N. 130 - Ottobre 2018
(CLXI)
Libia, un futuro incerto (ma non troppo)
Haftar,
nuova
soluzione
o
vecchio
problema?
di
Gian
Marco
Boellisi
Qualora
qualcuno
avesse
ancora
dei
dubbi
sul
futuro
politico
della
Libia,
gli
eventi
delle
ultime
settimane
hanno
diradato
le
incertezze
che
potrebbero
gravare
ancora
sulla
faccenda.
Infatti
ormai
si
ritiene
che
sia
solo
questione
di
tempo
prima
che
Khalifa
Haftar,
generale
libico
e
Capo
di
Stato
Maggiore
della
Cirenaica,
conquisti
definitivamente
una
posizione
predominante
in
Libia,
eliminando
così
le
divisioni
interne
del
paese
presenti
sin
dalla
fine
della
guerra
civile
del
2011.
Tuttavia
ciò
non
potrebbe
mai
essere
possibile
senza
il
placet
da
parte
di
svariati
attori
esteri
che
hanno
tutto
l’interesse
a
pacificare
un
paese
vitale
per
le
proprie
strategie
del
Mediterraneo.
Una
Libia
stabile
e
sicura
conviene
a
molti,
anche
se
questa
non
diventa
uno
stato
liberale
e
democratico
come
tanto
si
era
propugnato
durante
la
stagione
delle
Primavere
Arabe.
D’altronde
questo
atteggiamento
utilitaristico
non
dovrebbe
sorprendere
più
nessuno,
anche
se
lascia
sempre
dell’amaro
in
bocca.
Per
comprendere
meglio
ciò
che
con
grande
probabilità
attende
la
Libia
è
utile
guardare
l’intera
questione
in
prospettiva.
L’attuale
stato
di
caos
e
anarchia
presente
nello
stato
africano
non
è
altro
che
frutto
di
una
guerra
civile
mai
del
tutto
conclusa.
Dal
1969
fino
al
2011
la
Libia
è
stata
governata
dal
colonnello
Muʿammar
Gheddafi,
protagonista
del
colpo
di
stato
che
spodestò
re
Idris
I
dal
trono
e
mise
al
potere
un
regime
di
stampo
militarista.
Il
governo
di
re
Idris
I
mostrò
costantemente
atteggiamenti
di
sudditanza
nei
confronti
di
Stati
Uniti
e
Francia.
Ciò
causò
forti
ondate
di
malcontento,
in
particolar
modo
in
seno
ai
militari,
motivo
per
cui
questi
agirono
prendendo
il
potere.
Il
colonnello
Gheddafi
esercitò
la
propria
autorità
senza
ostacoli
fino
al
2011,
anno
in
cui
tutto
il
mondo
arabo
insorse
contro
i
regimi
dittatoriali
insediatisi
durante
gli
anni
della
Guerra
Fredda
e
fino
ad
allora
mai
contestati.
Tunisia,
Egitto,
Siria
e
perfino
parzialmente
Iran
e
Arabia
Saudita:
tutto
il
Medio
Oriente
si
sollevò
per
chiedere
maggiori
diritti
e
uguaglianza.
In
alcuni
paesi
queste
proteste
non
attecchirono
e si
spensero
senza
produrre
alcun
risultato,
mentre
per
altri
paesi,
quali
l’Egitto,
Libia
e
Siria
(questi
due
in
primis)
portarono
ai
risultati
che
abbiamo
tutti
sott’occhio
ogni
giorno
nel
telegiornale
della
sera.
In
particolar
modo
in
Libia
il
dissenso
si
trasformò
in
un
vero
e
proprio
movimento
di
lotta
armata,
sfociando
così
nella
Prima
Guerra
Civile
Libica.
Questa
fu
combattuta
tra
le
forze
lealiste
al
regime
di
Gheddafi
ed i
ribelli
supportati,
non
troppo
velatamente,
dall’intero
Occidente
sotto
l’egida
della
NATO.
Ovviamente
lo
squilibrio
di
forze
si
fece
sentire
sin
da
subito.
Le
ostilità
volsero
presto
a
favore
dei
ribelli,
i
quali
misero
la
parola
fine
al
conflitto
uccidendo
Gheddafi
il
20
ottobre
2011
nei
pressi
di
Sirte,
una
delle
ultime
roccaforti
rimaste
fedeli
al
regime.
Nonostante
la
fine
del
regime
le
tensioni
all’interno
dello
stato
africano
non
si
attenuarono.
Anzi,
tutto
l’opposto.
Come
spesso
accade
in
questi
casi,
i
vincitori
si
contesero
le
spoglie
e
così
ogni
fazione
belligerante,
ogni
clan,
ogni
tribù
esigé
la
propria
fetta.
Per
non
parlare
dell’Occidente,
con
Francia
e
Stati
Uniti
in
prima
fila
(ancora
una
volta),
a
chiedere
il
conto
per
il
supporto
politico
e
soprattutto
militare
fornito
agli
insorti.
Si
aprì
una
stagione
di
transizione
politica
molto
aspra,
in
cui
ognuna
delle
fazioni
tenute
insieme
per
più
di
40
anni
dal
colonnello
Gheddafi
si
contrappose
l’una
all’altra,
senza
esclusione
di
colpi.
Dopo
innumerevoli
tentativi
di
formare
un
governo
di
unità
nazionale
divenne
chiaro
a
tutti
che
ciò
non
poteva
essere
fatto
con
il
solo
agire
politico.
Dopo
vari
tentativi
andati
a
vuoto
nel
2014
la
situazione
sprofondò
ulteriormente.
I
partiti
islamisti
raggiunsero
infatti
la
maggioranza
nel
neocostituito
parlamento
a
discapito
delle
forze
centriste
e
liberali,
prefigurando
così
una
situazione
ancora
peggiore
del
previsto.
A
questo
punto
della
storia
intervenne
il
generale
Haftar,
ufficiale
di
grande
esperienza
sotto
Gheddafi,
il
quale
non
solo
intraprese
una
vasta
offensiva
contro
le
forze
islamiste
ormai
accumulatesi
da
mesi
nel
paese,
ma
sferrò
anche
un
attacco
contro
la
sede
del
parlamento
di
Tripoli
per
esigerne
la
dissoluzione
ed
indire
nuove
elezioni.
Ebbe
inizio
la
cosiddetta
“Operazione
Dignità”.
Questo
momento
costituì
il
punto
di
rottura,
marcando
l’inizio
della
Seconda
Guerra
Civile
Libica.
Da
allora
infatti
parte
del
parlamento
si
trasferì
a
Tobruk,
zona
resa
sicura
dalle
forze
dello
stesso
Haftar,
istituendo
de
facto
un
nuovo
governo
totalmente
indipendente
da
quello
di
Tripoli.
Qui
invece
si
insediò,
o
meglio
sarebbe
più
corretto
dire
fu
insediato
dall’inviato
speciale
dell’ONU
Bernardino
Leòn,
Fayez
al-Sarraj,
con
il
compito
di
formare
un
governo
di
unità
nazionale
ed
intraprendere
il
processo
di
unificazione
libico
in
via
definitiva.
Da
allora
la
Libia
è
rimasta
un
campo
di
battaglia
perenne,
tra
miliziani
del
sedicente
Stato
Islamico,
forze
leali
al
generale
Haftar
e
sparute
milizie
supportanti
il
governo
di
unione
nazionale
di
Serraj
in
lotta
per
ogni
granello
di
sabbia.
Tuttavia
negli
ultimi
mesi
la
situazione
è
cambiata.
Infatti
più
scorre
il
tempo
più
risulta
evidente
come
Haftar
sia
l’unica
forza
presente
attualmente
in
Libia
in
grado
di
riunificare
il
paese
sotto
un’unica
bandiera.
La
questione
è
che
la
sua
forza
non
è
politica,
ma
bensì
militare.
Ciò
non
sta
però
impensierendo
le
cancellerie
estere
più
di
tanto.
Al
contrario,
la
maggior
parte
della
comunità
internazionale
sta
virando
il
proprio
supporto
verso
Haftar,
poiché
resasi
conto
che
il
proprio
investimento,
politico
e
non
solo,
verso
Serraj
non
ha
portato
di
fatto
agli
obiettivi
sperati
quando
fu
deputato
alla
carica
di
Primo
Ministro.
Non
si
faccia
però
l’errore
di
pensare
che
Haftar
possa
dettare
il
bello
ed
il
cattivo
tempo
a
suo
libero
desiderio.
In
questo
momento
ricopre
una
posizione
di
forza,
ma
non
tale
per
cui
possa
agire
senza
cercare
aiuto.
Infatti
le
truppe
del
generale
da
sole
non
sono
sufficienti
a né
ad
arrivare
a
Tripoli
né
tantomeno
ad
esercitare
un
reale
ed
efficiente
controllo
sull’intero
territorio
nazionale.
È
dal
2014
che
i
soldati
di
Haftar
combattono
una
guerra
su
più
fronti,
con
una
particolare
attenzione
verso
le
forze
islamiste.
Per
questo
motivo
le
truppe
risultano
essere
fiaccate
nell’animo
e
nei
mezzi
dopo
4
anni
di
conflitto
senza
sosta.
Tenendo
bene
a
mente
ciò,
il
generale
ha
iniziato
a
cercare
alleati
nelle
varie
forze
tribali
che
abitano
il
complesso
mosaico
della
società
libica.
Il
suo
interesse
si è
concentrato
nelle
vicinanze
di
Tripoli,
in
particolare
a
Tahrouna,
sede
della
Settima
Brigata,
una
delle
forze
più
considerevoli
rimaste
in
Libia.
Non
si
sa
quali
siano
i
termini
dei
negoziati,
ma è
molto
probabile
che
gli
scontri
di
fine
settembre,
in
cui
la
Settima
Brigata
è
stata
ampiamente
coinvolta,
non
siano
stati
altro
che
una
prova
generale
per
testare
le
vere
capacità
di
difesa
del
governo
centrale
prima
dello
spettacolo
finale.
La
resa
dei
conti
quindi
sembra
essere
piuttosto
vicina.
Un’altra
realtà
tribale
importante
di
cui
Haftar
deve
tenere
assolutamente
conto
è
quella
dei
Warfalla,
con
sede
principale
a
Bani
Walid.
Qui
vi
risiedono
tribù
che
in
passato
furono
tra
le
fedelissime
del
colonnello
Gheddafi
e
che
ora
si
sono
stancate
di
supportare
un
governo
fantoccio.
Proprio
questo
risentimento
è la
chiave
di
volta
che
molto
probabilmente
Haftar
sfrutterà.
Infatti
quasi
tutte
le
tribù
della
Tripolitania
si
sono
stancate
di
supportare
un
governo
filo
occidentale
che
non
si
sta
curando
degli
interessi
comuni
ed
in
generale
non
è
minimamente
in
grado
di
garantir
loro
la
sicurezza.
Haftar
è
l’unica
soluzione
all’orizzonte
che
possa
assicurare
un
minimo
di
prospettiva
per
il
futuro.
Il
rapporto
Haftar-tribù
risulta
quindi
essere
il
tema
essenziale
del
futuro
libico
a
breve
e
medio
termine.
Bisogna
tuttavia
fare
attenzione
poiché
questo
rapporto
non
è
per
nulla
unidirezionale.
Infatti
così
come
Haftar
ha
bisogno
delle
tribù
per
avere
il
controllo
del
territorio
libico
in
maniera
capillare,
così
le
tribù
hanno
bisogno
di
Haftar,
o di
un
qualsivoglia
potere
centrale
forte,
che
amministri
lo
stato
e
riesca
a
fornire
loro
i
mezzi
(leggere:
armi,
munizioni,
viveri,
logistica
in
genere)
per
esercitare
il
controllo
sul
territorio
stesso.
Un
rapporto
molto
fragile
e
delicato
quindi,
in
cui
qualora
uno
dei
due
elementi
venga
meno
l’altro
non
tarderà
a
seguire
la
stessa
sorte.
Il
grande
interrogativo
al
momento
riguarda
le
tempistiche.
Infatti
non
si
sa
se
il
generale
aspetterà
di
essere
legittimato
in
qualche
modo
dalla
comunità
internazionale
oppure
agirà
secondo
i
propri
tempi
e le
proprie
priorità.
Quest’ultima
opzione
sicuramente
dimostrerebbe
la
propria
indipendenza
rispetto
alla
volontà
di
attori
esteri,
facendo
guadagnare
ad
Haftar
ancora
più
punti
sul
suolo
nazionale.
Sta
di
fatto
che
la
comunità
internazionale,
intuendo
il
cambio
del
vento,
si è
già
attivata.
Infatti,
avendo
percepito
la
morte
politica
di
al
Serraj,
l’inviato
dell’ONU
Ghassan
Salamé
ha
già
iniziato
a
scaricare
verbalmente
il
premier
di
Tripoli.
Si
dice
addirittura
che
Serraj
abbia
già
garantito
un
salvacondotto
per
l’estero
per
uscire
in
maniera
pulita
una
volta
che
Haftar
avrà
marciato
sulla
capitale.
Voci
di
corridoio,
è
ovvio,
ma
questo
ci
può
far
comprendere
veramente
in
che
direzione
stiano
andando
le
cose
realmente
in
Libia.
L’ultimo
fattore
da
tenere
in
considerazione
è il
supporto
estero
di
cui
Haftar
gode.
Sarebbe
sciocco
infatti
pensare
che
anch’egli
non
abbia
attori
importanti
che
lo
supportino
e ne
promuovano
l’operato.
Nelle
immediate
vicinanze
vi è
l’Egitto,
paese
che
si
sta
affermando
nuovamente
come
potenza
regionale,
il
quale
più
di
una
volta
ha
fornito
supporto
militare
alle
truppe
di
Haftar
sperando
così
di
vedere
il
proprio
confine
ovest
tornare
sicuro.
Tuttavia
i
maggiori
alleati
del
generale
non
si
trovano
nelle
vicinanze.
Il
primo
e
forse
il
più
grande
è la
Russia,
la
quale
ha
sempre
sostenuto
il
generale
militarmente
e
soprattutto
politicamente.
Sin
dalla
divisione
della
Libia,
la
Russia
ha
cercato
di
creare
le
condizioni
adatte
affinché
il
generale
potesse
attraversare
Tripoli
sul
carro
della
vittoria.
Questo
investimento
della
durata
di 4
anni
sembra
aver
dato
i
suoi
frutti
quest’anno.
Infatti,
secondo
il
quotidiano
britannico
The
Sun,
la
Russia
avrebbe
installato
in
gran
segreto
due
basi
militari,
una
a
Bengasi
ed
una
a
Tobruk,
zone
sotto
diretto
controllo
delle
forze
di
Haftar.
Qui
vi
risiederebbero
personale
militare
del
GRU
e
delle
Forze
Speciali
russe,
nonché
svariati
elementi
appartenenti
a
Wagner,
ormai
nota
compagnia
di
contractor
russa
ampiamente
impiegata
in
Siria.
Oltre
alle
forze
di
terra
sarebbero
già
state
installate
batterie
di
S-300,
ovvero
sistemi
di
difesa
missilistici
terra-aria,
e
missili
anti
nave
Kalibr.
Questi
ultimi
potrebbero
costituire
un
particolare
punto
di
squilibrio
nell’attuale
scacchiera
mediterranea.
Infatti
essi
sono
capaci
di
trasportare
una
testata
nucleare,
nella
loro
versione
3M-14/3M-14T,
con
gittata
di
2500
km.
Milano
sarebbe
a
solo
a
qualche
minuto
di
volo
per
intenderci.
Ovviamente
sia
l’ambasciata
russa
a
Londra
che
il
Ministero
degli
Interni
russo
stesso
hanno
smentito
categoricamente
queste
voci.
Tuttavia
non
è la
prima
volta
che
si
rincorrono
rumors
sulla
presenza
russa
in
Libia.
Cosa
porterà
questo
corso
di
azioni
lo
scopriremo
sicuramente
molto
presto.
Il
secondo
attore
a
supporto
di
Haftar
è,
non
ci
sarebbe
neanche
bisogno
di
dirlo,
la
Cina.
Di
gran
lunga
più
defilata
della
Russia,
la
Cina
al
momento
sta
solo
cercando
di
dare
supporto
economico
al
paese
africano,
tentando
così
di
riacquisire
lo
status
di
cui
godeva
sotto
il
colonnello
Gheddafi.
Pechino
infatti
usufruiva
di
una
posizione
privilegiata
sotto
il
vecchio
regime,
posizione
che
è
andata
perduta
del
tutto
durante
e
dopo
la
guerra
del
2011.
Conscio
dell’importanza
che
l’Africa
ha
negli
equilibri
geopolitici
mondiali,
Xi
Jinping
ha
in
piano
di
effettuare
enormi
investimenti
nei
prossimi
anni
per
il
continente
nero.
Della
prima
tranche
di
fondi,
che
ammonterà
a 20
miliardi
di
dollari
su
un
totale
di
circa
120,
5
miliardi
saranno
destinati
alla
Libia.
Per
ora
si
tratta
solo
di
aiuto
finanziario.
In
futuro?
Lo
vedremo.
In
conclusione,
la
Libia
sta
vivendo
un
periodo
di
transizione
storica
di
non
indifferente
importanza.
Colpita
in
maniera
estremamente
violenta
dalla
stagione
delle
Primavere
Arabe,
essa
ha
per
la
prima
volta
dopo
7
anni
l’opportunità
di
riavere
un
governo
stabile
che
non
rischi
di
cadere
al
primo
soffio
di
vento.
Tuttavia
queste
considerazioni
non
devono
ingannare.
Nonostante
il
popolo
si
stia
convincendo
ogni
giorno
di
più
che
Haftar
sia
l’unico
a
poter
garantire
la
sicurezza
di
un
paese
che
ormai
ha
dimenticato
cosa
questa
voglia
dire,
il
generale
potrebbe
riportare
la
Libia
in
una
nuova
deriva
militarista
sfruttando
il
particolare
momento
storico.
Il
fatto
di
essere
l’uomo
giusto
al
momento
giusto
potrebbe
rivelarsi
una
lama
a
doppio
taglio,
in
primis
per
il
popolo
libico
stesso.
Sullo
scacchiere
libico
vanno
però
anche
considerate
le
pressioni
esterne.
Dallo
scenario
attuale
si
può
dedurre
come
l’Occidente
avrà
ben
poca
voce
in
capitolo
sul
nuovo
ordine
libico,
sostituito
in
toto
da
Russia
e
Cina,
ritenuti
partner
ben
più
affidabili
sul
medio-lungo
termine.
Causa
di
questa
sfiducia
totale
è
sicuramente
la
campagna
militare
del
2011,
condotta
con
veemenza
nelle
prime
fasi
allo
scopo
di
spodestare
Gheddafi
ma
senza
alcun
progetto
politico
alla
base
per
ricostruire
il
paese
nel
post-conflitto.
La
Libia
ha
bisogno
di
certezze,
questo
è
sicuro,
ed
il
generale
Haftar,
con
aiuto
di
Russia
e
Cina,
è
pronto
a
fornirgliene
prontamente.