), pallajo, calzolajo, merciajo,
truccone, mezzano, rivenditore di sale e
tabacco, mezzano, corallajo, scultore in
alabastro, bottajo, cristallajo,
legnajolo, alloggiatrice, limonaja,
bozzolano, tintore, caffettiere,
pollajolo, pelapolli (spesso
abitanti nello stesso condominio di un
pollajolo, che evidentemente fornisce
loro la materia prima),
carbonajo, stagnajo, velajo, venditore
di parrucche, legatore, staderajo,
merciajo per la strada, navicellajo,
barchettajolo, cenciajo, salumajo, porta
pesce, calessante, oliandolo, baulajo,
funajolo, oste locandiere, oste
ministro, guarda forzati, trafficante,
lampionajo, manescalco, saccajolo,
operante, materassajo, marinaro, rivende
latte, magnano, scalpellino,
calcinajuolo, chiodajolo, maestro
d’ascia, cavalleggere, carrajo, lanajolo,
rivendugliola, maestra paneraja, ovaja,
acquaiola, calafato, cerusico, pesatore
di dogana, sellajo, stallone, copre
seggiole con paglia, fabbricatore (di
stuoje, di sapone, di cioccolato,
d’anime d’osso), doratore, gozzante.
Nella Parrocchia di Santa Lucia ad
Antignano (comune a sé) sono censiti 8
scalpellini che abitano in uno stanzino
abbandonato presso la Torre di Calafuria,
lungo la costa a sud della città, segno
certo del fatto che si cavava dal
lungomare la pietra arenaria detta
“panchina”, utilizzata per
l’edilizia in città. Una donna di 32
anni maritata, censita nella Parrocchia
di San Sebastiano, risulta che tiene
donne di ventura.
Già queste poche
osservazioni ci mostrano una città molto
eterogenea da un punto di vista sociale,
di grande tradizione culturale,
commerciale, bancaria, mercantile e
produttiva, con un porto attivo anche se
non fiorente come altri, con tantissime
attività artigianali dove però lo
scontento e la miseria serpeggiavano
già. |