[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

163 / LUGLIO 2021 (CXCIV)


contemporanea

NELLA LIVORNO DEL 1841

SUL CENSIMENTO E SUI MOTI RISORGIMENTALI LIVORNESI / PARTE I

di Maria Grazia Fontani

  

La raccolta di dati di un censimento demografico è una fonte cospicua di informazioni oggettive di una realtà, di un territorio, di un periodo. Quello che presento è un piccolo squarcio nella Livorno di metà ‘800, una carrellata di tracce di costume e di storia contenute in una serie di registri solo all’apparenza asettici, ossia quelli originali del Censimento del Granducato di Toscana del 1841, compilati dai parroci per censire l’intera popolazione. Anzi, per censire le anime, come riporta la dicitura originale: “Stato delle anime della detta parrocchia” e si legge in tutti i registri: “Compilato nel mese di aprile 1841 dall’infrascritto parroco in esecuzione delle sovrane disposizioni contenute nel biglietto della Reale Segreteria di Stato del 12 novembre 1840”. In calce la firma è del parroco, quindi data la diversità delle calligrafie fra registri diversi ma l’omogeneità in ogni singolo registro, non è escluso che siano stati compilati interamente dai parroci in persona. È possibile reperire tali registri sul sito dell’Archivio di Stato di Firenze.

 

Questo censimento costituì la prima rilevazione ufficiale di tutto il Granducato e fu voluta dal Granduca Leopoldo II di Lorena per tentare di descrivere la popolazione toscana nel suo complesso, riportando il numero di abitanti, il numero di figli per famiglia, il domicilio, la provenienza, la religione, la professione o comunque lo stato sociale e l’istruzione di base. Mi sono soffermata sui registri di Livorno, anche per cercare curiosità e conferme di fatti storici noti.

 

Veniamo alla descrizione della raccolta dati: su ogni scheda (due pagine di registro), contrassegnata da un numero d’ordine, si numeravano gli edifici, le famiglie e i singoli individui riportando nome, cognome (per le maritate spesso anche quello da nubile), età, stato civile detto condizione domestica (celibe sia per maschi che per femmine, ammogliato/maritata, vedovo/vedova), religione (se diversa dalla cattolica), patria (se diversa dal Granducato di Toscana), stato personale o professionale, stato di indigenza (causale se transitorio, necessario se stabile), istruzione primaria (campo bianco in caso di analfabetismo, oppure riportante L per legge o LS per legge e scrive); poi si riportava l’indirizzo esatto o la casa abitata (oppure il podere o il palazzo), o altre osservazioni. Frequenti i cittadini svizzeri (di solito arrotini o coltellai), francesi, inglesi, prussiani, ragusei (forse per indicare provenienti dalla Dalmazia in generale), ma anche lucchesi, carrarini, genovesi, napoletani, ecc.

 

Le parrocchie trovate censite della città di Livorno sono solo alcune: manca tutta la parte sud della città forse non ancora digitalizzata o andata perduta. Sono comunque registrati più di 70.000 abitanti.

 

Una brevissima digressione: mentre nei registri del censimento si parla di “religione” e “patria”, nei registri di Stato Civile presenti sempre nell’Archivio di Stato di Firenze, come annotazione a mano si trovano diciture di questo tipo: Funaro Angiolo di Giuseppe iscritto nei disopra atti (nato nel 1856) è di razza ebraica come risulta da denunzia fatta al Comune il 22 febbraio 1939 (XVII).

 

Queste poche annotazioni fanno toccare con mano le conseguenze delle varie leggi razziali del regime fascista emesse a seguito della pubblicazione del Manifesto della Razza del 1938, in particolare del Regio decreto-Legge 17 novembre 1938-XVII, N.1728 Provvedimenti per la difesa della razza italiana, che all’ Art. 9 recita: “’appartenenza alla razza ebraica deve essere denunziata ed annotata nei registri dello stato civile e della popolazione. Tutti gli estratti dei predetti registri ed i certificati relativi, che riguardano appartenenti alla razza ebraica, devono fare espressa menzione di tale annotazione. Uguale menzione deve farsi negli atti relativi a concessione o autorizzazioni della pubblica autorità. I contravventori alle disposizioni del presente articolo sono puniti con l’ammenda fino a lire duemila”.

 

Ben altra è l’aria che si respira a Livorno sulle pagine del nostro censimento: dall’emanazione delle Leggi Livornine da parte del Granduca Ferdinando I de’ Medici alla fine del ‘500, che resero Livorno la “città delle Nazioni”, convivevano etnie, lingue, religioni e culture diversissime, e questo “melting pot si percepisce benissimo nei registri del 1841.

 

Ovviamente il taglio allo studio della lettura dei dati è molteplice (dallo studio sulla diffusione dei nomi e dei cognomi alla toponomastica del tempo), ma mi soffermerò su alcune osservazioni riguardanti la composizione della società. Leggendo le schede si comprende il grande affollamento del centro città: i palazzoni sono quasi sempre di quattro o cinque piani, con l’aggiunta spesso di abitazioni in soffitta, e pieni di famiglie numerose.

 

Questo affollamento si spiega col fatto che allora il centro città era il cuore commerciale e artigianale e le persone avevano l’opportunità di sbarcare il lunario proprio abitando in centro, in quanto lì erano a disposizione i mestieri legati al mare (pescatori, marinai, barcaioli, calafati) e al commercio, oltre a una grande quantità di botteghe artigiane; appena si usciva da esso l’attività principale riguarda il lavoro nei campi, svolto da ortolani e da coloni. Più avanti elencherò un gran numero di professioni ormai desuete, che però fanno capire la quantità di botteghe e di laboratori esistenti al tempo.

 

Altro discorso per i rioni più benestanti: qui si abitano le case o i palazzi di famiglie di ricchi possidenti immobiliari. Proprio la parola possidente frequentemente indica la professione del capofamiglia, mentre le mogli sono sempre atte a casa (non più lavandaie, serve o artigiane come spesso indicate se abitanti nel centro città) e quasi sempre sanno leggere e scrivere.

 

Appare immediatamente chiaro che è possibile analizzare con precisione la composizione di ogni famiglia. Oltre al numero e alle età dei figli, emerge spesso la presenza di conviventi, talvolta parenti anziani vedovi che spesso sono i genitori degli sposi, oppure zii o zie celibi o vedovi (e quasi sempre indigenti o addirittura svolgenti l’attività di questuanti e dei quali i più giovani prendevano in carico almeno l’alloggio), ma anche cognati o cognate celibi magari nullafacenti in una sorta di “welfare” molto semplice ed economico da attuare.

 

Porto come esempio la composizione di una famiglia con ben 9 figli: quella dell’oste Giovan Battista Brogi, proprietario della Locanda della Luna sita in Piazza delle Erbe (l’attuale Piazza Cavallotti) al numero 30 (in realtà 930, in quanto i numeri civici sono preceduti da una cifra, indipendente dalla parrocchia o dalla via, forse retaggio di un tipo di numerazione precedente che coinvolgeva gli isolati), primo piano. La moglie Maria Guerra è analfabeta, le età dei figli sono (in anni): 18, 16, 13, 12, 9, 8, 5, 3, 1; i figli maggiori, Giuseppe e Clementina, sono un oste e una sarta; solo il capofamiglia e il figlio Giuseppe sanno leggere e scrivere mentre gli altri più piccoli (Giuseppe, Teresa, Assunta, Baldassarre, Carlotta, Matteo e Francesca) sono ovviamente analfabeti. Con loro convivono una serva, un guarda forzati (presumibilmente marito della serva) e un oste garzone.

 

Un altro esempio interessante è un ragazzo che fa il porta pesce (o porta pescato) che abita con la giovane coppia formata da Giuseppe Fidani (garzone di pescivendolo) e Orsola Zecchi, anche in questo caso in Piazza delle Erbe 30, ma al quarto piano. Si chiama Riccardo Degli Innocenti (tipico cognome dei trovatelli), ha 18 anni e vive con i due coniugi senza figli di 34 e 29 anni, che evidentemente lo hanno accolto in una sorta di “affido ante litteram”, ma anche di praticantato. Non è affatto raro, infatti, che il garzone di bottega abiti nella casa del padrone, come abbiamo già visto anche nella Locanda della Luna.

 

Se si potesse calcolare accuratamente l’età media della popolazione, essa risulterebbe sorprendentemente bassa, dato il gran numero di figli a famiglia e la presenza di pochissimi grandi anziani. Come ho già detto, spesso gli anziani conviventi in un nucleo familiare sono registrati questuanti o mendicanti, e indicati come indigenti necessari nella apposita colonna. Questa condizione è riferita spesso a vecchi senza figli, menomati fisici, o vedove senza sostentamento per i quali la condizione indicata è quella di questuanti, mendicanti, mendichi senz’arte, poveri o addirittura miserabili.

 

Poiché la tutela dei dati sensibili non era ancora nelle abitudini, le persone (soprattutto quelle censite negli ospedali, ma non solo) sono definite anche in rapporto alla loro menomazione: storpio, cieco, demente, imbecille, ebete, gobbo, tendente alla mania, apopletico, inabile, impotente d’età, paralitico o accidentato infermo. Per loro la condizione di indigenza è definitiva, mentre i lavoratori solo momentaneamente senza occupazione, che perciò stentano a mantenere la famiglia, sono definiti indigenti causali; con disimpiegati ho ipotizzato siano indicati coloro che, pur momentaneamente non lavorando, sono ancora in grado di sostentare sé stessi e loro famiglia.

 

Non è raro il caso di nuclei familiari non imparentati ma conviventi nella forma “a casigliano”: un modo di dividere le spese dell’affitto vivendo solo in una stanza con l’uso comune dei servizi. Come esempio: a casa di Valentino Bandecca sposato con cinque figli, censito nella Parrocchia di San Benedetto, vivono anche due coniugi senza figli (il marito è navicellajo), una madre vedova con la nuora anch’essa vedova e il nipote di 11 anni. Non sembrerebbero nuclei imparentati, ma non è certo perché il parroco di questa parrocchia omette i cognomi da nubile delle maritate. Interessante notare che la nuora vedova ha lasciato il cognome del marito per riprendere il suo da ragazza.

 

 

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Una delle tante pagine dei registri nella quale si percepisce il numero di poveri presenti in città

Una intera pagina di indigenti. S.C.T. filza 12129, Censimento, Parrocchia di San Ferdinando

 

Un’interessante e quasi commovente nota del parroco della Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo (ubicata in zona porto), don Giovan Battista Quilici, spiega, in modo accorato, quasi volendo giustificare il gran numero di poveri della sua parrocchia, che fra gli indigenti casuali (sbagliando l’ortografia del termine) si devono annoverare: i pescatori (i quali, impossibilitati a pescare per il tempo avverso, languiscono nella miseria per delle settimane essi e le loro famiglie), i barcaioli (che lavorano solo nella stagione dei bagni e negli altri tempi il loro meschino guadagno non è sufficiente al mantenimento delle loro famiglie) e i marinari, i quali intraprendono lunghi viaggi e lasciano da sole le famiglie nell’indigenza più assoluta (Fra questi una gran parte s’occupano della pesca del corallo. Questo travaglio dura circa sei mesi all’anno il rimanente di questo restando essi in terra senz’altra industria trovansi oppressi dall’inopia colle sventurate famiglie).

 

Analoga descrizione anche in calce alle rilevazioni della Parrocchia della Santissima Trinità, nelle quali il frate Tommaso Vannucci ripete più o meno la stessa descrizione dell’indigenza dei pescatori, dei marinari (spesso indicati assenti nel censimento in quanto imbarcati) e dei barcaioli, ma aggiunge anche i garzoni di forno, i maestri d’ascia e i calafati le cui mogli sono costrette sovente a ricorrere all’altrui soccorso per alimentare sé stesse e i figlioli.

 

Il parroco della Parrocchia di San Ferdinando, don Antonio Maria Perozzi, scrive in calce alle sue rilevazioni: La popolazione della Parrocchia di San Ferdinando di Livorno è per la maggior parte povera e miserabile, ed i capi di famiglia o non hanno mezzi per far studiare i loro figli o nulla cura si prendono per la loro educazione.

 

Spesso si intravedono drammi familiari dalla semplice lettura delle righe del censimento. Non è infrequente trovare un marito con figli, il più piccolo dei quali ha magari pochi mesi, vedovo (la moglie probabilmente è morta di parto), che, pur essendo di basso ceto, convive con una serva giovane, una ragazza che, forse in cambio quasi solo di vitto e alloggio, si prende cura della famiglia. Talvolta si notano differenze di età considerevoli fra i coniugi, anche in ceti molto bassi, e si intuisce un secondo matrimonio dalle età dei figli di primo letto, di poco inferiori a quella della madre.

 

Sempre pensando alle condizioni assistenziali dei poveri e degli infermi, ho voluto scorrere le pagine di due ospedali cittadini, uno maschile e uno femminile. Il Vice Priore Pio Salvatori elenca sia i dipendenti (ben 94 fra religiosi e laici) che gli infermi ricoverati nell’Ospedale di Sant’Antonio (“solo” 78, dagli 8 ai 95 anni), indicando questi ultimi tutti come infermi senza altre specifiche e anche indigenti necessari.

 

Dai registri della Parrocchia di Santa Barbara, risulta che presso l’annesso Spedale delle donne della Misericordia (dove era presente la famosa “ruota” dei trovatelli la cui custode, Maria Anna Dazzi risulta censita di anni 54 e moglie del Parenti che al rigo precedente risulta di nome Giovacchino, portinajo, nato a Firenze e di anni 64) invece sono ricoverate circa 75 donne inferme (la più giovane ha solo 35 anni, una corallaja convulsionante, e la più anziana 86) con patologie più o meno gravi (cieca, imbecille, storpia, con gamba amputata, tendente alla mania, apopletica). Si intuisce che il ricovero in queste strutture non costituiva una cura ma una forma di assistenzialismo “definitivo” riservato a persone invalide e incapaci di sostentarsi: all’inizio dell’elenco si legge infatti “Famiglia delle inferme croniche”.

 

Per quanto riguarda gli orfani, sapevo che le due strutture cittadine preposte al loro ricovero fossero le Case Pie per le femmine e il Refugio, la vecchia scuola di mozzi fondata nel 1754, per i maschi, entrambi ubicate nel quartiere della Venezia Nuova.

 

Alle Case Pie (Parrocchia di San Ferdinando) sono censite più di 150 fra donne e ragazze (chiamate alunne della Casa Pia) tutte celibi con un’età che varia dagli 8 ai 73 anni, mentre al Refugio si trovano una cinquantina di ragazzi reclusi nel Pio Istituto dagli 8 ai 15 anni, tutti apprendisti sarti, calzolai, falegnami, legnaioli a dimostrazione del fatto che a metà ottocento la scuola di mozzi (voluta per scopi assistenziali ma anche per ridurre la criminalità in città e per fornire mano d’opera qualificata per le attività marinare, in un’ottica molto avanzata e liberale per il tempo) era stata sospesa a favore di una scuola professionale. Verrà però riaperta in seguito.

 

Il curato Giuseppe Francini, parroco della Parrocchia del Bagno dei Condannati, elenca diligentemente 205 Condannati ai Pubblici Lavori (riportato per tutti alla voce Stato Personale) con un’età che varia dai 20 ai 70 anni, riportando provenienza, religione, stato civile e livello di istruzione di ognuno.

 

La città, appena fuori dal centro e dalla cerchia di mura, prendeva immediatamente l’aspetto della campagna. Nelle famiglie dedite alla coltivazione degli orti (detti ortolani ma in certe zone più periferiche coloni) non è infrequente la convivenza di più nuclei familiari. Così la vedova Caterina Cajoli di 68 anni che abita negli orti della villa della famiglia Villa Reale (forse di corretta grafia “Villareale”, di probabili origini spagnole, forse proveniente da una delle città denominate Villarreal), in una non precisata via nel centro città, dato che è censita dal parroco di San Benedetto, convive con altre 12 persone: i figli Tommaso, Michele e Giuseppe e le rispettive mogli, 4 nipotini, la figlia Flavia nubile e il custode Giovanni.

 

Il quadro socio-economico che traspare dalla lettura di questi registri è abbastanza desolante: la miseria si tocca con mano e la difficoltà di mettere insieme il pranzo con la cena sembra all’ordine del giorno. Ovviamente nei quartieri più ricchi si trovano ben altre descrizioni: famiglie benestanti conviventi con molti servitori, camerieri, balie, cocchieri e stallieri. Nelle famiglie censite si intravede spesso anche un alto tenore di vita, una condizione di lusso che spesso si cela sotto la parola possidente inserita nella colonna dello stato personale.

 

Solo a titolo di esempio si riporta il censimento della famiglia di Francesco De Lardarel (registrato così, non De Larderel come sarebbe corretto), già residente nel suo splendido palazzo di Via del Condotti Nuovi, Parrocchia di Sant’Andrea, palazzo che, iniziato nel 1830 sui terreni dei Chiellini, nel 1839 aveva già visto il primo ampliamento: le palazzine laterali.

 

Al primo piano abitano Aristide Dufour di 35 anni, francese, Barone Possidente, con la moglie baronessa Emilia De Lardarel di 22 anni, figlia del Conte Francesco, e la figlioletta Paolina di 3 anni. Ovviamente convivono con loro anche un cocchiere e due cameriere. Ancora al primo piano abita il Conte francese, Cavaliere Priore Possidente, Francesco De Lardarel di 43 anni, proprietario di un’azienda per l’estrazione dell’acido borico nel Comune di Pomarance grande imprenditore della Toscana granducale, simbolo dell’aristocrazia borghese del tempo, con la moglie, la cugina contessa Paolina Morand di 41 anni, i figli Federigo (futuro sindaco di Livorno e senatore) ed Enrico (entrambi Cavalieri di Santo Stefano), Eugenia, Adriano e Odoardo di 8 anni. Il maggiore, Federigo, è sposato con Paolina Lamotta e ha una figlioletta, Ottavia, di un anno. Con loro convivono tre cameriere e due cocchieri, uno dei quali mio omonimo, Paolo Fontani di 26 anni, l’unico analfabeta insieme alle piccole Paolina e Ottavia.

 

Già queste scarne informazioni ci fanno intravedere quella vita di agio e di opulenza, di cui si ha sentore visitando il palazzo (adesso sede del Tribunale Civile di Livorno) anche nelle sue condizioni attuali.

 

Con l’emanazione della Costituzione Livornina da parte di Ferdinando I de’ Medici, della fine del ‘500, la città si aprì ai mercanti di ogni nazione, in particolare ai mercanti ebrei, che videro riconosciuto a Livorno il diritto di praticare apertamente la loro religione e di celebrare le loro festività. Queste Leggi Livornine prevedevano la concessione di immunità, privilegi ed esenzioni ai mercanti e aprivano l’accesso anche a chi aveva commesso reati (eccetto eresia, omicidio e fabbricazione di moneta falsa) ma solo fuori dal Granducato.

 

Livorno, con il privilegio di essere porto franco, divenne uno dei porti più importanti del Mediterraneo e in pochi anni quintuplicò la sua popolazione, costituita per il 10% circa dagli Ebrei (molti espulsi dalla penisola Iberica, o ebrei convertiti, i cosiddetti Marrani), che non furono mai segregati in un vero e proprio ghetto a differenza di quanto accadeva in molte altre città, anche toscane.

Nel 1841 gli israeliti di Livorno sono stati censiti a parte nella cosiddetta Università Israelitica, anche se già presenti nei registri delle singole parrocchie.

 

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Stato personale e professioni dell’Università Israelitica

S.C.T. filza 12130, Censimento, Università Israelitica

 

Il rabbino alla fine del suo rilevamento propone delle sue particolari statistiche rispetto alle attività, alla provenienza e alle condizioni. Veniamo così a sapere una quantità di informazioni in forma sintetica. Quella che segue è la descrizione delle attività: 47 possidenti notabili maschi e 5 femmine; 17+27 benestanti, 111 negozianti, 10 banchieri, 2 direttori di assicurazioni, 49+14 interessati e impiegati al commercio e così via. In particolare si leggono 84 Rabbini e 24 aspiranti al Rabbinato. Poi si scende nell’importanza del mestiere e per ultime vengono elencati i lavori svolti solo dalle donne. Interessante la presenza di 3 Maestri di Ballo e di 3 mammane matricolate.

 

I mestieri elencati nei vari registri sono tantissimi e alcuni sollevano anche alcuni dubbi nella loro interpretazione. Eccone alcuni: scritturale (scrive su richiesta per persone che non lo sanno fare), commesso di fondaco, chifellajo (produce e vende “kipferl”, dolci tipici dell’Austria), macchiajolo (ossia che raccoglie nella macchia), pallajo, calzolajo, merciajo, truccone, mezzano, rivenditore di sale e tabacco, mezzano, corallajo, scultore in alabastro, bottajo, cristallajo, legnajolo, alloggiatrice, limonaja, bozzolano, tintore, caffettiere, pollajolo, pelapolli (spesso abitanti nello stesso condominio di un pollajolo, che evidentemente fornisce loro la materia prima), carbonajo, stagnajo, velajo, venditore di parrucche, legatore, staderajo, merciajo per la strada, navicellajo, barchettajolo, cenciajo, salumajo, porta pesce, calessante, oliandolo, baulajo, funajolo, oste locandiere, oste ministro, guarda forzati, trafficante, lampionajo, manescalco, saccajolo, operante, materassajo, marinaro, rivende latte, magnano, scalpellino, calcinajuolo, chiodajolo, maestro d’ascia, cavalleggere, carrajo, lanajolo, rivendugliola, maestra paneraja, ovaja, acquaiola, calafato, cerusico, pesatore di dogana, sellajo, stallone, copre seggiole con paglia, fabbricatore (di stuoje, di sapone, di cioccolato, d’anime d’osso), doratore, gozzante.

 

Nella Parrocchia di Santa Lucia ad Antignano (comune a sé) sono censiti 8 scalpellini che abitano in uno stanzino abbandonato presso la Torre di Calafuria, lungo la costa a sud della città, segno certo del fatto che si cavava dal lungomare la pietra arenaria detta “panchina”, utilizzata per l’edilizia in città. Una donna di 32 anni maritata, censita nella Parrocchia di San Sebastiano, risulta che tiene donne di ventura.

 

Già queste poche osservazioni ci mostrano una città molto eterogenea da un punto di vista sociale, di grande tradizione culturale, commerciale, bancaria, mercantile e produttiva, con un porto attivo anche se non fiorente come altri, con tantissime attività artigianali dove però lo scontento e la miseria serpeggiavano già.  

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]