N. 108 - Dicembre 2016
(CXXXIX)
Il proclama di emancipazione
Lincoln e la schiavitù
di Giovanni De Notaris
Agli
inizi
della
sua
presidenza,
nel
1861,
Abraham
Lincoln,
non
aveva
intenzione
di
abolire
la
schiavitù
nei
paesi
dove
esisteva
già,
ma
solamente
evitare
che
si
estendesse
anche
agli
stati
del
Nord.
Al
tempo
vi
erano
ovviamente
coloro
che
sostenevano
l’abolizione
e
quelli
che
intendevano
mantenerla.
Durante
la
guerra
civile
infatti
alcuni
stati,
pur
opponendosi
alla
secessione,
volevano
però
mantenere
la
schiavitù.
In
realtà
Lincoln
poteva
fare
ben
poco
perché
la
Costituzione
gli
impediva
di
eliminarla
in
quegli
stati
dove
esisteva
già.
Personalmente
il
presidente
detestava
la
schiavitù.
Nato
infatti
in
Kentucky,
dovette
lasciare
il
suo
stato
per
l’Illinois
proprio
per
allontanarsi
da
essa,
e
già
ventunenne
si
oppose
alla
schiavitù
durante
il
mandato
al
parlamento
dell’Illinois
nel
1837.
Per
Lincoln
la
schiavitù
violava
la
promessa
della
Dichiarazione
di
Indipendenza
che
recita
espressamente
che
ogni
uomo
è
creato
libero
e
uguale
agli
altri.
Era
però
figlio
della
sua
epoca
e
comprendeva
bene
come
sarebbero
state
difficili
le
relazioni
tra
bianchi
e
neri,
e
come
questi
ultimi
sarebbero
stati
sempre
considerati
inferiori
ai
bianchi.
Il
presidente
in
realtà
maturò
la
sua
teoria
per
l’emancipazione
sull’idea
dei
neri
intesi
come
persone
e
non
come
neri
in
quanto
tali.
Quando
nella
Dichiarazione
di
Indipendenza
si
diceva
appunto
che
tutti
gli
uomini
erano
creati
uguali
si
intendeva
a
suo
parere
che
nessuno
poteva
schiavizzare
un
altro
suo
simile.
Ma
da
bravo
pragmatista
quale
era,
in
un
primo
momento
Lincoln
accettò
anche
l’idea
di
un’
emigrazione
dei
neri
americani
all’estero,
ad
esempio
in
Liberia,
dove
dal
1820
l’American
Colonization
Society
aveva
creato
degli
insediamenti
di
neri,
ma
il
costo
del
trasporto
sarebbe
stato
troppo
proibitivo
per
gli
Stati
Uniti
soprattutto
in
periodo
di
guerra.
Nel
1862
allora,
il
presidente
decise
di
incontrarsi
periodicamente
con
i
membri
del
suo
gabinetto
per
risolvere
il
problema.
Un
primo
punto
fu
che
alcuni
stati
come
Delaware,
Maryland,
Kentucky
e
Missouri
erano
si
schiavisti
ma
non
facevano
parte
della
Confederazione
e
quindi
Lincoln
non
poteva
in
un
contesto
di
guerra
permettersi
di
allontanarli
dall’Unione
eliminando
la
schiavitù.
Così
pensò
di
far
pagare
un
costo
di
400
dollari
a
schiavo
negli
stati
nordisti
per
liberarli,
ma i
costi
in
periodo
di
guerra
sarebbero
stati
troppo
proibitivi.
Ma
fu
durante
l’estate
del
1862
che
trovò
la
chiave
di
volta
per
risolvere
la
questione.
Fu
proprio
la
guerra
a
fornirgli
la
soluzione,
infatti
proprio
i
suoi
poteri
di
war
president
gli
permettevano
di
liberare
gli
schiavi
nel
Sud.
La
sua
teoria
era
che
seppur
il
Congresso
non
potesse
abolire
la
schiavitù
perché
la
Costituzione
lo
impediva,
il
presidente
in
tempo
di
guerra
ha
dei
poteri
esecutivi
che
non
ha
in
tempo
di
pace.
Egli
infatti
pensava
che
in
caso
di
ribellione
armata
contro
il
governo
degli
Stati
Uniti
da
parte,
in
questo
caso,
degli
stati
confederati,
i
suoi
poteri
di
comandante
in
capo
delle
forze
armate
erano
commisurati
ai
casi
particolari
che
avevano
portato
il
paese
in
guerra.
L’emancipazione
era
quindi
una
necessità
militare
per
salvare
l’Unione
e
tutti
gli
Stati
Uniti,
la
cui
piena
realizzazione
non
poteva
esserci
fino
a
quando
fosse
esistita
la
schiavitù.
I
poteri
di
guerra
gli
permettevano
di
servirsi
infatti
sia
di
truppe
regolari
ma
anche
di
quelle
ausiliarie.
In
questo
caso
quindi
i
poteri
del
presidente
potevano
bypassare
quelli
del
Congresso
e
eliminare
quindi
l’articolo
della
Costituzione
che
sanciva
l’esistenza
della
schiavitù.
La
Costituzione,
rifletteva
il
presidente,
considerava
i
neri
come
proprietà,
e
quindi
proprio
in
quanto
proprietà
in
caso
di
guerra
potevano
essere
usati
e
gestiti
come
necessario.
Lincoln
comprendeva
infatti
che
il
lavoro
degli
schiavi
era
essenziale
per
l’economia
di
guerra
della
Confederazione.
Venendo
meno
quella
forza
lavoro
il
sistema
del
Sud
sarebbe
collassato.
Comprendeva
pure
che
l’emancipazione
avrebbe
potuto
essere
un’ottima
arma
contro
gli
avversari.
Infatti
tecnicamente
lui
era
ancora
il
comandante
in
capo
delle
forze
armate
statunitensi
e
quindi
anche
di
quelle
del
Sud.
L’unione
americana
era
sancita
dalla
Costituzione
e
quindi
il
Sud
non
poteva
uscirne
unilateralmente.
La
Confederazione
uscendo
dall’unione
americana
aveva
violato
la
Costituzione
e
quindi
le
regole,
compresa
quella
sulla
schiavitù,
non
potevano
più
essere
applicate
agli
stati
del
Sud.
La
libertà
avrebbe
inoltre
costituito
un
incentivo
per
gli
schiavi
a
combattere
per
l’Unione.
Il
22
settembre
1862
cominciò
l’iter
giuridico
per
l’emancipazione
quando
il
presidente
comunicò
agli
stati
ribelli
che
avevano
cento
giorni
per
tornare
nell’Unione
altrimenti
tutti
gli
schiavi
sarebbero
stati
emancipati.
Ovviamente
spiegò
questo
atto
come
un
interesse
per
salvare
tutta
l’unione
americana,
ma
chiaramente
gli
stati
confederati
non
accettarono
la
proposta.
Cosicché
il
1°
gennaio
1863
Lincoln
emanò
ufficialmente
il
13°
emendamento.
Com’era
ovvio
la
Confederazione
non
riconobbe
l’autorità
di
Lincoln
come
suo
presidente
e
quindi
ne
ignorò
la
direttiva.
Ma
il
presidente
incontrò
opposizioni
anche
in
casa
sua.
I
Democratici
obiettarono
che
Lincoln
aveva
sempre
dichiarato,
fin
dal
suo
primo
discorso
inaugurale,
che
non
avrebbe
toccato
il
problema
della
schiavitù,
i
Conservatori
temevano
una
perdita
di
voti
nel
Nord
perché
Lincoln
era
stato
eletto
per
vincere
la
guerra
non
per
abolire
la
schiavitù.
In
realtà
l’emancipazione
fu
limitata
a
quello
che
gli
consentivano
i
poteri
di
guerra.
E
cioè
la
legge
era
applicata
in
particolare
a
quelli
stati
che
erano
in
ribellione
armata
contro
il
governo
degli
Stati
Uniti
o a
quelli
che
avevano
lasciato
l’Unione.
I
quattro
stati
già
citati,
e
cioè
Delaware,
Maryland,
Kentucky
e
Missouri,
che
non
erano
ribelli,
non
potevano
perciò
essere
soggetti
ai
poteri
di
guerra
del
presidente.
E
quindi
lì
la
schiavitù
restò
in
atto.
L’abolizione
non
avvenne
anche
in
quelle
parti
della
Louisiana
e
della
Virginia
che
si
erano
arrese
all’Unione.
Lincoln
aggiunse
inoltre
che
ogni
stato
confederato
che
avesse
ratificato
il
13°
emendamento
avrebbe
potuto
tornare
a
pieno
diritto
nell’Unione.
L’emendamento
venne
ratificato
dal
Congresso
nel
1865.
Ovviamente
non
implicava
l’immediata
liberazione
di
tutti
gli
schiavi,
ma
concesse
ad
esempio
la
possibilità
ai
neri
di
poter
entrare
nelle
forze
armate,
in
particolare
in
quelle
dell’Unione,
e
dopo
la
guerra
essi
non
potevano,
in
quanto
ex
militari,
essere
costretti
a
ritornare
schiavi.
Entro
la
fine
della
guerra
civile
ben
mezzo
milione
di
schiavi
fuggirono
dai
territori
del
Sud
per
andare
al
Nord,
e
così
ben
200.000
soldati
di
colore
combatterono
per
la
causa
unionista
nell’esercito
regolare.
Quindi
sebbene
all’inizio
Lincoln
avesse
giustificato
l’atto
come
un’esigenza
puramente
militare
per
difendere
l’Unione,
fu
in
realtà
un
modo
che
il
presidente
trovò
per
affermare
la
sua
autorità
anche
sulla
Confederazione,
perché
guardava
oltre
la
fine
della
guerra,
quando
quegli
stati
sarebbero
ritornati
sotto
l’unica
bandiera
a
stelle
e
strisce.
Voleva
a
tutti
i
costi
evitare
di
mettere
ancor
di
più
gli
uni
contro
gli
altri
i
cittadini
americani
tenendo
conto
che
il
Nord
avrebbe
dovuto
partecipare
alla
ricostruzione
del
Sud
devastato
dalla
guerra,
ma
anche
indennizzando
i
proprietari
terrieri
che
avevano
perso
la
forza
lavoro.
E
per
gli
ex
schiavi
Lincoln
proponeva
di
concedere
diritti
civili
e di
voto
a
tutti
quelli
che
avevano
combattuto
per
l’Unione.
In
fondo
anche
loro
erano
figli
della
stessa
Dichiarazione
di
Indipendenza.