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storia & sport


N. 17 - Maggio 2009 (XLVIII)

I Leoni d’Oltremanica
Storia dei British & Irish Lions

di Simone Valtieri

 

Qualche anno fa un giornalista della Gazzetta dello Sport propose un simpatico quesito scientifico-sportivo.

 

“Problema di fisica e rugby: come fanno 43 uomini a spostare 40.000 tifosi per migliaia di chilometri, indicativamente, da Londra ad Auckland, rendendoli felici per un mese intero anche quando la loro squadra perde? Non è difficile, devono essere 43 Lions”.

 

Per spiegare in sintesi cosa sono i “Lions” e cosa rappresentano per i sessantadue milioni di abitanti delle isole britanniche basterebbe la sintetica risposta a tale quesito.

 

Per noi continentali i “British and Irish Lions”, conosciuti fino al 2001 come il “British Isles Rugby Union Team”, non sono altro che la selezione di rugby che comprende i giocatori delle quattro “Home Nations”, ossia delle quattro regioni britanniche dove il rugby a 15 è nato e si è sviluppato: Inghilterra, Galles, Scozia e Irlanda.

 

Per gli anglosassoni la selezione in maglia rossa rappresenta invece molto di più.

 

Il mito nasce negli anni ’70, con le prime sensibili affermazioni contro le fino ad allora intoccabili formazioni dell’emisfero australe, ma ha radici ultrasecolari.

 

Si parte nel 1888, quando una squadra composta principalmente da giocatori inglesi, con qualche rinforzo gallese e scozzese, visita i “dominions” d’oltremare (Australia e Nuova Zelanda) per un tour dimostrativo.

 

Non furono disputati test-match ufficiali, ma ben 35 incontri con selezioni provinciali, cittadine ed universitarie (con un totale di 27 vittorie), oltre un buon numero di partite di football australiano.

 

Questa esperienza, sebbene mai riconosciuta come ufficiale, fu importante non solo in quanto fu la prima in termini assoluti, ma fondamentalmente perché servì a definire l’accezione di “tour”, oggi comune nel gergo e nelle tradizioni rugbistiche.

 

Va inoltre specificato che fino agli anni ’80 del secolo scorso i confronti in terra australe contro le forti nazionali locali erano compito quasi esclusivo di selezioni come quella delle British Isles, che avevano l’onore e l’onere di rappresentare il meglio del rugby dell’emisfero settentrionale al cospetto dei giganti australi.

 

Nel 1891, la Western Province Union invitò la formazione britannica a ripetere il tour effettuato tre anni prima in Australia e Nuova Zelanda, anche in territorio sudafricano, sebbene in quel periodo il Sud Africa non fosse ancora uno stato.

 

Nell’occasione venne messa in palio dal governatore delle province britanniche, Donald Currie, l’omonima Currie Cup, da assegnare alla selezione regionale sudafricana che meglio si sarebbe comportata contro il team del Regno Unito.

 

A “vincere” la Currie Cup (ancora oggi esistente e assegnata ai vincitori del campionato sudafricano) fu la provincia di Griqualand West, che alla fine risultò essere nient’altro che la migliore delle formazioni sconfitte, avendo perso il suo match per 3-0.

 

Cinque anni dopo la rappresentativa delle isole britanniche tornò in Sud Africa giocando in tutto ventuno incontri di cui quattro (tre vittorie e una sconfitta) contro una selezione non ancora ufficiale di tutto il Sud Africa.

 

Per la prima volta presero parte alla trasferta anche alcuni giocatori provenienti dalla Rugby Union irlandese a discapito di qualche rugbista gallese o scozzese.

 

Ma è di tre anni più tardi, 1899, il primo tour in cui furono presenti, tra i ventuno giocatori convocati, rappresentanti di tutte e quattro le “Home Nations”.

 

Le partite si svolsero in Australia e i britannici riportarono ben tre affermazioni su quattro ai danni della nazionale australiana, ma persero alcuni match secondari contro rappresentative cittadine o regionali quali Metropolitan e Queensland.

 

Nell’estate del 1903 (Sud Africa), del 1904 e in quella del 1908 (entrambi in Australia e Nuova Zelanda) si svolsero altre tre spedizioni non ufficiali.

 

Nel 1908 la selezione inviata nell’emisfero australe comprendeva solamente giocatori inglesi e gallesi, perdendo così la denominazione di British Isles e acquisendo quella di “Anglo-Welsh”.

 

Il rugby dell’emisfero meridionale era però cresciuto molto e la formazione britannica riuscì ad ottenere solo qualche buon risultato al fronte di pesanti sconfitte contro gli “All Blacks” neozelandesi. In Australia, addirittura, si pensa che le prestazioni non esaltanti del team ospite abbiano contribuito allo spostamento di interesse verso il Rugby League (versione a 13 dello stesso gioco, ancora oggi estremamente diffusa nella terra dei canguri).

 

Il 1910 è l’anno del cambiamento.

 

Per la prima volta sono i dirigenti delle quattro “Home Unions” a selezionare i giocatori della British Isles Rugby Union Team.

 

Per questo motivo il tour in Sud Africa dell’estate 1910 viene riconosciuto come il primo ufficiale della storia dei “Lions”.

 

Questo appellativo peraltro non è ancora stato attribuito alla formazione anglosassone e verrà coniato solamente nel 1924, sempre in terra sudafricana, quando sulla cravatta della rappresentativa comparve per la prima volta l’immagine di un leone, a simboleggiare la forza e l’orgoglio dei popoli britannici.

 

Nel 1910 i risultati delle British Isles non furono entusiasmanti e si registrarono parecchie sconfitte anche contro selezioni provinciali e una sola affermazione nei tre match contro gli Springboks, le “Antilopi”, nome con cui viene ancora oggi conosciuta la nazionale sudafricana.

 

Passeranno poi ben 14 anni e una guerra mondiale prima della successiva partita dei Lions. È il 12 luglio 1924 e i Leoni d’oltremanica perdono di misura 7-6 contro la selezione del Western Province. Nei test match ufficiali il passivo è disastroso: quattro sconfitte su quattro contro il Sud Africa.

 

È il preludio ad un quarto di secolo poco entusiasmante per i britannici. Le uniche affermazioni arrivano contro le modeste squadre argentine in due tour, quello non ufficiale del 1927 e quello riconosciuto del 1936.

 

Nel 1930 in Nuova Zelanda e in Australia e successivamente nel 1938 in Sud Africa, i Lions tornano a casa con una sola vittoria in un test-match (10 settembre 1938, 21-16 sul Sud Africa a Città del Capo) e ben sette sconfitte.

 

Negli anni ’50, dopo la seconda guerra mondiale e dopo altri dodici anni senza incontri, viene organizzato un nuovo tour in Australia e Nuova Zelanda nel quale, per la prima volta, vengono adottati i colori che ancora oggi contraddistinguono la selezione britannica: maglia rossa, calzoncini bianchi e calzettoni verdi mandano in pensione la divisa dorata utilizzata fino ad allora.

 

I Lions sembrano più consci dei propri mezzi ed ottengono alcuni buoni riscontri. In Nuova Zelanda perdono di misura tre match contro gli All Blacks e ne pareggiano uno 9-9. In Australia riescono a vincere quasi tutte le partite, compresi due test-match contro i Wallabies (“Piccoli Canguri”, soprannome della nazionale australiana), perdendone una sola contro il XV del Nuovo Galles del Sud.

 

Progressi si registrano anche nel tour del 1955 in Sud Africa, quando i Lions, guidati dal capitano dell’Irlanda Robin Thompson, archiviano la serie di quattro test-match in parità, con due vittorie e due sconfitte contro gli Springboks.

 

I tour del 1959, 1962, 1966 e 1968 saranno considerati a posteriori come tappe di avvicinamento a quelli dei trionfali successi di inizio anni ‘70.

 

In questi quattro tour i Lions registrano risultati altalenanti, con cinque vittorie (quattro delle quali sull’Australia e una sulla Nuova Zelanda) e tredici sconfitte complessive.

 

Nel 1966, dopo quattro batoste contro gli All Blacks, i Lions affrontarono per la prima volta una formazione del proprio emisfero in un incontro ufficiale: il Canada, sconfitto agilmente per 19-8 a Toronto, tappa intermedia verso il ritorno in Europa.

 

Siamo ai leggendari anni ‘70.

 

La generazione di fenomeni nata in Galles una ventina di anni prima è pronta alla consacrazione internazionale. Sono i Lions “made in Wales” della formidabile mediana Barry John-Gareth Edwards, dell’ala Gerald Davies, dell’estremo J.P.R. Wiliams, del capitano John Dawes e del coach Carwyn James, senza dimenticare i fondamentali giocatori delle altre “Unions” come l’esperto seconda linea irlandese Willie John McBride e il pilone scozzese Ian McLauchlan.

 

I British Lions perdono la partita d’esordio contro la regione del Queensland. Poi inanellano una serie di quindici vittorie consecutive, tra cui quella prestigiosa contro i giovani “New Zealand Maori”. Gerald Davies dirà a proposito di quel match: “Crebbe la fiducia in noi stessi e iniziammo a credere nella possibilità di battere gli All Blacks”.

 

La cosa avvenne puntualmente: a Dunedin i Leoni si impongono per 9-3 con due piazzati e una meta contro un solo piazzato dei padroni di casa.

 

Nel secondo incontro, a Christchurch, forse troppo sicuri dei propri mezzi, perdono onorevolmente per 22-12 (cinque mete a due per i “Tuttineri”). La rivincita è a Wellington, 13-3 per il Lions che si portano in vantaggio 2-1 nel conto delle sfide.

 

Il quarto e decisivo incontro sancisce la vittoria complessiva dei Lions. Nello storico Eden Park di Auckland gli anglosassoni entrano nel paradiso del rugby.

 

Un 14-14 che fa storia, con il drop di J.P.R. Williams (l’unico mai segnato nella sua carriera internazionale) che porta in vantaggio a pochi minuti dal termine la formazione in maglia rossa, e col successivo controsorpasso mancato dai neozelandesi, che non trasformano una meta firmata allo scadere. Pareggio e primo tour vinto dai Lions in terra neozelandese.

 

Nel 1974 si replica, anzi, si migliora.

 

Il capitano è l’ormai trentaquattrenne Willie John McBride, seconda linea e bandiera della nazionale irlandese, il selezionatore è l’esperto coach nonché suo connazionale, Syd Millar. L’ossatura della squadra è sempre quella del leggendario Galles anni ‘70 e le vittorie sono ancora più altisonanti di quelle di tre anni prima.

 

In Sud Africa i Lions realizzano il tour “quasi perfetto”, figlio di 21 vittorie e di un solo pareggio contro gli Springboks.

 

Nei quattro test match disputati la serie si chiude con un netto 3-0 e con quella che è unanimemente riconosciuta come la più clamorosa impresa sportiva dei British Lions: la vittoria nella “battaglia dello stadio Boet Erasmus”.

 

Il 13 luglio 1974, a Port Elizabeth dopo le prime due affermazioni dei “turisti”, si affrontano per la terza volta Springboks e Lions.

 

I precedenti due match erano stati delle vere e proprie guerre, così come tutti gli incontri di contorno disputati fino ad allora, conditi da intimidazioni psicologiche e interventi violentissimi da parte dei padroni di casa.

 

I Sud Africani, coperti dall’arbitro, sempre originario del paese ospitante, basavano il loro gioco sullo scontro fisico e sull’intimidazione.

 

In quel match del 13 luglio però, i dirigenti britannici decisero di reagire con quella che passerà alla storia come “la infame chiamata 99”.

 

In pratica non appena il gioco si sarebbe inasprito in maniera particolare, il capitano Wille John McBride avrebbe dovuto chiamare lo schema “99” (da 999, il numero telefonico di emergenza britannico) e i Lions si sarebbero dovuti scagliare istantaneamente e nello stesso istante sullo Springboks più vicino, consci del fatto che l’arbitro non avrebbe potuto espellerli tutti quanti.

 

Così avvenne e quella ribellione collettiva passò alla storia come “the infamous call 99”, all’interno del match di rugby più violento che la storia ricordi, finito, per la cronaca, 29-8 per i Lions.

 

Nessun Tour dei Lions sarà entusiasmante quanto lo furono le due trasferte di inizio anni ‘70. Nel 1977 in Nuova Zelanda i Leoni vincono uno solo dei quattro test-match contro gli All Blacks, perdendo anche in due incontri di contorno contro le isole Figi e contro la nazionale universitaria neozelandese.

 

I primi due tour degli anni ‘80 saranno sulla falsariga del precedente: 1-3 nella serie sudafricana del 1980, 0-4 in quella neozelandese del 1983, nonostante una valanga di affermazioni sulle altre rappresentative incontrate.

 

La nascita, nel 1987, della Coppa del Mondo di Rugby crea ordine nel calendario internazionale e assegna una cadenza quadriennale ai Tour dei Lions a partire dal 1989.

 

È un primo passo verso il cambiamento epocale che accadrà nel mondo del rugby di lì a pochi anni. Nel 1993 infatti, il “Rugby Union”, così come lo chiamano gli anglosassoni, abbandona il suo status di dilettantismo e abbraccia il professionismo.

 

Intanto negli ultimi tour dilettantistici, datati 1989 e 1993, i Lions viaggiano a corrente alternata: nel 1989 riportano 11 vittorie su 12, perdendo un solo match contro l’Australia e totalizzando un complessivo 2-1. Nel 1993 i “turisti” perdono 2-1 la serie contro la Nuova Zelanda e vincono sei dei restanti sette match di contorno.

 

Chiusa un’era, se ne apre un’altra.

 

Con l’avvento del professionismo gli osservatori avevano previsto un rapido declino della centenaria selezione, ma presero un colossale granchio. Difatti, dopo i tour del 1997 (2-1 sul Sud Africa) e del 2001 (1-2 con l’Australia), indipendentemente dai risultati sul campo l’interesse del pubblico è cresciuto a dismisura.

 

Questo proprio grazie all’avvento del professionismo, alle televisioni ed al carisma ed alla popolarità dei giocatori più bravi.

 

Ed eccoci quindi al risultato di cui si parlava all’inizio: durante l’ultimo tour disputato, i Lions riescono nell’impresa di trascinare nella lunga trasferta dall’emisfero boreale a quello australe ben 40 mila tifosi, nonostante le tre secche sconfitte contro i fortissimi All Blacks fossero ampiamente prevedibili. Questo non tanto per la mancanza di qualità e la bravura dei giocatori britannici e irlandesi, che presi singolarmente valgono il confronto per classe e tecnica di chi veste la maglia “tuttanera“, quanto per il fatto che, con l’esasperazione dei calendari e l’infittirsi degli impegni nazionali ed internazionali, i giocatori selezionati delle quattro “Unions” possono giocare insieme ed allenarsi solamente per tre settimane prima dell’inizio del tour, cioè per un periodo di tempo ed un numero di partite di gran lunga inferiore a quelle di cui potevano disporre i Lions del passato.

 

Nonostante la difficoltà attuale di affermarsi ai massimi livelli contro formazioni più amalgamate e blasonate, l’interesse e l’entusiasmo che ruota intorno ai British and Irish Lions scaturisce da altri impalpabili elementi: la classe dei 43 giocatori selezionati, ormai quasi tutti star mediatiche, l’orgoglio che unisce quattro popoli diversi per storia e tradizioni sotto un’unica bandiera ma soprattutto la leggenda che si cela dietro la maglia rossa dei Leoni d’oltremanica, spingono e spingeranno all’esodo, anche nel 2009, un popolo intero alla volta del Sud Africa, con la curiosità di scoprire se i dati di quel problema di fisica proposto dalla Gazzetta dello Sport debbano essere aggiornati.



 

 

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